philosophy and social criticism

Ennio Morlotti

M. D.

Francesco Biamonti, Ennio Morlotti. “Pazienza dell’azzurro”, Ananke, Torino 2006.

Giacometti, Sutherland, De Staël, Ennio Morlotti e pochi altri ancora. Furono loro, secondo Francesco Biamonti, a dare inizio e forse anche fine all’appassionata ricerca di una «luce fisica» tutta interna al mondo delle cose e al loro presentarsi improvviso alla coscienza. È probabile che Biamonti intravedesse in questo lavoro il corrispondente di quello spazio letterario i cui confini ideali, da Camus a René Char, riletti nell’ottica di Merleau-Ponty, sembravano estendersi da Genova a Marsiglia, da Orano alla Spezia, fino a Barcellona. «C’è una luce che definirei romanza», raccontava, «e fa entrare nella tragedia a poco a poco, permette uno sviluppo narrativo dei sentimenti che quella greca non consente». È fra i confini incerti di questa luce, in qualche modo capace di privilegiare l’elemento «corrosivo, il salino», che si sarebbe sviluppata una sorta di comunità implicitamente «legata alle cose, in cui le cose parlano al posto dell’uomo». Nello slittamento di questa ricerca, fra pittura e scrittura, prenderebbe così corpo l’esortazione di Braque che invitata a «non riprodurre l’aneddoto, ma a produrre un fatto pittorico». Un gesto capace di perdesi nel cuore «delle cose stesse», alla ricerca della loro, altrimenti mai del tutto comprovata, esistenza. Una ricerca carica di strane e perturbanti fascinazioni che molti, fra i protagonisti di quella che Biamonti considerava una specie di «apocalisse esistenziale», non esitarono a pagare «a ben caro prezzo». Fu il caso di Nicolas De Staël, morto suicida il 16 marzo del 1955, gettatosi contro le mura di Antibes, preda dell’ossessione di «non riuscire più a finire le sue opere». Su un piano meno tragico, ma non meno intenso, fu anche il caso di Ennio Morlotti. Nato a Lecco nel 1910, dopo aver lasciato il modesto impiego da contabile e terminato un rapido apprendistato, già alla fine degli anni Trenta Morlotti aveva preso a far parlare di sé, partecipando a “Corrente” e, con Vedova e Santomaso, al “Fronte nuovo delle arti”. Decisivo, per la sua formazione, si era però rivelato l’incontro, o forse sarebbe meglio dire l’urto frontale, con Guernica. È bene ricordare che Morlotti fu tra i pochi italiani che, nel 1937, al Padiglione spagnolo dell’Esposizione universale di Parigi, riuscirono a vedere senza filtri, mediazioni o censure, ciò che il lavoro di Picasso esigeva fosse visto. Proprio a Picasso, Morlotti indirizzò alcune lettere cariche di intensità e passione civile. «Con Guernica», scriveva, «abbiamo cominciato a voler vivere, a uscir di prigione, a credere alla pittura e a noi, a non sentirci soli, aridi, inutili, rifiutati; a capire che anche noi pittori esistevamo in questo mondo da fare, eravamo uomini in mezzo agli uomini». L’amicizia con Biamonti, giovane bibliotecario all’Aprosiana di Ventimiglia, non fu meno importante e si inscrisse proprio in questa linea, frammista di discrezione e passione, di condivisione e «adesione istintiva» a comuni propositi.

Si incontrarono per la prima volta a Bordighera, nel 1959. Li accomunava l’amore per Bonnard e Cézanne e un certo carattere schivo alle faccende mondane. «Mi parlava di Sbarbaro», ricorda Morlotti, «e mi fece scoprire molti scrittori francesi, con cui aveva famigliarità». Fu un’amicizia fatta di viaggi nella vicina Nizza per informarsi sulle ultime novità dell’editoria e dell’arte francesi, e di un’ammirazione reciproca e costante.

I testi – solitamente legati a qualche occasione: una mostra, un’intervista, lettere personali o la presentazione di un catalogo – che Francesco Biamonti dedicò all’amico pittore, sono ora raccolti in un prezioso volume, Ennio Morlotti. “Pazienza dell’azzurro”, edito dalla torinese Ananke. Pochi, ma intensi frammenti che testimoniano la capacità di Biamonti di intravedere i «legami invisibili» che rendono quello di Morlotti un lavoro intriso di «liricità oggettiva». Qualcosa di simile, scrive Biamonti, alla poesia di Agrippa d’Aubigné, dove la ricerca di tregua dopo troppi giorni di guerra, si confonde col desiderio e la volontà, per quanto inconscia, di vita che si riaffaccia proprio dove nessuno se la aspetterebbe, alle soglie dell’inorganico. Una traccia di luce nera che riabilita il cielo, lo riposta alla terra. Così appare nell’Agrigento trasfigurata da Nicolas De Staël o in un’altro dei suoi ultimi quadri, il Concerto, presagio della fine, ispirato alla musica e ai silenzi di Anton Webern. Nella pittura di Morlotti, che va «dalla carne al teschio, dal seme al fiore», Biamonti avvertiva fremere la stessa «malinconia dell’essere nell’arginare il mare della materia». La stessa, non riconciliata «pazienza nell’azzurro».