Espulsioni. Vivere nel margine sistemico. Intervista con Saskia Sassen
Benedetto Vecchi
La conversazione è iniziata laddove era stata interrotta alcuni anni fa. Anche allora la crisi dominava la scena. Ma Occupy Wall Street era molto più che una debole speranza, mentre gli indignados sembravano inarrestabili. Per Saskia Sassen erano segnali di una possibile inversione di tendenza rispetto alle politiche economiche e sociali di matrice neoliberista. E Barack Obama negli Stati Uniti, dove vive e insegna, sembrava ancora capace di sfuggire alle grinfie della destra populista. Ad anni di distanza, Saskia Sassen non ha perduto l’ottimismo della ragione che ha caratterizzato molti suoi libri, ma è però consapevole che alcune tendenze individuate sono divenute realtà corrente.
Nota per il libro sulle Città globali (Utet), ma anche per le sue analisi sulla globalizzazione, culminate nel volume Territorio, autorità e diritti (Bruno Mondadori), dove Saskia Sassen non si limita a fotografare la globalizzazione, ma ne analizza la genesi, le trasformazioni indotte nel sistema politico nazionale e la formazione di centri decisionali politici sovranazionali, messi al riparo dalla possibilità di controllo dei «governati», da poco ha pubblicato un nuovo volume (Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Il Mulino, Bologna 2015).
Crisi è un termine che ritorna ossessivamente nell’agenda politica globale e nelle analisi sullo stato dell’arte dell’economia globale. In entrambi i casi è usata per sottolineare il fatto che il capitalismo è entrato da ormai otto anni in un tunnel del quale non si vede la fine. Nel suo nuovo libro «Expulsions» lei scrive che gli effetti collaterali della forma specifica di capitalismo qualificata come neoliberista si basano sull’esclusione e le disuguaglianze sociali. Può spiegare questo punto di vista?
Per me crisi è un termine inadeguato. Parto dalla constatazione che, nel presente, ci sono più tipologie di crisi. D’altronde è cosa abbastanza acquisita dalle scienze sociali che l’attuale sistema globale sia un sistema complesso, ma non statico. Anzi presenta una certa dinamicità e alcune potenzialità di sviluppo impensabili fino a quando si evidenziano nella loro capacità trasformativa della realtà. In altri settori, economici e sociali, invece si può manifestare un loro declino o crisi. Per questo, l’uso della parola crisi è restrittivo. Più interessante, invece, è capire chi vince e chi perde socialmente in questa fase dello sviluppo capitalistico.
Nel libro al quale lei fa riferimento, Expulsions, affronto certo il tema dell’esclusione e delle disuguaglianze sociali, ma non sono interessata a registrare il fenomeno, bensì a comprendere come viene prodotto, quali sono le dinamiche economiche e politiche che lo producono. L’esclusione e la disuguaglianza sociale sono sempre esistite. Non sono cioè delle «novità». Possiamo certo concentrarci su come il fenomeno si sia modificato nel tempo, definire le diverse tassonomie della disuguaglianza. Ed è anche importante che qualcuno lo faccia.
Quel che emerge nei tempi che stiamo vivendo è, però, una realtà che presenta alcune significative differenze rispetto al passato. Per questo sono partita dal fatto che per comprendere quale tipo di ineguaglianze si stanno affermando occorre capire come funzioni il complesso sistema globale dell’economia. Quali sono le specializzazioni produttive che prendono piede e si sviluppano in un territorio; quali le relazioni che si stabiliscono all’interno del sistema. Sia ben chiaro, non sto proponendo un approccio sistemico. Semmai, invito a guardare le dinamiche in atto nel loro divenire e totalità. Per fare questo, occorre partire dalle condizioni più estreme, più dure della realtà sociale. Potrei dire che è necessario andare alle radici dei problemi, che sono esemplificati da chi è escluso o di chi vive con drammaticità le disuguaglianze sociali.
In Expulsions mi concentro sui margini del sistema globale. Margine è tuttavia un concetto differente da quello di confine geografico che qualifica ancora le relazione tra gli Stati nazionali.
L’ipotesi dalla quale sono partita è la proliferazione dei «margini di sistema» — il declino delle politiche economiche che hanno caratterizzato le economie occidentali nel XX secolo, il degrado ambientale e la crescita di forme complesse di conoscenze che tradotte operativamente producono interventi di una brutalità elementare. Mi spiego meglio. Alcune conoscenze sono state applicate nella produzione di alcuni materiali o per accedere ad alcune materie prime. Questo ha comportato differenti forme di «espulsione». In altri termini, l’esclusione, la messa ai margini è stata prima pensata logicamente e poi tradotta in espulsione di popolazioni, di comunità intere. E se questo è evidente per quanto riguarda il degrado ambientale, lo stesso si può dire per quanto riguarda alcune realtà industriali nel nord del pianeta. Tutto ciò per dire che l’esclusione è l’esito finale di un processo logico, cognitivo che ha visto impegnati tantissimi uomini e donne. È questo dispositivo logico, culturale che va compreso per afferrare la realtà nella sua totalità.
Nel recente passato, lei ha scritto sulle forme di resistenza all’inuguaglianza, alla disoccupazione, alla esclusione sociale. Alcuni teorici hanno parlato di centralità delle «pratiche micropolitiche»; altri invece hanno scritto di ritorno del mutualismo, riferendosi a forme di cooperazione sociale, di welfare state dal basso. Sono esperienze che coinvolgono centinaia di migliaia di persone che esprimono un indubbio potere sociale, senza avere però la capacità di cambiare i rapporti di forza nella società e di modificare le agende politiche nazionali e sovranazionali. Cosa ne pensa di questo paradosso: un potere sociale che non riesce a esprimere un potere politico?
Esiste sì il potere sociale che lei descrive, ma deve fare i conti con una realtà che vede la formazione di élite predatorie grazie allo sviluppo di una formazione sociale-economica «predatoria». Sono élite che fanno leva sulla finanza e su alcuni strumenti di governo della realtà per inglobare, concentrare nelle proprie mani tutto ciò che può produrre ricchezza e potere. Anche qui, invito a non cedere alla tentazione della semplificazione. Le concentrazioni della ricchezza sono una delle costanti dell’economia capitalistica. Potremmo anche dire dell’economia in generale.
Nella situazione attuale assistiamo al dispiegare di forme estreme di concentrazione della ricchezza. Basti pensare che negli ultimi 25 anni la concentrazione della ricchezza nelle mani dell’un per cento della popolazione ha visto un balzo del 60 per cento.
Per essere più chiara: i primi 100 miliardari degli Stati Uniti hanno visto i loro redditi crescere di 240 miliardi di dollari solo nel 2012. Una cifra che, se redistribuita, avrebbe posto fine alla povertà di milioni e milioni di persone sempre negli Stati Uniti. Altri dati: nel 2002, cioè pochi anni prima della data che indica l’inizio della crisi globale, le banche avevano assistito alla crescita dei loro profitti del 160 per cento, passando da 40 miliardi a 105 miliardi di dollari, cioè una volta e mezza il prodotto interno lordo su scala planetaria. Nel 2010, cioè in un periodo di crisi, i profitti delle corporation statunitensi sono saliti di 355 milioni rispetto il 2009. A fronte di queste cifre da capogiro, negli Stati Uniti le tasse sui redditi delle imprese sono solo di 1,9 miliardi di dollari.
I ricchi e le imprese globali non potevano da soli raggiungere questo intenso tasso di concentrazione della ricchezza. Hanno avuto bisogno di un «aiuto sistemico», cioè di un milieu di innovative tecniche finanziarie e supporto governativo. L’esito è stato appunto la formazione di una élite globale che si autorappresenta come un mondo a parte che trae forza dalle politiche economiche, dalle leggi stabilite a livello nazionale, ma anche globale. Da questo punto di vista, i governi hanno svolto un fondamentale ruolo di intermediazione, teso a rendere opaco, meglio fosco ciò che stava accadendo. Siamo quindi di fronte a un complesso dispositivo finalizzato alla concentrazione della ricchezza. Niente a che vedere con una stanza dove è difficile scorgere le cose a causa del fumo dei sigari di qualche impenitente «padrone del vapore». In passato è bastato aprire una qualche finestra e tutto era diventato chiaro. Ora non è così.
La mia tesi è che abbiamo assistito a un cambiamento di scala della concentrazione della ricchezza che ha mandato in pezzi il mondo di qualche decennio fa, dove esisteva una classe media e una classe operai sostanzialmente non ricche, ma «abbienti». Provocatoriamente potrei affermare che nel Nord globale le società sono sempre più simili a quelle del Sud globale.
L’Europa e gli Stati Uniti non erano quindi immuni da concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, disuguaglianze sociali, razzismo, povertà, ma tutto ciò era mitigato dalla crescita costante nel tempo di una classe media. Inoltre, erano paesi dove era forte la tensione a superare povertà, razzismo, differenze di classe, ma c’era una tensione al superamento di quegli elementi. Bene quel mondo è stato progressivamente cancellato dagli anni Ottanta in poi. Ora siamo in un mondo dove élite globali «predano» la ricchezza senza troppe resistenze. Per tornare alla sua domanda, invito a pensare ad un aspetto che è fondamentale in una realtà come quella che ho sinteticamente descritto. I movimenti sociali sono fondamentali per la loro abilità nell’includere realtà molto diverse tra loro. Sono cioè esperienze che producono una politica di buon vicinato, di solidarietà, di condivisione sociale. La forza di Syriza in Grecia è dovuta alla sua capacità di fare propria l’abilità aggregativa dei movimenti sociali, che puntano a risolvere alcuni problemi vitali per i singoli: la casa, il mangiare, la cura del corpo.
Certo non cambiano l’agenda politica, né i rapporti di forza. Qui vale una domanda che non è retorica: come fare questo?
Provando, sperimentando, coinvolgendo la popolazione e anche quegli esponenti politici che sono consapevoli e critici verso questa feroce dinamica di espulsione e di concentrazione della ricchezza. Provando, magari sbagliando, ma continuando a provare. Per me, questo significa rigore nell’analisi della realtà, resistere alle sirene delle semplificazione o, altrettanto forte, incamminarsi su strade già battute e che si sono rivelate come vicoli ciechi.
[cite]
tratto da il manifesto, 27 marzo 2015
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 28, issue no. 28 september 2015
issn: 2037-0857
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