philosophy and social criticism

Perdute memorie di civili convivenze

Alfonso M. di Nola

Chi è vissuto in Sarajevo, la Città del Serraglio costruita dai Turchi nel 1428, non può non conservare la viva impressione della civile convivenza tra gruppi etnici e religiosi diversi, che l’abitavano prima delle efferate distruzioni degli ultimi anni, punto di partenza storico dell’intero sconvolgimento che ha colpito la Jugoslavia.

A Sarajevo una splendida moschea, fra le più antiche e belle di tutto il paese, circondata da una selva di altre moschee e di minareti, sorgeva all’interno del piccolo quartiere turco accanto alla vecchia sinagoga e alle chiese ortodosse. Nelle strade affollate, i visitatori acquistavano beni artigianali nel grande mercato coperto e nelle molte botteghe dove spesso gli artigiani lavoravano alacremente sospendendo la fatica quotidiana soltanto per la lettura salmodiata del Corano.

Un esempio lontano

Il quartiere turco era un’isola all’interno di una città moderna, fortemente influenzata dai modelli dell’architettura austriaca, con imponenti palazzi e vie spaziose. Il contatto con la gente era agevole e cordiale, con una decisa disponibilità verso gli stranieri, anche verso gli Italiani dei quali, però, non erano dimenticate le atrocità consumate durante il periodo dell’occupazione fascista. Raramente nella storia europea è stata raggiunta la tollerante convivenza della quale Sarajevo, con gli altri minori centri confinanti, resta un esempio non discusso, e, per trovare qualche cosa di simile, bisognerebbe risalire alla grande civiltà plurireligiosa e plurietnica che inforò le città spagnole prima della folle impresa dei re cattolici Ferdinando e Isabella e prima che dal paese fu imposta l’espulsione di Giudei e di Mori. Anche la città bosniaca, prima degli attuali disastri, è stata nei secoli centro di grande cultura per le sue biblioteche e le sue scuole turche, ebraiche e ortodosse. Qui vi scrisse fra le cose più altamente poetiche il persiano Omar Khayyam, il cantore del vino e dell’amore, del quale preziosi manoscritti si conservavano a Sarajevo.

Il dopo Tito

Il dissesto radicale del paese è originato cronologicamente dalla caduta del regime socialdemocratico di Tito, verso il quale gli abitanti nutrivano un’autentica venerazione perché era riuscito ad unificare gruppi etnici diversi e a garantire, nella totale assenza di disoccupazione, una vita rassicurante anche se non opulenta, una vita per la quale i salari minimi ma non strozzati permettevano a tutti di procurare quanto era necessario.

Ci siamo soffermati su Sarajevo come caso emblematico di una più generale situazione che mina alle radici l’equilibrio della massima parte dei paesi europei, asiatici, africani, e raggiunge l’America centro-meridionale, con crescenti forme di insicurezza che toccano gli Stati Uniti d’America, atterriti dall’inatteso crescere della disoccupazione e delle folle di barboni e di mendicanti che invadono le città.

La presenza di questa situazione – che mette continuamente a rischio la sopravvivenza della popolazione ed espone agli spettri incessantemente emergenti di conflitti bellici e di miseria imminenti – dovrebbe avere alla sua base varie radici di ardua individuazione, proprio perché si intrecciano fra di loro e prevalgono l’una su l’altra nelle varie parti del mondo, caratterizzandone le crisi.

Certamente all’orizzonte dei dissesti si pone quel crollo dei paesi socialisti che da molte parti fu auspicato e poi salutato e glorificato come via verso una presunta libertà, laddove è avvenuto a creare un profondo disordine nei paesi exsocialisti e ha inteso proporre per quei paesi l’inattendibile modello di un capitalismo americano, già di per sé attraversato da gravi scosse e promotore di una rinnovata e crescente scissione fra classi spudoratamente ricche e folle di miserabili e di affamati.

Sappiamo tutti che nella vecchia Unione Sovietica la vita non era facile: attraversata da un regime di tipo poliziesco ha dimostrato la sua incoerenza e insufficienza di energie.

Mutamenti economici

Tuttavia, il crollo del sistema statalista ha comportato l’imponente attuale disordine di quel paese e soprattutto l’improvviso moltiplicarsi dei nazionalismi e degli sciovinismi che sono una delle cause primarie degli attuali conflitti, proprio perché hanno liberato tendenze aggressive in singole regioni e paesi dell’Europa orientale, improvvisamente lanciati nella rischiosa avventura di un ingannevole liberismo economico.

Proprio i nazionalismi si ripropongono così come una pericolosa concausa dell’attuale aggressività bellica che va dai paesi tribali africani a quelli europei e a quelli sudamericani. Il nazionalismo, infatti, quando non è corretta e controllata ricerca di difesa dei propri valori storici e culturali, avanza pericolosamente verso i fascismi e i nazismi che sembrano riapparire qui e lì in tutto il mondo e che trasformano un sistema culturale in una rischiosa impresa di contrapposizione fra etnie. Il fenomeno, purtroppo, con i disordini proposti dalla Lega e con la sua decisa impulsione antiunitaria, tocca anche il nostro paese.

Gli interessi in campo

Al di sotto di questi evidenti accadimenti, che spiegano almeno in parte l’attuale malessere e il crescere improvviso delle tendenze al bellicismo, vi sono purtroppo motivi gravi di interesse economico legati al traffico sotterraneo delle armi, del quale noi stessi siamo divenuti negli ultimi anni responsabili. Né ha agito in forma secondaria e trascurabile l’interesse legato al petrolio e alle banche internazionali: un fatto reso evidente dalla celerità con la quale, anche in modo feroce, gli Stati Uniti d’America, trascurando analoghe situazioni di ingiustizia e prepotenza, si sono precipitati a salvare il Kuwait in nome di un dirittoto all’autonomia e alla libertà dimenticato ben altre e più gravi volte e consolidando, con l’embargo tuttora mantenuto, una situazione di cieca violenze contro l’Iraq.

Il nazionalismo resta certamente il male più grave dei nostri tempi e si inserisce, con la sua carica distruttrice, all’interno di una falsa coscienza che, nelle impotenti organizzazioni internazionali, predica l’eguaglianza e la fraternità tra i popoli e in concreto fomenta la loro conflittualità utile per altri fini.

In questo quadro, che è possibile diagnosticare soltanto in alcuni suoi aspetti generici e generali, non ha avuto peso trascurabile l’intromissione di pretesti religiosi che hanno trasformato e giustificato i conflitti su base teologica e superstiziosa. Le dure lotte in India fra Sikh e sette induistiche ne sono forse uno degli esempi più impressionanti, anche perché denunciano l’improvviso crollo di quella predicazione della non resistenza (ahimsa) che distinse il riscatto dell’India realizzato da Gandhi e che in sostanza è alla base dell’intero universo religioso indiano. Né sono stati da meno gli urti violenti, all’interno del mondo musulmano, fra Sciiti e Sunniti, evocanti nel mondo attuale antiche e superate contrapposizioni che appartengono ai secoli scorsi.

L’arroganza monoteista

Lo stesso Cattolicesimo romano è stato alla base di quella pluriennale lotta fra Irlandesi che, per il ricorso a continui attentati, ha insanguinato molte città europee. D’altra parte sappiamo per lunga esperienza che le religioni di pretesa origine monoteistica, affermando perentoriamente l’assoluto possesso della verità, divengono spesso uno dei più pericolosi stimoli conflittuali. E ancora una volta ci troviamo in presenza di una doppiezza di comportamento storico e politico: se da un lato queste religioni, con probabile buonafede, si sforzano di realizzare il superamento di arcaici odi, da un altro lato ispirano proprio codesti odi, come è nel caso dell’inaugurazione della moschea di Roma, dalla cui temuta presenza la signora Pivetti e altre devote donne hanno voluto esorcizzare con riti di riparazione, cooperando, quindi, alla stretta separazione, che dovrebbe essere mantenuta e rispettata, fra emigrati dai paesi musulmani e cattolici apostolici romani.

[tratto da il manifesto del 30 luglio 1995]