philosophy and social criticism

Faccio politica nei titoli di testa. Su Jack Smith (1)

Marco Dotti

Un titolo, sosteneva Jack Smith, «è già il cinquanta per cento del mio lavoro». Di certo, Smith non credeva ai balsami della dialettica e del linguaggio, non ci credeva e di conseguenza non se ne serviva. Confidava, però, in quel potenziale di contaminazione in extremis nascosto dietro le immagini, perso sotto la grana della voce e confuso dentro parole. Ecco allora che Flaming Creatures (1963), con le sue vicende processuali, il suo successo clandestino, la sua capacità di incrinare (visto o non visto) l’immaginario pre-sessantotto, sono anche questione di titolo e di linguaggio. Per tutto quello che aveva da mostrare e da dire (molto) e quel (poco) che si ritrovava a scrivere, Smith metteva in scena atti di continua seduzione. I suoi film (sette in tutto quelli finora accreditatigli, fra corti e no, altri sono in via di restauro), i rushes e le collaborazioni-comparse con Ken Jacobs o Warhol e persino quelle più estemporanee in televisione, danno l’effetto di un caleidoscopio, a volte grottesco, di magnetismo e seduzione.


Un caleidoscopio politicamente paradossale, socialmente parodistico: «faccio politica, la faccio nei titoli di testa, o di coda», dichiarava nel ’78 Smith, che in realtà di titoli di coda e di testa ne metteva ben pochi nei suoi film. In realtà, a Smith serviva (anche se non bastava) l’evocazione: gli otto minuti di Buzzards Over Bagdad del 1951, poi The Yellow Sequence, Scotch Tape, Overstimulated, Normal Love e, appunto, Flaming Creatures tutti del ’63, con un’appendice quattro anni più tardi, 1967: No President. Già nei primi anni Sessanta, al casa di Smith, nell’East Village era diventata metà imprescindibile per chiunque volesse capire un po’ d’America, e magari coltivasse il sogno di buttarla a gambe all’aria. Una casa che era al tempo stesso casbah, harem, teatrino di infinite e sublimi crudeltà e set permanente dove Jack-Jackie, a seconda degli umori, si aggirava vestito da odalisca o da fantastico dandy. Che cosa succedesse là dentro, difficile spiegarlo ora: una messa in scena perenne, prove di happening, performance, sovversioni di cui Flaming creatures è solo una frammento, traccia di «un pensiero espresso in forma patetica» .


Smith lavorava su atmosfere e caratteri, più che su storie. Affascinato da divi e dive del muto, dalle pose plastiche di Lydia Borelli e da quelle più rassicuranti di Mary Pickford, Smith fu il primo a regolare i propri conti con lo star system hollywoodiano, recuperando al tempo stesso una poetica del pre-cinema. Anche per questo Flaming Creatures, infinita ma mai snervante controsequenza su un’orgia, mostra cleopatre, salomè, dive e divette en travesti, caricature sobrie come quella di Renato Rivera, alias Mario Montez, vera e propria «creatura di fuoco», inventata e plasmata da Smith sull’icona della dominicana María Montez. In Flaming Creatures l’alfabeto dei gesti – il film è muto e in bianco e nero – sembra richiamare quello artaudiano di Germaine Dulac e quello dei primi blue movies, dei primi porno trasmessi nei cinema di periferia e marchiati con le tre «XXX». «Solo un grande regista potrebbe girare un grande film porno», osservava Terry Southern. Ma, cosa che sia Southern, sia Smith sapevano bene, oltre un certo limite anche il porno estremo diventa ridicolo. Per questo, Smith mette in gioco un erotismo che è, al tempo stesso, parodia di ciò che lo circonda e parodia di se stesso, paradiso e inferno di libertà reali e di feticci liberati. Contro la «società capitalistica, contro la distruzione che la regge», Smith pensava a una dimensione liberata dallo scambio utile, legata a un dispendio sottile e giocoso.


Il suo lavoro, però, non è privo di reminiscenze crudeli. Una su tutte: Salomè di Oscar Wilde. Con un fil rouge che lega – per filiazione diretta in costumi, scene e oscenità – Flaming Creatures ad altre due opere giocose e cruenti: la Salomè teatro-cinematografica di Bene (1971) e il Satyricon (1969) di Fellini. Fra l’erotico e l’onirico, fra violenza e consenso, ipnotizzate, sedotte, seduttrici e perse, una nostalgia diabolica per l’origine abita le creature dannate e consunte di Jack Smith, diabolus ex machina.

[da Alias, 1 novembre 2008]

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ISSN:2037-0857