philosophy and social criticism

Devi cambiare la tua vita

Marco Dotti

Du mußt dein Leben ändern, «devi cambiare la tua vita». Davanti a un antico torso di Apollo, esposto nelle sale del Louvre, è questa la voce che ingiunse a Rainer Maria Rilke un imperativo etico di conversione. Nel 1908 Rilke tradusse quella «voce» nei versi di apertura della seconda parte delle Nuove poesie: «il suo torso arde ancora (…) / non vi è punto, qui, che non ti veda. Devi cambiare la tua vita». Prendere le mosse dalla poesia di Rilke per riflettere sulle complesse dinamiche del «lavoro su di sé» e sulla conversione in senso lato ha i suoi indubbi vantaggi. Questo il senso più intimo della «pratica filosofica» secondo Peter Sloterdijk, di cui l’editore Raffaello Cortina ha mandato in libreria un monumentale lavoro che a Rilke si richiama fin dal titolo, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica (edizione italiana a cura di Paolo Perticari, traduzione di Stefano Franchini, Milano 2010).

Nell’esperienza estetica, osserva Peter Sloterdijk, abbiamo imparato ad accostarci a una forma di autorità che non sottomette il soggetto e, soprattutto, che fa propria una «esperienza non repressiva della differenza gerarchica». L’opera d’arte in quanto tale può ancora dire qualcosa e, soprattutto, può dirlo proprio agli epigoni del moderno, a «noi, che abbiamo disertato la forma», stimolando una «chiamata all’elevazione» che, avendo come obiettivo quella che i greci chiamavano «saggezza», sia produttiva di cambiamento. La poesia d’altronde – se stiamo alle parole di Paul Celan, anch’egli chiamato in causa da Sloterdijk – «elle ne s’impose plus, elle s’expose». Ma perché «cambiare la propria vita»? Perché spiegare e, addirittura, dispiegare un intero volume a partire da un verso all’apparenza chiaro come «devi cambiare la tua vita»? Che cosa è in gioco, che cosa è esposto nella forma di un torso marmoreo? Gli ultimi due versi della poesia – che intensificano l’idea di «torso isolato», omaggio a Auguste Rodin, maestro dei suoi anni parigini – hanno sempre affascinato i lettori di Rilke. Forse perché, osserva Sloterdijk, suscitano la sensazione di avere a che fare con qualcosa che «scardina, per così dire, la creazione lirica nel suo complesso, come se quest’ultima fosse soltanto il viatico per approdare a un culmine, in vista del quale viene esposto tutto il resto». L’aspetto perturbante dei versi sta però in quel richiamo allo spettatore, non solo osservatore attivo, ma osservato da ogni punto della statua: infatti – scrive Rilke – «non vi è punto, qui, che non ti veda». Verso che sembra indicare come il torso di Apollo osservi l’osservatore, scrutandolo però più in profondità nella carne di quanto questi non sappia fare con la superficie levigata del marmo. Il doppio sguardo dell’osservatore-osservato apre all’«ambiguità» costitutiva di un gesto interiore che coincide con la religiosità, poiché dove questa ambiguità «vive, soggetti e oggetti si scambiano il posto in maniera flessibile».

Frequentando lo studio di Auguste Rodin, tra il 1902 e il 1906, Rilke ebbe modo di riflettere sul modo di trattare materie refrattarie, tanto da trasformare la superficie di un corpo in un’unica trama di «punti» modellati e luminosi. Proprio parlando delle sculture di Rodin, dunque, lo stesso Rilke aveva notato come in esse vi fossero «punti senza fine e non uno in cui qualcosa non accadesse». Ogni punto, commenta Sloterdijk, è per Rilke e Rodin una sorta di luogo eccentrico nel quale Apollo, dio della superficie e della forma, trova un compromesso con Dioniso, divinità del fluire, rendendo in questo modo comprensibile la massima nicciana che la profondità è nascosta nella più chiara superficie. Il torso di Apollo è inteso quindi dalla lettura di Sloterdijk nella sua natura poetica, esposta à la Celan: il torso infatti si espone, ma non si impone e da ciò ricava la sua autorevolezza etica, la sua capacità di una chiamata vincolante. Ciò che conta, infatti, è che il soggetto che lo guarda riesca realmente a vederlo. Al tempo stesso occorre «aver fede» in esso, dove l’espressione «aver fede» – punto centrale della corposa e complessa ricerca di Peter Sloterdijk – designerebbe «le operazioni interiori necessarie per pensare il principio vitale, presente nella pietra, come un mittente di energie discrete ben indirizzate».

«Devi cambiare la tua vita» è assunto da Sloterdijk come l’imperativo metanoico e di conversione per eccellenza, parola chiave che, declinata alla seconda persona singolare – «tu» – provoca nel soggetto una tensione verticale che indirizza il cambiamento. Questa chiamata, prosegue Sloterdijk, coincide con il più intimo non-ancora del soggetto chiamato, incarna una protesta assoluta contro lo status quo e l’inerzia, dà forma a una vera e propria rivoluzione spirituale in nome di un atletismo affettivo.

Forse è a questo, suggerisce il filosofo tedesco, che la crisi attuale «chiama»: non più torso apollineo, non più superficie di marmo, ma «voce» dispersa sulla superficie del globo che, in ogni punto, rende esplicito l’implicito, ricordandoci che «in questo modo non si può più continuare» e così facendo, ci espone alla necessità di cambiamento. Per questa ragione, conclude Sloterdijk, l’unica autorità morale che oggi può dirci «devi cambiare la tua vita!» è la crisi globale. Facile a dirsi, ma il farsi richiede esercizio, pratica, saggezza.

[da Il manifesto, 10 novembre 2010]

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