philosophy and social criticism

Grotowski ieri e oggi. Un piano di lavoro per chi pensa e fa il teatro

Antonio Attisani

Nel Novecento il fare teatro è stato dominato dall’idea di dover servire una causa, foss’anche quella del divertimento, e dall’economia, considerata una legge naturale, mentre la tecnica era sottoposta alle prime due. Il secolo breve, però, è contrassegnato anche da diverse “lotte di liberazione” degli attori, in origine detti appunto «tecnici di Dioniso». Le istanze più significative degli attori puntavano sulla tecnica e, come d’altronde avveniva per tutte le avanguardie artistiche, sulla performance, termine che definisce una produttività autonoma e una unità di composizione e esecuzione dell’opera, ma anche l’incontro diretto tra l’artista e i suoi interlocutori.

Una linea dell’attore, forse la più importante, è quella che va da Stanislavskij a Grotowski e oltre, passando per figure come Mejerchol’d, Artaud e persino l’ultimo Brecht, quello dell’«attore carnale». Si è delineata in tal modo una tradizione del nuovo, si è dato inizio a una storia inedita.

Loro, Thomas Richards e Mario Biagini, si sono formati con Grotowski e continuano dopo Grotowski. Il segno più vistoso della differenza di cui sono portatori è che entrambi sono attori, o meglio performer, visto che sono autori, attori e operatori (e che mirano alla meta che lo stesso Grotowski aveva definito Performer). Non sono i primi e non sono i soli (basti pensare a Carmelo Bene, purtroppo poco conosciuto nel resto del mondo), ma la novità storica che significano non è stata ancora presa in considerazione come dovrebbe. A titolo di esempio valga ricordare che gli scritti di Richards sono tra le prime e più pregnanti testimonianze interne dei processi e vissuti dell’attore, oltre tutto vagliati con una consapevolezza culturale di ampio respiro.

La riconquista del teatro da parte di questi artisti è motivata dalla necessità di lavorare alla propria trasformazione – ma tenendo insieme soggetto e oggetto, insegnante e studente, egoismo e altruismo –, trasformazione che dunque si realizza in un contesto collettivo e si offre alla comunità. La novità storica di cui sono portatori è una forma di lotta contro l’entropia propria sia della natura (con il progressivo deficit neuronale che dai diciotto-venti anni in poi caratterizza l’essere umano), sia della società (che tende a trasformarci in esecutori automatici delle sue regole).

Grotowski guardava avanti, riferendosi però a tradizioni antiche o perdute, o a tradizioni altre, sempre puntando sulla tecnica e la sua essenza, intendendola come fonte di verità, orientamento del desiderio e matrice dell’etica, però senza mai idolatrarla. Su questa base il “regista polacco” ha investito tutta la propria energia vitale in una sperimentazione continua che, tra l’altro, ha conquistato al teatro uno statuto di nuova scienza empirica. Grotowski è stato uno dei massimi e degli ultimi esponenti, nel XX secolo, di un teatro tecnicamente orientato, nato in un contesto dai fini diversi e sviluppatosi attraverso nuove alleanze disciplinari. A fronte di un tale quadro non ci dovrebbe essere bisogno di scadenze e anniversari per ricordarne l’opera, e tuttavia ben vengano le date simboliche se consentono di rendere maggiormente accessibile un patrimonio di testi e insegnamenti di così bruciante attualità.

Una questione fondamentale, in questa prospettiva, è quella di armonizzare lo studio, la ricerca e la consapevolezza individuale, perché il teatro deve sintetizzare tutti e tre questi aspetti. Certo, ogni attore sa della complessità di saperi che il proprio lavoro mette in gioco, ma la vera consapevolezza è un’altra cosa e sicuramente è rintracciabile in quella “nuova tradizione” di cui Grotowski è uno dei massimi esponenti. Ammettiamo pure che il lavoro teatrale possa svolgersi, ieri come oggi e domani, in una dimensione pratica non riflessiva, senza per questo essere limitato nei risultati, in linea di principio. La consapevolezza, d’altra parte, è una sorta di dannazione che si impossessa di chi ne sente la necessità e non può muoversi in alcuna direzione senza di essa (anche se non va confusa con l’apparato concettuale, vago o sofisticato che sia). La differenza decisiva, in sintesi, è fra il transitare nella storia senza curarsi del senso, proprio e degli altri, e il bisogno di sapere esattamente dove ci si trova per trovare eventuali vie d’uscita.

L’attore-performer di cui si sta parlando, con-dannato a inseguire la consapevolezza dei propri mezzi e fini, non è, non può essere indifferente, non può riconoscersi più nella questione di ieri: essere un attore-performer è per lui non un punto d’arrivo, ma un punto di partenza. La sfida che contraddistingue questa “generazione” deriva dall’operare consapevolmente tra la tecnica e l’arte, da intendere non come due territori distinti ma come due organismi autonomi e al tempo stesso inseparabili che costituiscono il corpo unitario del perfomer.

Sollevare la questione significa (crea il segno di) un nuovo orizzonte verso cui muoversi, indica qualcosa di sconosciuto eppure di desiderato, dunque designa una impresa che potrebbe farsi collettiva. Una vaga consapevolezza generale è la prima nemica dell’autentica consapevolezza individuale: questa, come sottolineava con forza Grotowski, non è il prodotto di un catalogo di intenzioni, né del training o di qualsiasi metodo di preparazione al teatro, ma, come la tecnica, è implicita nel compimento e nell’opera (d’arte). Dal fraintendimento di questo problema hanno avuto origine non pochi equivoci. Ammettiamolo, nei piccoli o grandi eserciti di grotowskiani, di odiniani (speriamo non, domani, di workcenturioni) convivono una maggioranza e una minoranza: i primi non sono capaci di andare oltre una professione di fede ideologica nei confronti della tecnica, i secondi sono tali perché imparano a praticare la tecnica, a riconoscerne e insieme superarne i limiti, e a impadronirsi del sapere che essa implica.

Cosa resta di Grotowski, dunque, ma anche (oggi che possiamo finalmente vedere): con quali altri artisti Grotowski condivideva di fatto una visione del mondo? Con quali cambiamenti socioculturali dobbiamo misurarci per cogliere la differenza tra il contesto generativo di un’opera e la sua attualità? E infine: quali sono i soggetti teatrali, culturali e politici del presente, appartenenti a generazioni successive, che sembrano ricollegarsi, riconoscendolo o meno, a quella prospettiva?

Grotowski, un testo. La prima cosa da indicare in questo senso, e proprio per non scoraggiare nessuno dal mettersi alla prova, è costituita dai testi di Grotowski, un corpus ancora vivo per merito soprattutto della crudeltà di cui è impastato, poiché nulla concede ai dogmatismi di ogni colore e alle mollezze della democrazia culturale. Il lavoro di edizione, poi di promozione e di studio dei suoi scritti in tutto il mondo è una delle imprese più degne che si possano immaginare e in questo senso dobbiamo riconoscere la situazione di particolare privilegio dell’Italia, il paese che ospita le persone più di ogni altre qualificate a svolgere questo compito (penso a Mario Biagini, Thomas Richards e Carla Pollastrelli in primis, a ciò che hanno già fatto e a ciò che stanno facendo).

L’insegnamento incarnato. È noto a tutti che Grotowski ha dedicato gli ultimi tredici anni della propria vita alla trasmissione, nell’esilio, nella povertà e anche nella libertà che ha trovato a Pontedera. Richards e Biagini sono stati i suoi principali allievi. Quanto mai produttivo è il confronto del testo grotowskiano con la pratica del Workcenter, che parte da quelle basi e va oltre, come i due hanno dimostrato dapprima praticando la distinzione fra arte come veicolo (lavoro su sé stessi, rigore rituale) e teatro come presentazione, poi riunendo i due anelli della catena in modo inedito e estrinsecando questo lavoro in una serie di opere-compimento e di testi che, tra l’altro, delineano un nuovo orizzonte per la tecnica dell’arte performativa. Oggi, alla guida di un numeroso gruppo, Richards e Biagini sono capaci di visitare orizzonti per altri ancora inarrivabili e di tornare a narrare i loro viaggi: credere a quei racconti non vuole dire appagarsene o trasformarli in dottrina ma ricavarne un concreto impulso, fisico e spirituale insieme, per tentare l’esperienza in prima persona, per sapere cosa desiderare, o condannarsi a volere. La forma più alta di consapevolezza si manifesta come poesia, poesia dell’incamminato verso la propria indicibile meta.

I grotowskiani. In tutto il mondo esiste un vasto arcipelago di scuole e pratiche artistiche che si richiamano all’insegnamento di Grotowski, una realtà talmente vasta che nessuno può conoscerla perfettamente. Sembra di capire che si tratta principalmente di quei “grotowskiani” dai quali il maestro aveva preso le distanze fino dagli anni Sessanta, come dimostrano alcuni suoi scritti inequivocabili. È una realtà da indagare meglio e diversi studiosi, dalle Americhe all’Asia, sono mobilitati in questo senso. Naturalmente, per molto tempo ancora, ogni volta che si affronterà questa tema emergeranno flagranti contraddizioni, ma il vaglio dell’attualità di un’opera come quella di cui stiamo parlando presuppone anche la responsabilità di misurarsi con questo orizzonte.

I maestri del Novecento. Un’altra direzione di studio, tutt’altro che sterilmente accademica, è quella che consisterà nel ricostruire in modo credibile la storia del teatro del Novecento e delle sue avanguardie. Oggi, nel secolo senza Grotowski, e senza Artaud, senza Stanislavskij e Mejerchol’d, senza Kantor, senza Carmelo Bene e Leo de Berardinis e tanti altri, siamo in grado di comprendere che al di là delle peculiarità poetiche e delle diffidenze reciproche, questi grandi maestri incarnavano alcuni principi, per esempio credevano in un teatro inteso non come rappresentazione dei testi ma come lavoro artistico su se stessi, laddove l’arte trascende la connotazione egotica e mira a verità più profonde, individuali e universali al tempo stesso. È un’idea che fino a poco tempo fa non si poteva nemmeno formulare e che invece oggi appare come un punto di partenza, e non d’arrivo, di una riflessione storiografica viva, in grado di conferire solide leve alle ragioni della ricerca.

Il teatro nella società dello spettacolo. Certo non si potrà trascurare di prendere in considerazione il cambiamento macroculturale, antropologico, realizzatosi nella seconda metà del XX secolo. Per esempio come non considerare che l’opera di Grotowski (e dei suoi “simili”) si realizza nella società dello spettacolo integrale, e integralista, che ha assorbito, o pretende di farlo, la realtà intera e con essa anche il teatro? Ebbene, le esperienze cui facciamo riferimento indicano una strada differente dall’alternativa tra il boicottaggio (senza speranza) della società dello spettacolo e l’omologazione a essa. Privilegiando il corpo, lo spazio, la parola o altri ordini di segni, i nostri delineano un’altra possibilità, non dell’ordine della comunicazione, non velleitariamente superiore alle prime due, ma concretamente funzionante, una terza via, «creativa» la definiva il primo Grotowski. Ecco perché ci si può ritrovare a parlare di lui, a dieci anni dalla morte, senza compiere un gesto vuoto, ipocrita, di sconsolata rinuncia a contrastare un presente che non ci piace.

Passato, presente e futuro. E ci sono infine le nuove generazioni. Contemporaneità significa non soltanto noi e la nostra esperienza ma i sentimenti, le opere, le idee di chi ha trenta o quarant’anni meno di noi. Forse per loro può essere di una certa utilità assistere alla messa in mostra della nostra storia – se ne siamo all’altezza, appunto – e a noi certo conviene essere testimoni del loro fare e del loro pensiero. L’ho già detto: sono convinto che in questo secolo gli scritti di Grotowski saranno importanti almeno quanto quelli di Artaud lo sono stati nel secolo scorso; ma saranno i più giovani a scoprirli e a dispiegare l’ermeneutica necessaria. Incontrandoci, qualcosa di diverso può accadere. Loro sono i viandanti in cui ci imbattiamo dopo avere molto camminato: noi li proiettiamo nel passato, di cui pure hanno bisogno, e loro ci indicano un futuro di cui, se va bene, conosceremo solo l’inizio.

23.XI.2008