Ex oriente lux
Marco Dotti
«Gli angeli hanno lo sguardo rivolto ad Oriente»: si apre con questa frase, strappata con brutalità alla geografia celeste del teosofo Emmanuel Swedenborg, il lungo saggio che Yukio Mishima dedica a Jean Genet in occasione della prima traduzione, in lingua giapponese, del suo romanzo Journal du voleur. La versione, data alle stampe nel 1956, seguiva di otto anni la prima edizione del Diario del ladro, tirata in soli quattrocentodieci esemplari dallo stampatore d’arte ginevrino Albert Skira, e ripresa, nel giugno del 1949, con vistosi tagli editoriali al testo, nelle ottomila copie della collezione bianca dell’editore Gallimard. A firmare la traduzione era Sankichi Asabuki, uno straordinario poliglotta che due anni prima, con l’aiuto di Satô Saku, si era cimentato in versioni dal Thésée e da Le Retour de l’Enfant prodigue di André Gide.
Lavorando su una lingua molto sensibile al genere del parlante, e trovandosi ad operare in tempi in cui l’ignoranza dei fenomeni induceva a credere che ogni omosessuale fosse naturalmente indotto ad assumere, scimmiottandola, una parlata femminile, Asabuki sfidò le convenzioni traducendo integralmente il testo in uno stile neutro. E affidandosi ad un genere arbitrario e in un certo senso indeterminato, riuscì ad aprire vie nuove alle pratiche di traduzione e di scrittura. Liberato dalla equivoca sovraesposizione di referenze biografiche che, in Francia, verrà portata oltre ogni limite dal Saint-Genet comédien et martyr di Jean-Paul Sartre, restituito alla sua natura di «macchina da confessione» dominata da una precisa strategia di sovrabbondanza linguistica (la «langue soutenue») e da una complessa pluralità di fonti e di stili, il Diario riuscì ad incidere profondamente sulla scena artistica giapponese, non solo quella specificamente letteraria, degli anni Sessanta. Dal butoh di Kazuo Ohno e Hijikata Tatsumi, al cinema con gli espliciti riferimenti di Koji Wakamatsu e Nagisa Oshima che, nel 1968, ne trarrà una versione filmata molto libera nella forma ma fedele nella tensione poetica, fino alle provocazioni avanguardiste, e quasi criminali, del gruppo Tenjo Saijiki animato del poeta e fotografo Shuji Terayama, non mancheranno i richiami a questo libro da cui Louis-Ferdinand Céline, in una lettera a Jean Paulhan, con la consueta malizia dichiarava di essere stato sbattuto knock out, stordito da tanta mancanza di stile.
Non ancora mummificato da biechi istinti nazionalisti, Mishima notava come il Giappone si aprisse a nuovi valori selvaggi accogliendo per la prima volta l’opera di Genet: «Una cultura giunta a piena maturità non si limita a generare fantasmi dell’intelligenza: genera bestie selvatiche. L’Europa ci ha mostrato due di queste: Nijinski, espressione del selvaggio per il selvaggio, e Jean Genet, espressione del male per il male».
Genet, agli occhi di Mishima, era l’uomo delle metamorfosi sognate, capace di cambiare pelle, e «trasformare la sofferenza nel suo contrario». Genet che «si trasforma, si sdoppia, e smembrato rinasce continuamente da sé». Tra le sue pagine, avverte con devozione Mishima, si nasconde un segreto: come sia stato possibile, per lui, instaurare un «rapporto costante con la natura, e nel nome di una santissima trinità, consumare la sua sacra funzione: furto, omosessualità, tradimento. Tenendo sempre lo sguardo rivolto alla luce». Quel che qui viene nuovamente richiamato è il processo di abiezione che occupa una parte determinante nell’estetica di Genet. In Miracolo della rosa, esso si iscrive nel desiderio di subire le pene corporali più degradanti, e accedere ai «gironi» infernali più duri, come la «salle de discipline» o la «ronde», luoghi da cui partire «per sprofondare ancora di più nel fango».
Questo itinerario sembra ricalcare le stazioni del battesimo mistico descritte da Ortega y Gasset in El amor en Stendhal, calvario che culmina nel «centro della rosa mistica», «buco nero profondo come un occhio», che Genet descrive nella «forma cava» di Notre-Dame des Fleurs in cui «Dio si è sgonfiato», e rimane «solo un buco con qualcosa attorno» come un «soldatino di piombo». «Vivevo», scrive Genet, «nel bel mezzo di un’infinità di buchi dalla forma d’uomo». Yukio Mishima si rivolge a Genet come ad una splendida creatura di luce, eternamente giovane nella sua capacita di convertire la sovversione nella «necessità superiore della scrittura», e viceversa. Un Orfeo fatto continuamente a brandelli, la cui scrittura si concede ad un gioco insensato di approssimazioni e di specchi, costantemente tesa ad un artificio in cui consumare i propri riti di passaggio. Quella scrittura che, come un’immensa opera al nero, lo condurrà, al salto finale «da un’estraneità subita, all’alterità radicale», rivelando la sconcertante unità di un’opera che si dichiara e si vuole «profondamente discontinua»: così scrive il tunisino Hédi Khélil. [1] Da un testo all’altro: ripetizioni, aggiustamenti, spiazzamenti si producono in continuazione, rimaneggiamenti e modificazioni si fanno intravedere nella formazione degli enunciati, e ogni scritto rinvia al precedente e lo fa a pezzi. Dopo Il Diario, sarà questo il modo di operare di Genet, attraverso una poetica del frammento e del resto. Non a caso, nota ancora Hédi Khélil, «amputazione» e «taglio» (spesso invisibili, come la testa mozzata, ma drammaticamente fuori inquadratura della Salomé di Carmelo Bene), sono non solo temi chiave dell’immaginario estetico di Genet, ma figure cardine di un più complesso « percorso di scrittura», un percorso radicato nei margini della «figurazione infernale» in cui – è Genet a parlare – «ogni cosa assume contorni terribili, diversi da quelli che avrebbe nelle vostre mani».
Dal 1967, sulla scia di una fascinazione che aveva coinvolto, e in taluni casi travolto, molti intellettuali e artisti francesi (Michel Foucault, Leonor Fini),
Genet decise di recarsi di persona in Giappone. Si sa poco sulle sue effettive frequentazioni, soprattutto quelle relative al primo mese di soggiorno. Sono note, però, la sua partecipazione attiva alle campagne antimilitariste contro l’attracco delle portaerei militari americane nel porto di Sasebo, il suo impegno nelle manifestazioni in favore dei contadini di
Sanrizuka, chiamati a protestare contro un progetto di esproprio delle terre, e il suo coinvolgimento negli scontri studenteschi, al fianco degli Zengakuren, nei confronti dei quali pure Mishima provò, in un primo momento, una certa passione iconoclasta.
Di questo sguardo verso oriente rimangono tracce esplicite in alcuni passaggi di Un Captif amoureux, il romanzo pubblicato postumo, nel 1986, poche settimane dopo la sua morte. Ricorda, Genet, la gioia provata lasciandosi alle spalle «il mondo ebraico-cristiano». Ma, benché inediti, sono altri gli appunti che potrebbero contribuire a chiarire come il Giappone rappresenti, accando alla Palestina e al Marocco, un punto chiave in quell’opera di continuo spaesamento a cui Genet sembra attendere, soprattutto dalla fine degli anni Sessanta, dopo il suo incontro con il Maggio francese e con i palestinesi, e dopo, soprattutto, il suo scontro con Sartre.
Sono, in questo senso, da segnalare alcune note, piccoli saggetti appena abbozzati, scritti su alcuni foglietti di carta intestata dell’Hotel Hilton di Tokio. Appunti che dovevano costituire, nelle intenzioni del loro autore, il canovaccio per una specie di trattato sul Giappone, con riferimenti e chiose sul teatro No, sullo zen, su alcune esperienza sciamaniche e sul rituale funebre dell’Ombon. Passaggi che potrebbero indicare, se debitamente valorizzati, quale sia, al di là dei consueti dati umorali e agiografici, il primario retroterra di lavori come Il funambolo e La strana parola d’…: testo, questo ultimo, che con la sua riflessione sull’urbanistica e la temporalità trova un’esatta simmetria nella conferenza sugli Spazi altri, pronunciata a Tunisi, da Michel Foucault, il 14 marzo 1967, in cui si accenna a degli spazi altri, definiti «eterotopie», immuni da messaggi consolatori e utopici, in grado di imporre una «rottura assoluta con il tempo tradizionale».
Lontano ormai dalla prigione, libero da ogni ansia primaria e materiale, Genet cerca la dislocazione, il contro-luogo nella «terra dei morti», in quella città altra in cui istituire un simbolico sovversivo, rispetto alla dimensione culturale ordinaria. «Nelle città di oggi – scrive Genet – il solo luogo in cui si potrebbe edificare un teatro è il cimitero». Il solo attore «possibile» è il mimo funebre.
Antonin Artaud si era espresso in termini simili, nella sua ansia e nella necessità di fuggire dal dominio della rappresentazione: «Il teatro è il forno crematorio, la trincea, l’istituto per alienati. La crudeltà: sono corpi massacrati». È la ricerca di questo spazio dominato dalla morte, segnato da una luce nera, dove anche «il materialismo ossessivo» tende ad assumere la forza di un disperato misticismo, che sembra accomunare Genet a Mishima ed entrambi all’apparente quiete di André Gide. Legati da un’esistenza segnata dal rifiuto, e da un’opera cresciuta sotto l’ombra del desiderio di morte, il sesso istituisce per loro un vincolo a cui cercano di legarsi, per tenere a bada la morte stessa.
Al doppio regno della morte e del sole, sembrano però destinati a rimanere legati, attratti come falene «da una luce che sale dagli abissi». Padre rimosso di entrambi, Gide: soprattutto di Jean Genet, dopo che, nel 1933, aveva cercato invano di raggiungerlo, inviandogli una lettera per certi aspetti patetica, per altra irriverente, nello stile, a lui ben noto, di Arthur Cravan, primo documento «letterario» che attesta la pratica del giovane Genet e, al contempo, il suo precoce distacco dal Maestro: «Stimato Maestro» – scrive Genet – «forse non le dice molto un ragazzo che le fece visita sei mesi fa. Allora, Lei volle interessarsi al viaggio che stavo per intraprendere (…). Il mio viaggio, Maestro, non è finito, spero anzi che duri tutta la vita. Ma questa prima parte, che mi ha giocato lo scherzo di portarmi altrove da dove avevo sognato di andare, non sarà stata la meno ricca. (…) C’è tanta gente che si occupa di André Gide: se lo contendono? E comunque, tutta questa lettera per finire con una richiesta di soldi». Anche a Cravan andò male, nel 1913. Capì subito che, in termini di prodigalità, c’era poco da insistere.
Genet si libererà ben presto di Gide. Mishima non si libererà mai dell’ombra di Genet. C’è un Giappone segreto, un «altro Giappone» che lo ossessiona. Lo stesso Giappone che, ora, affascina Genet. Fin da bambino lo sguardo di Mishima si perde davanti al popolo senza nome dei burakimi, paria della società giapponese che hanno l’ingrato privilegio di svuotare le latrine. Davanti a loro, Mishima prende coscienza dell’«unione lacerante di abiezione e gloria, di erotismo e desolazione», ma la sua ansia di purezza gli sarà fatale. Al contrario degli angeli di Swedenborg, dopo avere cercato invano, si troverà senza più orienti da guardare. Incapace di affrancarsi da sé, non troverà di meglio che aprirsi il ventre, luogo per eccellenza di intimità e di mistero, cercando «nei propri intestini il rovescio oscuro di ogni visione». Ma non è forse anche questo un modo «per estirpare dalla madre aperta come una rosa l’oggetto detestabile che non e altro che lui stesso, finalmente venuto alla luce di una innominabile esibizione»?
«Che cosa c’e – scriveva nel Padiglione d’Oro – di così terribile nelle viscere esposte all’aria? Che cosa di tanto disumano nel considerare l’uomo con il suo midollo e la sua corteccia, senza distinguere tra fuori e dentro, come si fa per le rose?»
Note
[1] Hédi Khélil, De l’extranéité à l’altérité. Figures de l’écriture dans l’£uvre de Jean Genet, Academia Bruylant, Bruxelles 2003.