Dal patibolo alla moda
Marco Dotti
Un secolo di moda femminile. Parigi 1789-1894, traduzione di Roberta Ferrara, con una nota di Daria Galateria, Sellerio, Parlermo 2009.
Si possono giustiziare le donne? A Jules Michelet, autore di un celebre libro sulle donne della Rivoluzione, l’aberrazione sembrava lampante: persino la «politica più elementare avrebbe dovuto sopprimere la pena di morte per le donne. La pena di morte uccideva la Repubblica». Mentre le teste cadevano, ai margini degli stessi patiboli fiorivano leggende più o meno nere, ma quasi sempre legate alle “ultime parole famose” pronunciate dalle condannate.
Nel 1793 era stata la volta di Olympe de Gouges, giornalista e autrice di teatro che, dopo avere pubblicato la Dichiarazione di indipendenza della donna e della cittadina, si era concessa il lusso di criticare l’incriticabile e cupo Maximilien de Robespierre. Un lusso non consentito alle donne alle quali tutt’al più – sottolineava in una della sue ultime lettere la sarcastica Olympe – si concedeva di salire i tre gradini che portavano al patibolo. Ma, preseguiva Olympe, perché lo stesso diritto non deve essere loro riconosciuto, quando aspirano a salire lungo le scale non meno austere e pericolose dell’amministrazione centrale e del governo della cosa pubblica? Nell’estate del 1794, sorte non più felice toccò a Aimée Cécile Renault, una sartina monarchica trovata in possesso di un paio di coltelli e condannata dal Comitato di Salute pubblica, assieme a padre, fratello e alla vecchia zia monaca, per avere cospirato contro la vita di Robespierre. Poco prima che la ghigliottina espletasse il suo macabro compito mozzandole il capo, la Renault impresse il proprio nome nella storia delle dicerie con una frase ad effetto che era al tempo stesso una vera e propria lezione di stile. Reclinando il capo sul ceppo, si rivolse al suo esecutore con una voce gentile chiedendogli: «sono a posto così, signor boia?». Lo scrittore svizzero Friedrich Glauser, in un suo racconto sul 27 luglio 1794 (data della caduta di Robespierre), parla di un presagio di terrore che, come un brivido, cominciò a correre lungo la schiena di chi assisteva. E chi assiteva, in qualche modo, lo faceva anche per un rituale macabro e voyeuristico. Si andava alle esecuzioni per vedere il sangue, ci si disputava per i posti migliori e, soprattutto, ci si vestiva di rosso, di quel rosso la cui tinta particolare assumeva allora il nome di qualche famoso condannato. Il rosso Foulon, ad esempio, prendeva il proprio da Joseph François Foulon de Doué, consigliere di Stato e temutissimo intendente generale dell’esercito impiccato il 22 luglio 1789 davanti al municipio di Parigi, con l’accusa di essere un «affamatore del popolo». In tempi di esecuzioni, dunque, andava di moda il rosso scuro che rinnovava così la tavolozza della moda fino ad allora dominata dalle mezzetinte come il «caca dauphin», nome ispirato agli escrementi del Delfino di Francia e tuttora in uso negli indici cromatici internazionali.
Dopo la Rivoluzione, vennero di moda le acconciature alla greca, quelle ispirate ai quadri di David e le parrucche bionde, fino a che il governo in preda al delirio paranoico non le abolì, tacciando anche i capelli posticci di sentimenti nostalgici per l’ancien régime: la controrivoluzione, in qualche modo, era già iniziata. Ma fu soprattutto dopo il colpo di stato del 9 termidoro, nel 1794, che l’euforia per la moda cominciò a diffondersi un po’ ovunque poteva: riviste, sciarpe, ventagli… Fino a che Napoleone dedise di mettere un po’ di ordine anche in quel settore, come ricorda Daria Galateria nella nota che accompagna una deliziosa plaquette, edita a Parigi nel 1896, da Charpentier et Fasquelles con il titolo Un siècle de modes féminines (1794-1894) e ora proposta nella collana “La memoria illustrata” di Sellerio. Il volume raccoglie i figurini acquarellati pubblicati su riviste come il Moniteur de la mode o il Journal des demoiselles, facendo il punto sui mutamenti del gusto in un secolo di sconvolgimenti rivoluzionari e riassestamenti borghesi. Un secolo in cui le donne – si legge nella nota anonima anteposta alla pubblicazione originale e nell’edizione Sellerio opportunamente riprodotta – sono passate dal riso all’ozio e dall’ozio alla vivacità più sfrenata, fino a quando i grandi magazzini non cominciarono a imporre la legge del “nuovo per il nuovo”, dell’acquisto isterico a tutti i costi e anche la moda cominciò a risentire di quella nuova, profonda irrequietezza che, su altri fronti, prendeva già il nome di “moderno”.