philosophy and social criticism

Storia intima della Grande Guerra. Dialogo con Quinto Antonelli

"Prima Guerra mondiale"

Soldati italiani in un momento di tregua

di Francesco Paolella

Quinto Antonelli ha pubblicato di recente per Donzelli un importante volume, Storia intima della Grande Guerra, in cui ha raccolto le voci, anzi le parole scritte da tanti soldati italiani al fronte, scritte in lettere, cartoline, diari e memorie.

Antonelli è responsabile dell’Archivio della scrittura popolare presso il Museo storico del Trentino e si occupa in particolare appunto del primo conflitto mondiale e delle “scritture di guerra”.

Per prima cosa, vorrei che spendesse per noi qualche parole per descrivere il fenomeno (forse poco noto) della corrispondenza di guerra: fra il 1915 e il 1918 solo in Italia furono inviate, da e per il fronte, circa 4 miliardi di lettere – una quantità sterminata di fogli scritti, di cui soltanto una minima parte è stata conservata.

Giusto Antonelli: Sì, nell’immediato dopoguerra si calcolò che dal 1915 al 1918 circolarono in Italia circa 4 miliardi di cartoline e di lettere: 2.137.000.000 dal fronte verso il Paese; 1.509.000.000 dal Paese al fronte; 263.000.000 scambiate tra militari in zona di guerra. Un movimento postale enorme, se consideriamo anche le condizioni dell’alfabetizzazione dell’Italia che ancora registrava una media di analfabeti pari al 38% della popolazione. Come a dire che ognuno di quei 39 milioni di italiani che popolavano il paese era autore di 102 lettere. E’ un fenomeno europeo: in Francia il flusso epistolare conterà 10 miliardi di pezzi e in Germania, la nazione più alfabetizzata d’Europa, si raggiungeranno i 30 miliardi.

Ma riflettendo sui numeri che riguardano l’Italia, viene da sottolineare il divario che esiste tra il numero delle lettere scritte dai soldati e quello, ben minore, delle lettere che provengono dalle famiglie. Da questo punto di vista la zona di guerra si presenta per davvero come un vasto laboratorio di scrittura: chi non è capace si fa aiutare e poi piano piano apprende. Ma il numero tanto alto forse rivela anche il bisogno di tener relazione, di tener aperto costantemente un canale comunicativo con la famiglia. Rivela l’ansia dei soldati di perdere il filo, l’unico che li può ricondurre a casa.

La Grande Guerra fu un notevole volano per la diffusione della pratica della scrittura fra persone (pensiamo alla massa dei “soldati-contadini”) che spesso a stento erano alfabetizzati. Perché in guerra era così necessario scrivere a casa e/o a tenere un diario?

Quinto Antonelli: Il bisogno di scrivere dei soldati-contadini è un bisogno “primario”. In una situazione di estrema precarietà (i soldati si sentono confinati in un mondo dominato dalla paura, si descrivono spesso come prigionieri della trincea), lo scambio epistolare con la famiglia rinsaldava i rapporti con la quotidianità del passato e gettava un ponte verso il futuro. Da qui l’insistenza di sapere anche minutamente le cose domestiche, gli affari di casa, come stavano procedendo i lavori di campagna legati al cambiamento stagionale. I legami famigliari diventano l’unica fonte di identità, in una situazione disorientante e minacciosa.

Alla base della decisione di tenere un diario, ci sono spesso motivazioni diverse: la volontà di testimoniare eventi che si profilano come straordinari, il bisogno di misurare e di fissare il tempo che scorre, l’esigenza di mettere ordine in un’esistenza in cui è difficile riconoscersi.

Nella Sua introduzione al libro, leggiamo una citazione di Asor Rosa: «L’attrito maggiore del ricordo si produce con la scrittura: la scrittura, per chi la pratica, logora e consuma più di qualsiasi altra forza al mondo, perché le parole, una volta fissate, succhiano la vita alle loro radici, e quando non c’è più nient’altro da succhiare, le consumano finché non spariscono». In che senso per quei soldati che, durante o dopo la guerra, vollero fissare sulla carta i loro ricordi, la scrittura erose la memoria orale?

Quinto Antonelli: In sostanza, chi scrive le proprie memorie dopo la guerra e magari a grande distanza dagli eventi (sollecitato dai nipoti, o da qualche ricorrenza, oppure da qualche lettura) fissa sulla carta una narrazione che fino ad allora era stata solo orale, sottoposta ogni volta a sollecitazioni, integrazioni, modifiche. Una volta scritte, le memorie diventano, al contrario, un testo definito e definitivo che diventa, a sua volta, la base di una nuova narrazione. Per questo Asor Rosa può sostenere che dopo a ver scritto la propria storia, il testimone ricorda solo ciò che ha scritto e non più “direttamente” gli eventi. Le virgolette sono indispensabili, perché sappiamo bene che non si ricorda mai da soli e mai una volta per tutte, ma sempre dentro un determinato contesto storico, influenzati dalla memoria collettiva.

Lei si è specializzato nello studio della “scrittura popolare” e l’Archivio, di cui è responsabile, è fra i centri di ricerca più importanti in Italia in questo campo. Ci vuole raccontare in breve la storia dell’Archivio di Trento? E come è nato in Italia l’interesse degli storici per questo tipo di fonti?

Quinto Antonelli: L’Archivio di Trento nasce informalmente all’inizio degli anni Ottanta, quando intorno alla rivista “Materiali di lavoro” nasce e cresce l’esigenza di promuovere una storia “dal basso”, una storia sociale, una storia capace di raccontare le nuove soggettività portate alla ribalta anche dal movimento del Sessantotto: i giovani, le donne, gli operai, i subalterni. Nel contempo la “scoperta” dell’esistenza di una vasta autobiografia popolare ci ha condotti verso una nuova storiografia della Grande Guerra come evento mentale e culturale, che trova ampia risonanza nel convegno roveretano del 1985, “Grande Guerra: esperienza, memoria, immagini”, con la presenza di storici quali Paul Fussel e Eric Leed.

Nel 1987 le lettere, i diari e le memorie dei soldati vennero a formare il nucleo più consistente dell’Archivio della scrittura popolare, sezione dell’allora Museo del Risorgimento e della Lotta per la Libertà (ora Fondazione Museo storico del Trentino).

Negli stessi anni, le scritture popolari (di guerra e non) calamitano l’interesse di singoli ricercatori (storici, antropologi, linguisti), ma anche di riviste e di istituti. Su impulso di Antonio Gibelli, nasce presso l’Università di Genova l’Archivio ligure della scrittura popolare. A Pieve Santo Stefano (Arezzo), per merito di Saverio Tutino sorge l’Archivio diaristico Nazionale. Tra gli archivi e gli studiosi si stende una sottile rete di collaborazione e di confronto, che si rinsalda nei tanti seminari nazionali e internazionali (dodici fino ad ora) che si sono tenuti dall’87 ad oggi. Negli incontri abbiamo messo a fuoco via via l’identità degli scriventi, i luoghi e i temi della scrittura popolare (non solo guerra – prima e seconda – ma anche emigrazione, emarginazione, lotta politica, scuola).

Mi pare di poter dire che oggi i ricercatori abbiano a disposizione una sovrabbondanza di queste fonti. Praticamente in ogni comune è stato via via pubblicato un numero impressionante di carteggi, taccuini, memorie. Come orientarsi davanti a tutti questi materiali, la cui lettura richiede un alto livello di partecipazione, di attenzione?

Quinto Antonelli: Sì, è vero. Gli storici si trovano davanti non alla scarsità delle fonti, ma al contrario, alla sovrabbondanza. In fondo questo mio libro è anche la testimonianza di ciò che stiamo dicendo: è una antologia costruita con materiali prelevati in parte dagli archivi e in parte da decine di pubblicazioni. Senza contare che a monte c’è la lettura di qualche migliaio di testi.

Non sempre le pubblicazioni locali sono affidabili: mancano spesso informazioni sugli autori dei testi, i testi stessi sono riprodotti senza alcuna cura filologica, tanto da destare sospetti sul loro grado di autenticità. Il più delle volte le edizioni di memorie e diari sono opera di appassionati più della guerra e dei fatti d’arme che delle vite travolte dal conflitto. Sono alla ricerca degli eventi e tendono a prestare poca attenzione all’esperienza quotidiana della guerra, che appare loro ripetitiva, noiosa e priva di elementi straordinari.

L’uso di queste fonti deve sottostare, invece, a tutta una serie di precauzioni: vanno capite, vanno inserite nel loro contesto, vanno fatte interagire con un quadro storico più generale.

Torniamo al Suo ultimo libro: dalle Sue ricerche sulla scrittura dei soldati al fronte, che immagine di esercito esce? Quanto era consapevole la massa dei militari italiani di ciò che stava accadendo? E cosa pensavano dei loro ufficiali e, più in generale, della classe dirigente del Paese?

Quinto Antonelli: Che immagine di esercito esce. Non mi sembra che dalle scritture autobiografiche emerga un’immagine dell’esercito in quanto tale; nello specchio autobiografico ci sono loro, gli scriventi e pochi altri, i commilitoni più vicini, più spesso quelli che provengono dallo stesso paese. I soldati si descrivono sempre come soldati in situazione, nelle retrovie, nella zona di guerra, in marcia, in trincea. Dovunque il senso è quello della coercizione, dell’umiliazione, della sofferenza. La loro condizione è quella del “prigioniero”, dell’uomo privato della sua libertà. Certo non sempre i soldati stanno in prima linea sotto il fuoco nemico. Così nelle retrovie fioriscono le amicizie maschili: il clima di cameratismo sana, in parte, la solitudine e la nostalgia per la famiglia e la vita domestica. Per molti di loro la religione, con le ritualità assicurate dal cappellano militare, fornisce un qualche conforto. Ma tutto questo è temporaneo: con il ritorno al fronte si torna pure sotto il dominio della paura.

Consapevolezza. Già nei primi mesi, durante i quali sono sottoposti alle dure conseguenze della strategia cadorniana dell’assalto frontale (le battaglie dell’Isonzo), cresce nei soldati la coscienza di essere coinvolti in uno scontro dai tratti feroci e cresce anche la paura di una guerra di lunga durata, potenzialmente infinita. Arruolati e portati sul fronte senza alcuna cognizione della guerra moderna, le domande ai famigliari circa le voci di pace sono continue ed ossessive.

Ufficiali e classe dirigente. In generale gli ufficiali sono coloro che mettono in atto la coercizione, sono coloro che pistola alla mano spingono i soldati fuori dalla trincea, coloro che comandano gli assalti, coloro che fucilano. Tutti i soldati hanno un loro ufficiale da denunciare.

Questo non toglie che gli ufficiali e i sottufficiali, soprattutto quelli di complemento, furono le principali vittime della logorante quotidianità delle trincee, segnando una mortalità (in termini statistici, non certo in termini assoluti) maggiore a quella dei soldati semplici.

Della classe dirigente del paese i soldati parlano poco e quando ne parlano faticano a individuarla. E’ genericamente il governo, la stampa, la propaganda, coloro che hanno voluto la guerra e poi sono rimasti a casa, l’opinione pubblica.

A questo proposito, in che cosa si differenziano proprio le memorie degli ufficiali (ogni tanto poi riconosciute come letteratura vera e propria) da quelle dei soldati semplici, anche al di là delle “titubanze” e delle sgrammaticature dell’“italiano popolare” di questi ultimi?

Quinto Antonelli: In primo luogo, si deve constatare che i diari e le memorie degli ufficiali sono scritti per un pubblico molto più ampio di quello composto dalla cerchia famigliare. Sono scritti anche per noi posteri, per noi storici. Perfino le lettere famigliari possiedono quel tanto di “maschera letteraria” che ne fanno un documento poco intimo.

In secondo luogo, dobbiamo rilevare che sono perlopiù memorie di interventisti, di ufficiali (studenti universitari, giornalisti, intellettuali, professionisti) che la guerra l’hanno voluta e l’hanno fatta con convinzione, spinti dalle parole d’ordine più diverse (la patria, il risveglio nazionale, l’antico diritto, l’Italia più grande, il dominio sul Mediterraneo, la barbarie tedesca, ecc.). Dobbiamo tuttavia riconoscere che i testi più onesti non negano la durezza quando non l’orrore di questa guerra (si veda la dolente raccolta di Adolfo Omodeo, Momenti della vita di guerra o le lettere dei fratelli Garrone). Ma non c’è dubbio che gran parte della memorialistica e della letteratura di guerra pubblicata dopo il conflitto negli anni Venti e Trenta ha contribuito a costruirne e a tramandarne una rappresentazione risorgimentale intessuta di mitologie (uno per tutti, quello più duro a morire, il mito degli alpini: si provi a rileggere Le scarpe al sole di Paolo Monelli!).

Le scritture dei soldati subalterni sono naturalmente di tutt’altro genere: sono più intime, più frammentarie, più individuali. Riflettono, se vogliamo, anche le culture politiche di un popolo che da pochi anni si stava affacciando alla vita pubblica del paese (le parole d’ordine di un socialismo nascente, ad esempio). Ma, come ho già detto, gli scriventi popolari si collocano per lo più al di qua del conflitto interventismo/neutralismo, affermando la loro radicale estraneità.

Ciò che più affascina forse di questo tipo di documenti è provare a immaginare le condizioni materiali in cui erano costretti a scrivere quegli uomini, spesso senza neppure un piano d’appoggio o luce sufficiente, e soprattutto senza un po’ di intimità. Cosa ci può dire su questo aspetto?

Quinto Antonelli: Anche nelle rappresentazioni che i soldati danno di sé (intenti a scrivere sul fondo di una trincea, riparati dietro la porta di una casermetta, custodi sempre gelosissimi degli strumenti della scrittura) possiamo leggere il bisogno “primario” di scrivere. Nel volume riporto il caso di un soldato analfabeta e del suo amico, scrivente per delega, che passano la guerra nel tormento per lettere spedite e smarrite, per la moglie che non scrive, per la carta da lettera smarrita durante la rotta di Caporetto, per l’incapacità di leggere da soli e così via.

Quinto Antonelli

Quinto Antonelli è responsabile dell’Archivio della scrittura popolare presso il Museo storico del Trentino, per il quale ha curato la collana «Scritture di guerra», edita insieme al Museo storico della guerra di Rovereto. Ha collaborato a La Grande guerra, l’opera della Utet curata da Mario Isnenghi e Daniele Ceschin. Si occupa delle narrazioni autobiografiche della gente comune, dei processi di educazione, della storia delle guerre del Novecento.

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Tysm

philosophy and social criticism

vol. 25, issue no. 25

JUNE 2015

ISSN: 2037-0857

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