Gli agrimensori del potere
Bruno AccarinoFu Thomas Jefferson, uno di quei padri fondatori per i quali i dirigenti politici americani trovano sempre un posticino anche nei discorsi che accompagnano o motivano (?) le loro occasioni di belligeranza, ad assumere, nel 1784, il compito di riorganizzare amministrativamente il territorio americano. Con una deliberazione varata dal Congresso il 20 maggio 1785, si addivenne alla decisione di rettangolarizzare il paese dividendolo in unità di sei miglia quadrate (candidate a costituire le townships) e procedendo a una ulteriore suddivisione e redistribuzione per favorire l’insediamento della popolazione. Gli Stati del sud protestarono, rivendicando il diritto di rispettare già esistenti sezioni irregolari, spesso aderenti a linee o confini naturali; quelli del nord, mentre lo stesso Jefferson predicava prudenza e proponeva di non procedere con l’accetta, classificarono queste unità messe lì alla rinfusa come «indiscriminate locations». Prevalsero quelli del nord, ma ciò che più conta è che si attinse, in quella circostanza, a un esprit géométrique che radicalizzava il paradigma palladiano di figure regolari e ingessatamente proporzionali, con l’aggravante di una sovrana indifferenza per il paesaggio. L’atteggiamento fu quello, prometeico, del geometra puro che impone modelli astratti alla nuda terra. L’atteggiamento opposto, per insistere sui plessi mitici, sarebbe stato quello di Anteo, che trae la sua forza dal contatto con Gea, la terra, e che infatti viene ucciso da Ercole solo perché questi lo tiene sollevato dal suolo: lo depotenzia perché lo smaterializza. In famiglia, l’alternativa sarebbe stata data da Epimeteo, il fratello fesso di Prometeo: se quest’ultimo è colui che impara prima e che si butta senza tanti complimenti allo sbaraglio, l’altro è famoso per il digraziato autogoal con il quale aprì il vaso di Pandora liberando tutti i mali, ma in realtà è colui che impara dopo e che riconosce i dati e i percorsi dell’esperienza. Le complicazioni, a ogni buon conto, non tardarono ad affiorare: l’Ohio sgusciava da tutte le parti, perché con la presenza del fiume omonimo a est le unità di sei miglia quadrate si troncavano in zone irregolari, e una geometria geomorfica, o fortemente legata a modelli isomorfici, faceva resuscitare quelli che i Romani chiamavano subseciva: ritagli, avanzi dei terreni rimasti fuori nella divisione delle campagne ai veterani, e comunque residui o rimasugli da risistemare e da riattribuire. Quando non furono i fiumi, a opporre resistenza furono le montagne o, più insidiosamente, la divergenza tra il nord polare e quello magnetico o le difficoltà di misurazione indotte dalla curvatura della terra. Come se non bastasse, i territori abitati da nativi americani ostili venivano, come si direbbe oggi, monitorati in modo congetturale e imponevano di prendere atto delle vicende di una storia tribale, lontana parecchie miglia dalle asettiche stilizzazioni della razionalità moderna. Ciò che si verificò fu una egemonizzazione della geografia da parte della geometria, come ricostruisce con dovizia di argomenti il lavoro di uno studioso americano (Edward S. Casey, Representing Place, Minneapolis 2002) reduce da puntigliose ricerche di filosofia dello spazio. Come sembra fosse già accaduto per gli urbanisti di scuola pitagorica che avevano progettato le città dell’Italia meridionale, la geometrizzazione rimosse tutto ciò che ad essa recalcitrava: il rilevamento topografico rettangolare diede pienezza icastica e letterale al termine inglese survey, che corrisponde al tedesco Überblick: uno sguardo dall’alto, di chi sta sopra come il sovrano e che può escludere le asimmetrie della topografia naturale a favore delle regolarità della geometria. Storicamente, il problema non aveva sembianze molto diverse da quelle della rappresentazione bidimensionale di un’entità tridimensionale, in uno sforzo plurisecolare che aveva visto all’opera già i Greci e che aveva trovato un momento forte nella proiezione planisferica di Gerardo Mercatore del 1569. Come sostiene oggi in Germania Peter Sloterdijk, è lì che si consuma l’ascesa delle carte a spese del mappamondo, ancora protagonista in epoca colombiana, è lì che la bidimensionalità trionfa sulla tridimensionalità, è lì che l’immagine vince sul corpo: i planisferi tendono ad eliminare il ricordo di una terza dimensione non padroneggiata dal rappresentare, puntano alla cancellazione della profondità spaziale reale. Fu un tripudio di schiacciamento e di appiattimento universalistico e astratto, nel quale il titolo di oggetto di conquista spettò solo a ciò che era riducibile a una sola dimensione e nel quale l’imperialismo assunse le fattezze della planimetria applicata, dell’arte di restituire le sfere su una superficie piana. Malinconicamente, l’Atlante che regge sulle spalle il globo terrestre diventò col tempo un volume: un rotolo, come dice la parola, o più modestamente un insieme di fogli sovrapposti. Proliferano così le tecniche e i modi di rappresentazione, perché se da un lato non c’è una forma perfetta di proiezione planisferica che possa evitare ogni distorsione nell’impatto con la sfericità terrestre, dall’altro lato danno cattiva prova di sé anche le mappe prive di proiezione: i cosiddetti portolani, discendenti dai périploi greci, manuali di navigazione – o meglio: di circumnavigazione – che fornivano istruzioni scritte per procedere lungo la costa da un punto a quello successivo, si specializzano perciò nel mostrare la configurazione delle linee costiere, perché lì, su dimensioni ridotte, è relativamente ininfluente la convergenza dei meridiani. Tutto questo appartiene a saperi super-collaudati e anche istituzionalizzati, giacché le mappe e le carte geografiche sono quanto di meno privato si possa immaginare, se non altro per la loro immediata ricaduta strategico-militare. Per capire che cosa, di questi terreni molto arati, possa destare un nuovo interesse non meramente storiografico, occorre presentificarsi una lunga sequenza che si inaugura con la descrizione omerica dello scudo di Achille nel diciottesimo libro dell’Iliade: la terra, il mare, il sole, la luna e le stelle al centro dello scudo, attorno una città in pace e una in guerra, e infine, sul bordo esterno, quel «fiume Oceano» che i Greci ritenevano circondasse l’ecuméne, la terra abitata e conosciuta. All’altro estremo cronologico è, per diffuso accordo, Heidegger, che già negli anni trenta del secolo scorso rileggeva la scienza moderna alla luce del potenziale di razionalizzazione in dotazione alla rappresentazione. Strabone, morto nei primi anni del primo secolo dopo Cristo, era uno che sarebbe rimasto disgustato dall’odierna campagna di discredito e di diffamazione a danno delle scienze umane e che adulava la corporazione alla quale appartengo: a suo dire la geografia, come quasi tutto il resto, è una faccenda che riguarda i filosofi. Per carità, troppo buono, vien fatto di dire che peggio del re-filosofo c’è solo il filosofo che fa il cartografo. Fatto sta, tuttavia, che, anche a voler rimanere nei confini della parrocchia occidentale (ma l’Oriente era tutt’altro che scientificamente inerte), tra Omero e Heidegger si snoda, con il Timeo di Platone a fungere da stazione di smistamento di mille suggestioni, una pletora di documenti che alludono unitariamente ad esigenze di disciplinamento descrittivo e di misurazione scientificamente inattaccabile. Come segnala Casey e come era largamente prevedibile, una costellazione specifica è quella che accoglie il giovane Edmund Burke, prima studioso del sublime, poi caposcuola del conservatorismo politico europeo, e il Kant della Critica del giudizio, impegnato appunto, lui che aveva studiato i terremoti e che aveva tenuto per tutta la vita lezioni di geografia, a riannodare anche gli irrinunciabili fili politici del sublime. Strada facendo è dato incontrare, per affinare gli strumenti interpretativi, la semiotica di Peirce e, ancor più vicino a noi, l’analisi della percezione in Merleau-Ponty e l’ermeneutica di Gadamer. La parte del leone spetta comunque, anche per ragioni di cesura cronologica proto-moderna, alla pittura olandese del XVII secolo. Cartesio, unanimemente considerato il malfattore originario che geometrizzò il mondo radendo al suolo le peculiarità e le idiosincrasie dei luoghi specifici, scrisse le sue opere maggiori quando era in Olanda, ma non è questa l’unica traccia. Già in termini sociologicamente materiali, cartografi e pittori convergevano, quando non collaboravano direttamente: le mappe erano prodotte in formati così sontuosi, e con decorazioni così ricche, da far bella mostra di sé sulle pareti delle case di cittadini abbienti. Qualcuno dei lavori emersi da quell’officina di pensiero sfida ogni classificazione disciplinare: la mappa si confonde con il paesaggio, e un’opera come la Veduta di Delft di Vermeer segna una svolta eloquente. Vermeer va anche oltre: nell’Arte della pittura, nella quale il pittore compare «riflessivamente» di spalle mentre è al lavoro, una mappa sulla parete occupa il centro del quadro e ospita, oltre alla firma dell’autore, la parola-chiave descriptio. Ciò di cui parla l’opera è in effetti la rappresentazione dello spazio pittorico concepita sul modello della scrittura, cioè sul modello di una superficie piana – più propriamente di una tabula – sulla quale sono inserite sia immagini che parole. Si scrive di qualcosa e su qualcosa. Vale lo stesso per le mappe, le cui superfici bidimensionali accolgono elementi tanto raffigurativi quanto verbali. Con la magia del graphein, dello scrivere, si arriva al cuore del problema. Sarebbe un errore pensare che la finalità della rappresentazione politica sia solo quella di organizzare lo spazio sistemando i tasselli nel senso della parola latina ordo. Questo schierare la realtà va bene al massimo, e non per sempre, finché la domanda è di carattere strettamente militare ed evoca uno dei significati originari di ordo, ma si impantana quando l’esigenza è quella della scrittura politica. Qui bisogna avere una progettualità più lungimirante, che consenta a chi scrive di muoversi in totale autonomia da un oggetto che, pure, deve avere i requisiti dell’esattezza matematica. Mentre noi siamo abituati a pensare alla crisi odierna della rappresentanza politica come a un deficit di inquadramento, a un fallimento delle strategie di ingabbiamento di una realtà diventata troppo complessa e sfuggente e di una soggettività fattasi troppo indisciplinata, dovremmo pensare invece a un blocco della scrittura. Si scrive infatti, anche agli esordi della logica moderna della rappresentazione, in presenza di un orizzonte, ed è quello che oggi manca all’appello. La scrittura funziona quando tutto milita a favore dell’aperto, dell’indeterminato, dell’insaturo, quando insomma la posta in gioco è l’appropriazione, materiale e immateriale, di terre sconosciute. A noi che abbiamo censito ogni centimetro della terra, però, la sola idea di terre sconosciute provoca il sorriso, e per vederla realizzata tocca andare su Marte: il che significa che la rappresentazione politica forte, quella che riscrive il territorio, è condannata a balbettare, perché dei dati passati e presenti non sa che farsene: il suo motore è, heideggerianamente, la conquista, il suo tempo è il futuro, il suo strumento è lo sporgersi o lo spingersi avanti della proiezione. Il progettare, appunto. Noi europei, peraltro, questa schedatura ossessiva del territorio l’abbiamo messa in cantiere anche per ragioni terra terra (è il caso di dire): perché era al servizio della stabilizzazione razionale della fiscalità, senza la quale la modernità non avrebbe potuto decollare. Le tasse hanno bisogno di certezze catastali, e pare che già nell’antichità dettagliate mappe catastali a carattere regionale coesistessero con la raffigurazione di uno spazio cosmico transoceanico. È comunque nel vero chi pensa che la semantica della terra incognita abbia avuto la funzione di un propellente insostituibile: si trattava di mettere a punto, dopo Colombo, un sistema di coordinate ideologiche che anticipasse, e poi affiancasse, l’ovvietà e la naturalità di un processo di colonizzazione e di rapina. La terra sconosciuta è quell’altrove che magari delude quanto a ricchezze materiali, ma che non può fare a meno di recare l’impronta di chi l’ha inscritta nel proprio universo. Si dice spesso che tutti gli schemi geopolitici stanno saltando per effetto del processo di globalizzazione. Sarà anche vero, ma i quadri concettuali geofilosofici sono più lenti e macchinosi e magari fanno bene a non squagliarsi sotto la pressione delle novità. Se il mondo viene concepito come immagine – ed è questo l’unico passaggio decisivo -, il soggetto che rappresenta è uno che, come un pittore, lascia la firma ed è sempre coinvolto nel dramma della rappresentazione: è interno alla sua azione teatrale. L’osservazione e l’imitazione possono lasciare il soggetto all’esterno di ciò che viene osservato e imitato, ma chi rappresenta è riportato a forza dentro quell’immagine che è il mondo stesso. In termini politici, potremmo registrare anche un serio indietreggiamento della sovranità, se i poteri sovrani hanno la pretesa di collocarsi fuori dei pezzi di realtà che controllano. Ma non sarebbe impossibile assistere a un ripiegamento della sovranità accompagnato dal moltiplicarsi delle vie di fuga mediatiche della rappresentazione, che infatti si toglie da sempre lo sfizio di dare alla politica lezioni di umiltà e di dimostrarle che si può far politica anche per vie cosmologiche o cosmografiche. Il mondo potrebbe diventare, se non è già diventato, una superficie non solo nel senso che si sono assottigliati nessi causali e trame storiche una volta agevolmente ricostruibili, ma nel senso che la sua faccia è quella su cui si scrivono ad arbitrio i destini dell’umanità. La rinuncia alla profondità è l’ultimo stadio del sacrificio della tridimensionalità: libera le mani, scavalca le montagne, ignora i fiumi, aggira gli ostacoli, velocizza le operazioni. Molti materiali si stanno chiudendo a tenaglia per illuminare i dispositivi della rappresentazione moderna, e sono in parecchi casi materiali ben noti, ma ripescati e quasi rivitalizzati a fini diversi da quelli di una cultura umanistica classica. Si tratta comunque, sia detto questa volta con ammirazione, di una grande narrazione. Altre pur nobilissime vicende arruolate nelle fila di chi ha rifiutato la rappresentanza – istanze micro-identitarie da piccole patrie, logiche regionali, resistenze federalistiche al destino imposto dallo Stato centralizzato – rischiano di non incrociare luoghi decisivi di formazione dell’Europa, dai quali dovremmo invece ricavare gli attrezzi per una critica immanente della rappresentanza nei suoi punti più ambiziosi e aggressivi. |
[da il manifesto, 18 febbraio 2004]