philosophy and social criticism

Due clandestinità: Nico Naldini

Francesco Paolella

Questi testi di Nico Naldini (1929), poeta e saggista noto soprattutto per le biografie di Pasolini (che era suo cugino), Comisso e De Pisis, non sono testi facili. Impegnano (e aggiungiamo: fortunatamente) il lettore nelle cronache di un viaggio durato venti anni e più fra l’Italia (la casa, il Veneto) e l’Africa del Nord (l’altrove, la Tunisia). Rappresentano il diario di un uomo anziano, solitario, stanco, ma che ancora guarda, che ancora ha uno sguardo. Ecco dunque i racconti di un europeo seduto al tavolino di un caffè nordafricano, che rimane immobile a guardare, ma sempre di sbieco, i ragazzi che lavorano, camminano, vivono. Naldini ci racconta di come il suo sguardo, guidato da un desiderio che sopravvive al passare del tempo, si sia ostinato – com’è naturale del resto – a immaginare e immaginarsi davanti alla bellezza, alla eleganza e alla povertà di quei giovani; e facendo questo compie una vera e propria “retrospettiva sulle proprie inclinazioni affettive ed erotiche”.

Si tratta dunque della cronaca dello spegnersi inevitabile di un fuoco che pure ancora brucia: c’è nostalgia ovviamente – ed è una nostalgia pasoliniana per l’epoca passata dei “pederasti” e contro la “finta tolleranza” di oggi (p. 60):

“Oggi ci sono i gay ma qualcuno
in certe notti ancora piange
perché i barbari non arriveranno più” (p. 156).

Ma non c’è solo omosessualità e non c’è solo nostalgia. C’è soprattutto la desolazione per i danni del tempo, per cui a tutto (il dolore, la solitudine, il senso di colpa) si somma la vecchiaia. La vecchiaia non è soltanto impedimento, impotenza, paralisi: è anche noia, una dilatazione impressionante del proprio tempo, che sta comunque per finire:

“I vecchi non dovrebbero mai dormire
mai andare a letto.
Ogni gesto è un dolore
tenuto segreto
che si rifà vivo” (pp. 176-177).

Naldini ci appare come un uomo che, immobile, vede il mondo, il suo mondo amato e sognato, muoversi, scomporsi, corrompersi: l’invasione degli oggetti di consumo, delle griffe, dell’alcol e della droga, e poi anche dell’integralismo religioso, è per lui la causa della rovina di un “paradiso” che pure è sempre stato effimero e tutto sommato ipocrita.
I ragazzi desiderati da Naldini sono degli oziosi, dei ladri o dei poveri muratori: sono giovani uomini che scappano dall’Africa per cercare l’Europa, che però diventa per loro una trappola. Potremmo dire con una formula: i nuovi clandestini sono stati seguiti e interrogati dallo sguardo di Naldini, che clandestino è dovuto e ha voluto in un certo qual modo esserlo per tutta la vita. Sono poveri che si arrangiano, si vendono, scappano, tornano, si sposano: e tutto ciò rappresenta in queste pagine un declino inesorabile. Il vecchio europeo, pur sempre schiavo di quei corpi, rimane nella sua clandestinità rassegnata e sterile.
C’è dunque molto di pasoliniano in tutto questo, senza dubbio: alcune delle pagine più intense sono quelle dedicate alla madre e alla memoria dell’infanzia friuliana, negli anni della guerra. Ma anche da quelle non si ricava altro che l’immagine di un uomo sopravvissuto alle sue disgrazie.
O pensiamo ancora a un episodio dedicato alle lucciole – che però laggiù, nel Magreb, ancora si trovano:

“Sulla soglia aperta
Houssem sorrideva
ardito e incerto
come chi ancora non sa
fino a quale punto nel mondo
si possa ritrovare l’eco
del proprio amore. Eppure continuava a sorridere.
Catturata una lucciola
nel tragitto dalla sua casa alla mia,
prigioniera nella conca delle mani
mi offrì il suo ultimo bagliore” (p. 67).

E anche vero che lo sguardo di Naldini ci dice molto sull’Italia di oggi, sulla “casa” che diventa la meta sempre più incerta e pericolosa dei tanti dei ragazzi africani di cui scrive. I “suoi” ragazzi sono oggi il grande scandalo dell’Europa, un inciampo che toglie loro molto più di quanto non lasci loro raccogliere da terra. I bisogni e i desideri li trasformano in sciacalli (p. 46), li costringono semmai al crimine o, comunque, a una vita diversa e lontana. Qualcosa va perduto per sempre. E anche se il nostro autore definisce “una baggianata” lo scontro di civiltà, a cui saremmo ormai condannati (p. 151), è vero senza dubbio che i segni di nuove barbarie e di regressioni forse irrimediabili sono sempre più visibili.

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