philosophy and social criticism

Distanza, alienazione, disumano. Conversando con Erich Fromm

Martina Biscarini

L’unica forma di rito praticata nella nostra cultura è quella dellacompetizione fra due individui o gruppi
Erich Fromm, I cosiddetti sani

Potrei iniziare con il dirvi tante cose filosoficamente profonde, che peròErich Fromm, grande osservatore della cultura occidentale post-bellica, ha detto meglio di me. Nel suo celeberrimo Essere o Avereci racconta come in una società industriale l’aspirazione a ottenere una proprietà, conservarla e farla fruttare appartenga a tutti, dal capitalista al piccolo borghese. I poveri difatti possiedono comunque qualcosa, sono comunque ossessionati dall’idea di conservarlo e quest’ossessione sfocia patologicamente in pensieri come: “io sono perché ho il mio lavoro”, “io sono perché ho la mia casa”. La felicità è dunque delegata alla possessione: dura poco, è consumata presto.

In un volume molto meno celebre ma da riscoprire, I cosiddetti sani (1953), Fromm va oltre affermando che la volontà di conservazione di una società porta a incoraggiare il conformismo perchéla sua sopravvivenza risiede nell’aspirazione dei suoi membri a fare quel che devono fare (zelo).

Fromm ci mette anche in guardia da un altro discorso, nato post-guerra. Un pensiero di questo tipo: “La nostra società […] rappresenta la meta e il compimento di ogni umana aspirazione. Èquesto il modo in cui vivono le persone normali, mentre tutte le società esistite finora o fino a centocinquant’anni fa erano retrograde”. La falsa oggettività di quest’affermazione è lampante, a mio parere, in questi ultimi decenni nei quali lo stile di vita occidentale, inteso come compimento perfettissimo di un discorso di progressione dialettica di matrice epistemologica ottocentesca, è stato messo in crisi su vari fronti.

Senza dedicare troppo spazio a evoluzioni epistemologiche difficili, siccome il problema che porta tanta gente ai giorni nostri a non provare niente alla morte di bambini in mare è principalmente l’alienazione di matrice depressiva, sentiamo cos’aveva da dire Fromm sessant’anni fa su questo punto. Se si postula che la depressione non è dolore, ma l’assenza di qualsiasi emozione (si tratta dunque di distanza emotiva alienante): “le persone normali sono in gran parte depresse poiché l’intensità delle loro emozioni si èalquanto ridotta”. Il filosofo ritrova l’origine di questa “patologia di massa” nell’alternarsi tra lavoro e divertimento, nell’occupare a forza il tempo in un flusso senza fine (la routine). La ritrova inoltre nell’eccessiva importanza data alla sicurezza (“la nostra cultura tende a creare individui che non hanno piùcoraggio […] veniamo educati ad aspirare alla sicurezza come unico scopo nella vita. Ma possiamo ottenerla solo a prezzo di un completo conformismo”). Quando però i pilastri di quella stessa sicurezza (la disponibilità economica, l’investimento pubblico, lo sfruttamento infinito delle risorse) piano piano si sgretolano il problema diventa enorme perché il conformismo di chi crede di vivere nel migliore dei mondi èdirettamente proporzionale all’impossibilitàdi pensare ad alternative.

Tutte le cose, gli oggetti, i concetti, su cui l’uomo occidentale ha basato la sua identità stanno al giorno d’oggi ricevendo un forte scossone. La persona “normale” (direbbe Fromm) e alienata si aggrappa fortemente a quello che ha e lo difende dall’Altro anche quando non ce n’èbisogno, perdendo un altro pezzettino di umanità dietro se e alienandosi ancora di più.

Cos’èl’alienazione secondo lei, professor Fromm?
“Alla lettera, alienazione significa essere diventati estranei a se stessi o che il mondo esterno ci è diventato estraneo. […] Vorrei subito dichiarare la mia convinzione che in ogni società gli uomini vengono plasmati in larga misura dalle condizioni economiche e sociali in cui vivono”.

Un pensiero marxiano applicato alla psicoanalisi. Un approccio decisamente di sinistra ma che parte della base della sinistra, almeno in questo paese, sicuramente ha perso. Mi riferisco a frasi del tipo: “Gli italiani sono tutti razzisti/ fascisti”, un’affermazione snob, aprioristica e profondamente auto-razzista, se il razzismo altro non èche affibbiare arbitrariamente una qualità supposta innata ad un popolo. Insisto su questo punto perché credo sia fondamentale che la sinistra del domani incoraggi la propria base a lasciar perdere questo tipo di atteggiamento che, oltre ad aver fatto il suo tempo, èpericoloso poiché a suo modo “di pancia” e perché pone altre barriere tra le persone (e le pone dall’alto di una superiorità intellettuale che, lassù dove viene innalzata, non serve a nessuno) quando invece il problema all’ordine del giorno dovrebbe essere trovare una maniera per scendere dal piedistallo e comunicare.

Dalla stampa del 1953 (l’anno in cui ènato mio padre, e l’attualità di queste parole mi fa piuttosto impressione) Fromm ci dàun esempio evidente di come l’umanità puòvenir distanziata a parole:

“Un necrologio del New York Timesha per esempio questo titolo: ‘Morto un fabbricante di scarpe’ […]. Chi è morto? Èmorto un uomo, è morta una donna. […] Parlare di una persona come di un ‘fabbricante di scarpe’ equivale a parlare di una merce nei termini del suo valore di scambio, del suo prezzo”.

“Arrivano, loro.”, “Sbarcano, loro”, “Vivono in alberghi cinque stelle, loro”, “E noi?”. Ecco quale discorso, quale distanza sottende la mancanza di emozioni alla vista di cadaveri di bambini in mare. Chi è morto appartiene a una categoria di scambio diversa dalla nostra, peraltro di poco valore commerciale (provocazione). Anzi, il loro valore compete col nostro, vengono a portarci via tutto ciò in cui abbiamo infuso la nostra felicità mentre la sinistra (che non sa piùparlare al “popolo” da tempo, altrimenti “il popolo” si renderebbe conto che la situazione èmolto più complessa) li riempie di privilegi che a noi non dà. Dunque i morti non sono più uomini, non sono più bambini. “Sono morti degli immigrati, sono morti loro – mica noi”. E loronon hanno importanza.

Le parole creano mondi e smuovono immaginari: èstato fatto notare come il termine “buonista” faccia risultare l’umanità una colpa o su come la difesa di una serie di valori (solidarietà, umanità ecc) sia stata bollata come “pensiero unico”, dunque conformista. La mossa comunicativa è assegnare una nuova connotazione negativa a valori positivi, contando sulle paure della gente e sul diritto alla libertà di pensiero e di parola, anche quando pericoloso e disumano.

(Chi scrive non è contro la libertà di parola, ci mancherebbe, sarebbe fascismo. Chi scrive è per un ritorno a una gerarchia da stabilire nelle opinioni, anche contrastanti, ma quantomeno fondate su ragionamenti e analisi serie).

La distanza, dicevamo. La distanza garbata, piccolo borghese, il muricciolo posto in nome della propria sicurezza che non stimola a uscire dalla propria tana per entrare nei luoghi dove il supposto nemico vive. Non porta a recarsi su quelle spiagge dove compaiono cadaveri. Non porta a mettere alla prova le sicurezze delle proprie convinzioni per inerpicarsi (coraggiosamente) in dialoghi anziché monologhi. Siècoraggiosi solo sfogando la propria violenza a monologhi, solo frapponendo a un corpo che vibra, o a un corpo morto, distanza emotiva. Chi l’avrebbe mai detto a George Orwell che il Minuto d’Odiosarebbe diventato eterno e messo per iscritto?

Che poi, se è vero che il medium è il messaggio(McLuhan) in questa ontologica (stavolta sì) distanza risiede il fallimento di Facebook come piattaforma di discussione. Facebook è fatto di uno schermo e di scrittura, due elementi che distanziano ancora di più, alienano ancora di più, creano ancor piùbarriere. Chi scrive non ha un corpo davanti, non vibrano d’emozione le corde vocali dell’interlocutore. Facebook è una delle sedi principali di monologhi, ma rare volte (ed escludendo il Messenger) è stata occasione di dialogo.

Però la gente di emozioni ne prova, vero professor Fromm?
“Ogni essere umano, a meno che non soffra di gravi disturbi psichici, prova emozioni.” Non ci piove. “Se è distaccato, chiuso in se stesso e privo di relazionalità come ho appena descritto, viene a crearsi una situazione particolare. Egli prova emozioni, ma senza riferirsi concretamente a qualcosa di reale”.

In una parola, i sentimenti indotti (l’indignazione manovrata dai media, la paura, emozioni sorte da un certo modo fazioso di raccontare storie) sono il miglior alleato dell’alienazione e della perdita di umanità. Si dice spesso che le immagini forti, dopo un iniziale choc, servano da anestetico: ecco, ciò che viene anestetizzato è proprio il sentimento che si trasforma in sentimentalismo.

Un esempio di dispercezione dato dal sentimentalismo indotto: mio padre mi racconta di aver assistito, durante una conferenza, a un dialogo tra un capitano dei carabinieri che sciorinava dati reali per far capire a una signora che nel proprio paese, di fatto, l’attività criminale era in calo. Quest’ultima ribatteva: “Dica quel che vuole, io ho paura”.

Ora, dopo questo lungo cappello teorico, ringraziamo e congediamo il professor Fromm e veniamo al dunque.

L’Italia è andata avanti per anni facendo debito per mandare avanti i settori pubblici, quando l’economia, nel mondo occidentale, seguiva volentieri il principio keynesiano. “Purtroppo”, scrive Raffaele Alberto Ventura nel suo provocatorio volume La generazione precaria, “Il meccanismo si è inceppato e oggi ci troviamo i creditori alle calcagna. Quel debito che a lungo era sembrato naturale, oggi è diventato un serio problema”. In virtù di questo problema è stato richiesto agli italiani di pensare in termini di austerity: il mondo che nasce dal 2009 in poi è un mondo di sacrifici per un bene superiore, di esodati, di tagliatori di teste, di lacrime di coccodrillo di ministri messi alle strette dalla crudeltà delle dinamiche di mercato. Non fatica l’uomo medio (aiutato alla confusione delle fake news, vera piaga), a pensare che l’umanità si possa sacrificare in nome di un bene superiore (il proprio, quello della propria economia) poiché teme che gli vengano portati via soldi pubblici e privati, welfare e lavoro. Non calcola, l’uomo medio, che la distruzione dello welfare e la crisi del lavoro esisterebbero anche senza il flusso migratorio, ça va sans dire. Chi crede, consciamente o meno, in questa rinuncia a parte della propria umanità per un bene superiore, nel caso in cui qualcuno alzi la voce ed esprima gli umori degli altri, fa gruppo, come quando si fa del marketing per vendere un oggetto creando comunità. In un mondo di alienazione e distacco come quello attuale, la creazione di comunità è fondamentale per raggiungere uno scopo, e lo sanno bene gli esperti di marketing nel mondo del profit. Difendere da soli le proprie idee è infinitamente piùdifficile. Il gruppo, dicevo, nasce attorno a comunicatori che a gran voce sembrano difendere quella comunità sprovvista di strumenti obiettivi per decifrare il reale, i suoi veri rischi e le sue possibilità.

Ecco fornire tali strumenti dovrebbe tornare a essere il ruolo del pensiero progressista, che io (vetustamente se volete) chiamo “di sinistra”.

In questo momento spero che pensatori piùfini della sottoscritta cerchino di risolvere la questione della crisi nella crisi, e cioè del vuoto lasciato da una pressoché totale assenza di pensiero progressista (intendendo con “progresso” un generico procedere in avanti e non un arrancare per compromessi salvando il salvabile). Da parte mia quello che posso dire è che so per certo quale atteggiamento invece risulta inutile e dannoso. Amo chiamarlo “sinistra reazionaria” e si riassume nell’innatismo citato sopra (“Tutti gli italiani sono, per nascita, razzisti”), nel vantare la propria cultura e coscienza politica rispetto a un’indefinita massa di trogloditi (senza alzare dito, beninteso, per l’emancipazione di questi ultimi, che è anche la nostra dato che il suffragio èancora universale) nel bistrattare solo ed esclusivamente l’Italia esaltando gli altri paesi senza rendersi conto che la crisi (anche la crisi dell’educazione) avvolge, con effetti diversi da nazione a nazione, tutto il sistema capitalistico.

“Sinistra reazionaria” (e dunque sinistra apparente) perché non c’èniente di progressista in questo modo di vedere le cose: semplicemente, a causa di preconcetti, non ci si sforza di fare analisi serie o di agire per cambiare le cose. Al limite si fanno delle osservazioni pedanti. D’altronde, perchéci si dovrebbe dar pena di comunicare con “un popolo che crede agli oroscopi e alle stimmate di Padre Pio” (cito a memoria un articolo di cui non vi diròla fonte)? Se certe caratteristiche fanno parte ontologicamente di un popolo èscontato che niente mai cambierà! Come si può chiedere a una foglia d’erba di non essere piùverde se quella caratteristica ènella sua natura?

Che reazioni ha il pensiero di sinistra reazionario? Usa fare mini-ritirate sull’Aventino usa dichiarare sui social che farà pulizia di contatti, rifiuta qualsiasi comunicazione con chi manifesta un altro pensiero (“È inutile stargli a spiegare che dati e statistiche dicono il contrario”, dice sempre quell’articolo di cui non voglio dirvi la fonte per non alimentare una polemica inutile, a proposito della categoria astratta di Italiano Medio). Il reazionario di sinistra dichiara poi che parla solo dell’Italia perché: “Ah ma io sono italiano, parlo di quel che conosco” – un discorso non piùtollerabile ai giorni nostri quando (almeno quello!) libri seri e analisi serie sono disponibili, anche a poco prezzo, anche gratis in pdf. Limitarsi a dire: “Conosco l’Italia” equivale a dire “la mia visione èespressamente molto parziale”, dato che l’Italia èparte di un sistema e rappresenta solo una piccola frazione della grossa bega internazionale che ci troviamo a fronteggiare.

Népaga l’esterofilia becera della sinistra reazionaria. Penso ad esempio a quel memeche settimane fa girava su internet, in risposta a una brutta dichiarazione di un noto politico provocatore, dove si mostrava come paesi come la Svezia fossero virtuosi perché accolgono molto piùmigranti che l’Italia. Bene, bravi. Peccato che il problema, la posizione imbarazzante in cui il Regolamento di Dublino ha messo i paesi del Mediterraneo (Italia e Grecia per prime) sia legato a chi nonviene accolto, che, una volta rifiutato torna ad essere responsabilità del paese dov’èsbarcato. Un trattamento impari che suggella definitivamente la morte dell’Europa culturalmente unita, se c’e mai stata. E che aiuta il fiorire del pensiero disumano.

Checchino Antonini scrive suLeft.it (ed io sottoscrivo): “Il naufragio di chi fugge da guerre e carestie èanche il naufragio della politica Europea. Nessun governo UE èesente da colpe. Ecco perchéil Regolamento di Dublino va ripensato. In chiave umanitaria”.

La sinistra reazionaria invece pone altri muri.

Ecco, lasciatemi dubitare che questa sia una strategia vincente e lasciatemi affermare quello che, da sette anni a questa parte vado dicendo: il distacco lamentoso di molta base di sinistra proporzionale alla carenza di comunicazione di tipo progressista èresponsabile quanto la destradi questa deriva di valori. Il centro-sinistra che ha sposato il neo-capitalismo senza parallelamente incoraggiare le forme alternative che sono il futuro (snellire la burocrazia potrebbe essere un valido inizio, badare piùall’ambiente un ottimo svolgimento) ha comunicato male, ha imposto dall’alto, ha creato il Job acte la Buona scuolacercando di indorare due dure pillole che dure sono rimaste, ha creato un immaginario che la parte avversa chiama “radical chic”, “snob” che le ritirate sull’Aventino certo non smentiscono. E si continua a comunicare male, ed è un peccato che lo faccia proprio la sinistra che nel suo DNA ha riflessioni come quella di Fromm sopra riportata, di matrice dichiaratamente marixana. Ammettiamolo: in assenza di una visione progresssista, c’èchi ha saputo parlare meglio al “popolo”. Che non è composto solo da bruti col manganello in mano, ma dai figli di quella piccola borghesia che faceva tanta paura a Pasolini, tormentata da immagini e da servizi televisivi atti a suscitargli emozioni, impaurita di perdere il proprio io perdendo le proprie cose, stordita dalla paura indotta, stordita dalle troppe notizie contraddittorie. A destra, sappiatelo, c’èanche gente che crede che l’“Aiutare a casa loro” sia la sola soluzione perché questo esodo finisca, sapete? C’ègente che in effetti di bambini morti sulla spiaggia non ne vuole vedere più, ma che sta scommettendo su un cavallo che, a livello comunicativo, passa un altro messaggio, di divisione. E che da solo non risolverà certo le sorti di un ampio continente.

A questa gente bisogna ricominciare a parlare. Altrove, mi viene in mente un solo leader carismatico che sta cercando di imboccare questa strada in un paese altrettanto devastato dalle divisioni, dall’odio e dal disumano: Jeremy Corbyn.

Non cadiamo nei meccanismi della propaganda che ci vuole gli uni contro gli altri. Chi vota a destra è sempre un essere umano e il compito del pensiero progressista dovrebbe essere, in virtù di ciò, ingegnarsi e re-instaurare un dialogo.

Il disumano, in conclusione, lungi dall’essere scaturito da un fascismo nato per gemmazione spontanea, èun costrutto sociale che viene dalla recente storia – e va affrontato. La sinistra, intesa di nuovo come “pensiero progressista”, deve lasciare a casa una retorica oramai vuota che non dice più niente. Deve parlare di problemi veri, ribattere in maniera intelligente allo squadrismo mediatico. E soprattutto deve, rispettando i lacci per i quali purtroppo siamo ancora legati a doppio filo agli equilibri economici, parallelamente incoraggiare nuove soluzioni, nuovi modi di vivere che aiutino a non crollare miseramente una volta che la crisi sarà inevitabile.

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