Dossi e Lombroso, due mattoidi
di Francesco Paolella
Maria Antonietta Grignani, Paolo Mazzarello, Ombre nella mente. Lombroso e lo scapigliato, Bollati Boringhieri, Torino, 2020, 174 pagine, 15 euro
Due uomini come Cesare Lombroso e Carlo Dossi erano fatalmente destinati a incontrarsi. Un comune interesse verso tutto ciò che appare eccessivo, anormale o persino mostruoso, e, soprattutto, una certa tendenza al collezionismo (di casi umani appunto), tutto spingeva affinché questi due intellettuali, irregolari essi stessi per tanti versi, dovessero lavorare assieme e condividere, almeno per un po’, lo stesso sguardo sul mondo.
Questo rapporto anzitutto culturale, nato nelle aule dell’università di Pavia – dove Lombroso insegnava medicina e dove Dossi studiava legge – si affermò principalmente in una lunga corrispondenza, nello scambio di libri, negli articoli e nei libri, scritti tenendo presente il lavoro dell’altro. A unirli, dunque, è stata, in primo luogo, una radicata passione per la letteratura, così come per la storia e per la scienza.
Carlo Dossi ha trovato in Lombroso, nelle sue teorie così poco “scientifiche” – eppure capaci, almeno all’apparenza, di spiegare tanti aspetti, fino allora oscuri, della vita individuale e sociale –, una sponda essenziale per riuscire a conoscere in profondità ciò che di folle e di geniale è nella creatività umana. In Lombroso, Dossi ha, senza dubbio, apprezzato in Lombroso un anticonformista il cui metodo, nell’ultima parte dell’Ottocento, doveva apparire davvero promettente. Di più, Dossi cercò in Lombroso un vero e proprio medico, un alienista che sapesse sanzionare, con una diagnosi, il suo carattere geniale (e, quindi, necessariamente patologico) di scrittore. In questo senso, è fondamentale la sua Autodiagnosi quotidiana, scritta in terza persona per Lombroso, un autoritratto spietato e grottesco, pieno di narcisismo e fatto apposta per farsi riconoscere dal maestro come genio malato.
Fra Lombroso e Dossi – di cui questo bel volume di Grignani e Mazzarello rende due ritratti davvero riusciti – si è creata poi una vera e propria complicità, che ha saputo andare oltre lo sguardo psichiatrico di Lombroso, per giungere a una collaborazione scientifico-letteraria vera e propria. Dossi, con il suo celebre lavoro sui Mattoidi – scritto come egli si fosse trovato nel laboratorio di un antropologo o nello studio di un alienista – è riuscito a mettere in pratica quelle sue antiche passioni, componendo una magnifica galleria di inventori stravaganti e ambiziosi, di architetti e scienziati votati a realizzare il nuovo monumento a Vittorio Emanuele II.
Dossi ha giocato sempre con il proprio ruolo di discepolo ed emulo lombrosiano, usando una specie di maschera per nascondersi. Per Lombroso ha avuto sempre una sincera ammirazione, anche quando i limiti delle sue teorie venivano con più forza alla luce; e le Note azzurre contengono svariati riferimenti alla figura dello psichiatra veronese, fin dall’epoca in cui questi era un professore pieno di vanità e bizzarrie, come tutti del resto, ma soprattutto si mostrava preso da un frenetico e isterico amore per la scienza. Lombroso è stato descritto da Dossi in un ritratto davvero “lombrosiano”.
Questa relazione, così eccentrica essa stessa, può essere letta come esemplare di un mondo intellettuale, che ha segnato a lungo e in profondità la società italiana di fine Ottocento, dissolvendosi però in breve tempo.
Dossi, in qualche modo, si offrì a Lombroso, con tutti i suoi vizi, le sue tare ereditarie e le sue anomalie fisiche, per riceverne in cambio un posto in quella infinita galleria di geni folli, che lo stesso alienista costruì instancabilmente, dedicandole tutta la vita.