Genet: la Palestina, il reale
Christian Salmon
Un captif amoureux, l’ultimo libro scritto da Jean Genet dopo anni di silenzio, porta in epigrafe una frase enigmatica aggiunta in fretta un attimo prima di morire. «C’era, nei segni sulla pagina», racconta Leila Shahid, che fu la prima ad avere in mano il manoscritto, «lo stato febbrile, il tremito della mano di Jean che, sul punto di morire, aveva bisogno di mettere a chiusura di Un captif queste poche frasi: “Mettere al riparo tutte le immagini del linguaggio e servirsene, perché è nel deserto che bisogna andarle a cercare” ».
«Le ho lette forse mille volte», aggiunge Leila Shahid, «cercando di attraversare il muro della morte che ci separa e dicendomi “che cosa ci ha voluto dire?” »
Partendo per andare a incontrare dei palestinesi, Jean Genet diceva di cercare la bellezza che è nella realtà… «Ho visto un popolo, i cui membri, tutti senza esclusione, compivano gesti di una pesantezza, di un peso reale. C’era un peso della realtà, del reale. […] Una sigaretta aveva il suo significato. Il secchio d’acqua preso da una donna araba alla fontana aveva il suo senso. Si vedeva l’acqua, si vedeva il secchio, si vedeva la donna. Ciò che provo ora e ciò che provavo quel giorno, è che questo popolo era il primo nel mondo arabo ad avere un rapporto con se stesso, un rapporto moderno. E la sua rivolta era moderna ».
E Genet aggiungeva: «Nella rivolta, i palestinesi hanno assunto questo peso – ah! temo di essere troppo letterario -, hanno assunto la consistenza delle tele di Cézanne. Si impongono! Ogni palestinese è vero. Come la montagna Sainte-Victoire di Cézanne. È vera, è là ».
Il peso del reale che Genet trovava nei gesti dei palestinesi fa sì che egli non sia mai stato un intellettuale alla francese, niente a che vedere con un Sartre a Cuba o un Romain Rolland a Mosca, era innanzi tutto un artista che cercava il reale, da pittore, nella resistenza degli uomini e della materia…
Le sue ultime parole lo provano a sufficienza: Genet non ci parla di socialismo né di indipendenza della Palestina ma della sua realtà, della sua presenza, della sua integrità. Riallaccia i rapporti, mi pare, con una linea dura della letteratura francese che viene con tutta evidenza da Villon e Rabelais e va non è ben chiaro dove, passando però senza dubbio alcuno là dove essa rinasce incessantemente, nel punto preciso in cui l’esperienza fa corpo con il racconto. Quello che Jack London chiamava il « Sud dell’esistenza».
L’unico, vero motivo della letteratura è forse questo: come certi uomini e certi racconti ci ossessionino, arrivino a noi, ci abitino, e a volte ci cambino la vita… Come noi siamo popolati. Come presso alcuni uomini in determinate epoche i racconti sboccino e fioriscano e presso altri, in epoche diverse, essi si inaridiscano e deperiscano, e come in queste epoche gli uomini diventino zone di silenzio, grandi deserti gelati dove non spunta nulla…
«E d’un tratto », aggiunge Leila Shahid, « capisco la frase di Genet in un altro modo ancora: le immagini sono nel deserto ed è là che bisogna andarle a cercare. E una sfida lanciata a tutti i creatori: bisogna sempre cercare altrove, là dove c’è del deserto ».
6 giugno 2004
[Tratto dalla Premessa all’edizione italiana a: Christian Salmon e Joseph Hanimann, Diventare minoritari. Per una nuova politica della letteratura, traduzione e cura di Maria Nadotti, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 17-19].