Il “biglietto da visita” del criminale
Theodor Reik
L’esame delle feci che molti criminali lasciano dietro di sé, condotto spesso alla loro scoperta. Questo esame si e dimostrato, talvolta, cosi istruttivo, che un criminologo francese, Reiss di Lione, definì le feci del criminale la «carte de visite odorante.». È chiaro che il grumus merdæ viene collegato a molte superstizioni: il criminale spesso crede che se ha lasciato le proprie feci sul luogo del delitto non sarà ricercato subito. Per aumentare l’indugio, copre le feci e vari oggetti. Il nome che generalmente viene dato alle feci nei vari paesi – come «Wachter» e “Posten» in Germania; «Schuldwachtren»in Olanda, «sentinelle» in Francia, «uomini di notte» in Italia – è una prova di questa superstizione. Wulffen spiega la presenza delle feci come «un segno visibile della noncurante impudenza del cri criminale». Non c’è dubbio che l’intenzione sia a volte quella di burla. Non c’è dubbio che l’intenzione sia a volte quella di burlarsi dell’autorità; ma il motivo principale non è questo. Hellwig, che ha seguito le manifestazioni di questa abitudine in molti paesi, ne dà una spiegazione più cauta, e pensa che si fondi sull’idea che – perché il criminale possa scappare – qualche cosa di lui deve rimanere sul posto: tanto è forte l’intima convinzione che ogni colpa deve essere espiata. Con questo sacrificio il colpevole vuole propiziarsi gli dei, vuole perfino forzarli a fargliela passare liscia. Hellwig evidentemente fa sua la teoria del motivo superstizioso, e spiega le cose fino ad un certo punto. Molti criminali attribuiscono realmente a quella consuetudine il carattere di un sacrificio volontario, come una indennità. Ma la teoria di Hellwig non può essere considerata psicologicamente valida, per due ragioni; la prima e di ordine generale e deriva dalla esperienza psicoanalitica, in quanto i motivi superstiziosi non sono quelli definitivi, ma hanno bisogno di essere esaminati e spiegati. La persona stessa può spiegare le cose solo in parte, la parte conscia, ma non ci può dire niente degli importanti motivi che hanno determinato la sua condotta.
Così crediamo che, in questo caso, la teoria della superstizione abbia bisogno di una spiegazione psicologica più profonda. La seconda considerazione è di natura più determinata; e diventa chiara se, provvisoriamente, accettiamo la teoria della superstizione proposta da Hellwig. Se la consuetudine ha le sue radici nella superstizione, come farà – qualche volta – il criminale ad avere a sua disposizione il materiale per il sacrificio, se non è spinto da un bisogno fisico, ma solo da un’intima voce? Come può produrre a volontà la materia fecale? Questo è il problema.
B. Kraft, che ha compiuti recenti studi su questo argomento, rifiuta decisamente la teoria della superstizione. L’emozione del criminale – egli dice – provoca nell’intestino un movimento peristaltico attivo, che lo costringe a defecare. Questa abitudine, osserva, tende a sparire nel criminale incallito. Perciò egli conclude che la presenza feci, indica che il delitto e opera di un principiante – o che un principiante era, ad ogni modo, sul posto. E suppone che sia stato il fatto psicologico a creare la superstizione.
Dobbiamo a Freud la scoperta dei fatto che il bambino considera le feci come un regalo, un segno di affetto da offrire ad una persona cara. Questo sacrificio infantile non esclude il loro uso come gesto di sfida: perché quest’ultimo significa solo l’applicazione, in senso negativo, del significato primario dell’atto. Il grumus merdæ, secondo Freud, può significare le due cose: un riso di scherno, ed una forma regressiva di restituzione. Questa è una spiegazione più precisa della teoria dell’emozione di Kraft: motivo principale è la paura. La superstizione del criminale, l’idea di espiazione e di protezione rappresentata dalle feci, diventa comprensibile se considerata come espressione infantile di compensazione. La provocazione ed il disprezzo hanno una funzione che chiaramente si può avvicinare alla tendenza regressiva inconscia.
Le feci, facendo parte della persona, rappresentano il colpevole; dal punto di vista infantile, lasciarle dietro di se significa lasciare una parte di sé. Ad un diverso livello culturale, questa stessa idea la troviamo nel codice penale dei selvaggi, o nel medioevo; dove con un’ammenda, o col dono di animali domestici, si può pagare un delitto, un omicidio, un furto.
Il carattere dimostrativo del grumus merdæ, rivela che esso è una espressione dell’inconscio impulso a confessare; qui le feci significano paura sociale, e questo concorda con la teoria di Kraft, che mette in relazione la presenza di feci con la presenza di criminali molto giovani o non ancora induriti al delitto. A volte, risalendo dagli effetti ai motivi inconsci, si potrebbe anche dire che le feci sono state lasciate apposta per auto-accusarsi. Considerando che spesso l’esame delle feci procura un indizio, vediamo poi che la fiducia superstiziosa nelle feci, come mezzo di protezione, è una interpretazione ottimistica di una credenza opposta. Può darsi che il criminale sia convinto di aver pagato il suo “tributo” alla giustizia, o alla vittima, in questo modo infantile. Altre volte l’auto-accusa si manifesta in un altro modo: Gross parla di un pericoloso criminale – un certo Demeter Radek – che saccheggiò un negozio a Cernwitz. Radek, che proprio allora era uscito dal carcere, defecò nel negozio saccheggiato, e si pulì col suo foglio d’uscita dalla prigione.
Forse la spiegazione psicologica del grumus merdæ va oltre il caso speciale della defecazione, ed è buona per un intero gruppo di indizi. Hellwig menziona una credenza, molto diffusa nelle vicinanze di Aleksine, secondo la quale un assassino, per sfuggire alla cattura, non deve fare altro che lasciare sulla vittima qualche cosa del suo vestiario. Il caso seguente, accaduto circa venticinque anni fa, serve ad illustrare questa credenza. Un giorno, un contadino di Soho Banja, cominciò a litigare con un altro contadino in un caffè di Aleksine: dalle parole passarono ai fatti, e quello di Soho Banja cavò fuori il coltello, e uccise l’altro. Allora si tolse il berretto di pelliccia, lo gettò sul cadavere; e facendosi strada in mezzo alla folla, scappò. La gente disse che non era stato preso perché aveva gettato il suo berretto sul cadavere. Secondo una credenza popolare, in Bosnia ed Erzegovina, un omicida e attratto cosi fortemente dal sangue della vittima, che non e capace di lasciarla: e, per poterla lasciare, deve gettarle addosso qualche cosa che gli appartiene, per esempio anche l’arma.
In Abruzzo un assassino deve gettare l’arma in una certa direzione; in Sicilia credono che se l’omicida conserva il pugnale, questo lo porta inevitabilmente nelle mani della polizia. Hellwig cita un esempio che dimostra come una superstizione di questo genere possa creare un indizio: una donna abbandonò sulla strada, in una gelida notte, il suo bambino di dieci mesi, e gli lasciò accanto le sue scarpe, nella speranza che, cosi facendo, non l’avrebbero scoperta. Invece furono proprio le scarpe che la fecero rintracciare, perché il calzolaio del luogo ricordava per chi le aveva fatte. Hellwig crede che la donna aveva lasciate le scarpe pensando che cosi non ci sarebbero state orme ad indicare in quale direzione se n’era andata. In un altro caso, fu trovata sul luogo del delitto l’impronta di una mano macchiata di sangue, e se ne dedusse che il colpevole forse si era macchiata la mano, o forse si era tagliato; quando fu arrestato ammise di essersi tagliato apposta per poter lasciare un’impronta. Dice Hellwig che, secondo la credenza popolare, la mano insanguinata stava in rappresentanza della persona stessa. Tutte queste superstizioni, raccolte da Hellwig e da altri autori, attestano la credenza che esista un legame magico tra l’omicida e la sua vittima, considerandosi questa non completamente morta, ed ancora capace di vendicarsi del suo uccisore. Per accattivarsi la vittima, o il suo spirito avido di vendetta (originariamente identico all’ego fisico dell’ucciso) non c’era che un modo, cioè la morte dell’uccisore, secondo la legge del taglione. In seguito, qualche cosa apparte-nente alla persona dell’omicida (le feci, il sangue, un pezzetto di vestito, etc.) prese il posto del sacrificio personale. Ciò che più tardi diventò indizio – per esempio un pezzetto di vestito- era considerato una di parte di se stesso, che l’omicida aveva lasciato dietro di se deliberata-mente, per ragioni magiche. Un indizio di questo genere ha un posto speciale nelle superstizioni di un criminale del giorno d’oggi. In que-sto rapporto, lo sviluppo mentale ha inclusi due processi, cioè uno spo-stamento dalla cosa originale ad un dettaglio, e l’estensione dell’omicida stesso a qualunque cosa con la quale sia venuto in contatto. L’ambivalenza ha cambiato nel suo esatto contrario il significato di ami-chevole riconciliazione e di espiazione che aveva l’oggetto lasciato. E così avviene che proprio l’oggetto destinato a proteggere il criminale dall’arresto e dalla punizione, lo consegni alla giustizia. La supersti-zione, nel criminale, mostra un antichissimo modo di pensare, che si mantiene tale pur nel commettere il delitto con tutte le accortezze tecniche e scientifiche.
La storia degli indizi – espressi per parapraxis (azione sbagliata) – dimostra che l’auto-punizione può essere sostituita dall’auto-accusa, ed il bisogno di espiazione dall’inconscia, irresistibile spinta a confessare. L’atto espiatorio e sostituito da una parapraxis, ma la parapraxis è, in se stessa, una espiazione inconscia. In altri tempi, l’unica espiazione dell’omicidio, era la morte dell’omicida.
Oggi la stessa legge implacabile si manifesta in maniera inconscia, ed impone all’omicida di consegnarsi alla giustizia auto-accusandosi. E questa legge mentale è implacabile; dura lex, sed lex.
[Estratto da Theodor Reik, L’impulso a confessare, traduzione di Ada Costantino, Feltrinelli, Milano 1967, Parte I, capitolo 8; The compulsion to confess. On the psychoanalysis of crime and punishment, Grove Press, New York 1961]