Il conflitto sociale nel lavoro digitale
Roberto Ciccarelli
«La protesta dei bikers della Foodora ha suscitato un grande clamore perché questi lavoratori si sono uniti e hanno avanzato delle rivendicazioni. I fattorini non hanno fatto nulla di nuovo: quando c’è un conflitto sul lavoro, ci si mette insieme» afferma Valerio De Stefano, docente a contratto di diritto del lavoro alla Bocconi, uno dei primi giuristi italiani ad essersi occupato del lavoro nella nuova economia dei servizi online, curatore di un numero della rivistaComparative Labor Law & Policy Journal sulla cosiddetta «Gig Economy». Ieri a Torino c’è stata una nuova protesta. Una delegazione di sette lavoratori ha parlato in una conference call con l’amministratore delegato di Foodora Italia, Gianluca Cocco. «Lavoriamo con contratti al limite del legale» e hanno chiesto un aumento della retribuzione «pari a poco più di 2 euro per consegna, ben al di sotto dei standard di retribuzione nazionali e soprattutto internazionali».
Perché allora questo stupore?
Perché si pensa che facciano questo lavoro per gioco o per hobby. In realtà fanno un vero lavoro che comporta tutte le contraddizioni del caso: il rispetto della professionalità, la responsabilità e la fatica fisica. E loro lo hanno detto apertamente ponendo un problema rispetto all’organizzazione produttiva decisa dall’azienda. Succede in qualunque contesto lavorativo. Quello che non deve passare è che la Gig Economy sia una dimensione parallela dove le regole del lavoro non contano perché si fa uso della tecnologia e perché chi lavora è giovane, come in molti casi lo sono gli stessi manager. Non è così. Questa economia è parte di un processo di casualizzazione del lavoro e di frammentazione dei rapporti di lavoro in atto da tempo.
In cosa consiste?
È come se si venisse assunti e licenziati ogni dieci minuti e si viene pagati solo all’occorrenza. Questo avviene nella ristorazione, nella distribuzione, o nella logistica, settori dove c’è la tendenza a destrutturare il rapporto di lavoro. Se prima il datore di lavoro sopportava il rischio che in certi periodi ci fosse meno lavoro e sosteneva il costo della malattia o delle ferie, ora cerca di liberarsi di tutto ciò che non rientra nella prestazione immediata.
Ad agosto anche i fattorini londinesi di Deliveroo hanno protestato. A settembre è toccato a quelli parigini. Cosa sta succendo?
Sono normali conflitti sociali sul lavoro. I lavoratori si uniscono per avere più potere contrattuale. La maggior parte vive principalmente del compenso che ricevono dalle piattaforme. La loro non è affatto un’attività secondaria o marginale. A mio avviso non c’è una risposta generale e universale a queste proteste: dipende dalle aziende e dalla loro organizzazione produttiva. Bisogna però partire da un dato: se non ci sono lavoratori che portano i pacchi non esiste il business di Foodora o di Deliveroo.
Qual è la distinzione tra Sharing economy e Gig economy e perché vengono sovrapposte?
Non sono un grande fan di queste etichette. Esiste il mercato del lavoro e questa ne è una parte. La Sharing e la Gig economy vengono confuse perché si basano sullo sfruttamento del mezzo tecnologico: smartphone o pc. La prima mette insieme persone per dividere costi per un viaggio in macchina. La seconda prevede il pagamento di una macchina con autista che porta il cliente dove vuole. Di sicuro in questo caso si parla di lavoro: una prestazione in cambio di un corrispettivo. Nel caso di Foodora non c’è nulla da condividere: c’è qualcuno che ha bisogno di un pasto e se lo fa portare da un’azienda che organizza una forza lavoro. Il riferimento all’economia della condivisione [sharing economy] è fuori luogo.
I lavoratori di Uber, Deliveroo o Foodora si considerano dipendenti perché sostengono le spese e rispondono a una gerarchia. Vanno assunti?
Non esiste un unico modello, ma tanti modi di prestare un lavoro in un sistema casualizzato. In certi casi c’è la possibilità di riconoscere il vincolo di subordinazione, in altri la prestazione può essere più indipendente. Non tutte le aziende lavorano nella stessa maniera, ci può essere un controllo sull’orario o un diverso rapporto con il consumatore. Non si può dare una risposta unica perché si rischia di non proteggere chi ne ha bisogno e viceversa.
Il problema è stato posto negli ultimi anni dagli autisti di Uber negli Usa. Qual è la situazione?
In questo momento esistono molte cause, in particolare sul ridesharing. In California esiste una class action sulla riqualificazione degli autisti Uber come lavoratori subordinati e non come contrattisti indipendenti. Si erano messi d’accordo con l’azienda, ma il giudice non ha trovato congrua la cifra della transazione. La causa va avanti. Il problema è quello della classificiazione dei lavoratori va ben oltre la gig economy e investe tutto il mercato del lavoro. Negli Usa c’è stata una controversia sui corrieri espressi. Le corti hanno deciso in maniera contrastante.
Negli Stati Uniti alcuni giuristi hanno proposto di riconoscere questi nuovi lavoratori nella categoria di “lavoro indipendente”. Per lei è una soluzione?
Per me vanno riconosciuti nella categoria che gli è propria: o nel lavoro subordinato o in quello autonomo. Quello che conta è la realtà: se uno dice che è autonomo ma in realtà si comporta come se fosse in essere un lavoro subordinato, allora si attuano le tutele della subordinazione. E viceversa. Non esiste un modello unico.
Decide un giudice o la politica?
All’inizio possono decidere i giudici e la politica decide se intervenire. Per il momento in Italia non abbiamo visto controversie sul punto ed è probabile che la politica agirebbe prima del tempo. Vedremo se queste controversie sfoceranno in giudizi o se le parti decideranno di mettersi d’accordo senza ricorrere ai tribunali.
Amazon o TaskRabbit chiamano i loro lavoratori «turchi meccanici», «conigli», «servizi umani». Perché questa disumanizzazione?
Non c’è una volontà di farlo perché si è cattivi o non si vuole riconoscere la loro umanità. È un modello organizzativo che va verso la disgregazione dei rapporti lavorativi: non si paga per il tempo che dai, ma per i lavori che fai. Al di là di questo le aziende non si assumono alcuna responsabilità. Questo è un modo di mercificare il lavoro: considerano il lavoro come una semplice attività in cambio di un compenso e lo considerano come un hobby. Il lavoro non è tuttavia separabile dalla persona che si può far male e non essere in grado di lavorare. In realtà non ha nessun rilievo l’idea che uno faccia un secondo lavoro. Non c’è nessuna relazione tra il motivo per cui uno si mette al lavorare e la tutela che si dovrebbe ricevere. Tutti vanno tutelati.
Fonte: il manifesto, 11 ottobre 2016