philosophy and social criticism

Ho parlato con Dio di Antonin Artaud

Sylvère Lotringer [*] [**]

Jacques Latrémolière Debbo confessarle che quando mi ha telefonato per fissare un appuntamento, non ero molto entusiasta. Rivangare, trent’anni dopo, la vita di Artaud, mi pare un po’ ridicolo. E poi sono venuti a trovarmi già due volte, e ogni volta per fotografare un disegno di Artaud che possiedo. Da allora quelle persone non si sono fatte più sentire. Non ho nemmeno un loro biglietto da visita. Quindi capisce che… Ora ho messo il disegno d’Artaud nella mia cassaforte in banca.

Sylvère Lotringer Si è occupato personalmente di Antonin Artaud durante il suo soggiorno all’ospedale psichiatrico di Rodez?

J.L. Lavoravo con il dottor Ferdière, direttore dell’ospedale. Sono stato amico di Artaud per due anni. Ha letto l’articolo che ho scritto in merito: “Ho parlato di Dio con Antonin Artaud”? Lì ho detto circa tutto ciò che pensavo di Artaud. Da allora penso altro di lui. Gli studi si moltiplicano. Trovo che sia un peccato. Artaud non aveva messaggi da trasmettere. Non ha mai avuto nessun messaggio. Era un paranoico particolare, con idee di grandezza e di persecuzione assolutamente straordinarie.

S.L. È stato amico di Artaud…

J.L. Si rivolgeva ai suoi amici, a coloro cioè di cui approfittava, ogni volta che aveva bisogno di oppio. Non gliene abbiamo mai dato, ma ce l’ha chiesto. Eravamo suoi amici, però non appena ci allontanavamo da lui, diventavamo suoi nemici. Ed è stato così per un gran numero di persone intorno. La sua opera scritta, io la considero un grido. Un grido d’orrore. Lanciato da un uomo che non aveva nessun senso. Nessun senso dell’altruismo. Si metteva al centro del mondo. Esisteva solo lui, e gli uccellini.

S.L. Però c’erano gli uccellini.

J.L. D’accordo c’erano gli uccellini, il che è già qualcosa, ma insomma… Trovo comunque un po’ esagerata la gloria che gli si attribuisce.

S.L. Ma l’orrore che sta dietro alla paranoia non rende appunto importante ciò che dice? Quel che sentiva l’ha condotto a scrivere quel che ha scritto, e quel che ha scritto ha provocato una specie di shock…

J.L. Come mai sentiva cose molto diverse a pochissima distanza di tempo? Questo significa che non era se stesso al cento per cento. L’ho visto gridare, io, l’ho sentito gridare. Non contro di me, mai. Mi ha urlato contro solo dopo, non è così?, quando è andato via da Rodez. Credo quindi che gli uomini non possano trovarci nulla nell’opera di Artaud. Nulla. Non farà progredire la civiltà. No di certo. Al contrario. Un personaggio così ampolloso… Ce ne sono altri al mondo, di palloni gonfiati. Ma quelle grida dietro il sipario, quello spettacolo terribile che c’è stato a Parigi. L’hanno fatto gridare anche lì, aveva perso i suoi fogli e continuava a sbraitare. Non ha fatto altro che sbraitare e ritengo che una persona incapace di controllarsi non apporti niente a nessuno.

S.L. Prenda un altro scrittore contemporaneo di Artaud, Céline.

J.L. Céline, sì.

S.L. Anche Céline si è ritrovato in una posizione di paria, abbandonato sulle strade della Germania, in piena confusione. Ciò che è insopportabile tanto in Céline quanto in Artaud, è forse il fatto che giungono ad un punto tale in cui possono dire cose sull’umanità che riguardano tutti.

J.L. Ho qui l’opera completa di Artaud – ho le prime edizioni dei suoi libri, sa, me le ha regalate – e poi ho seguito via via… ebbene! quando leggiamo la totalità di ciò che esprime, ci accorgiamo che pochissimo è comprensibile. Pochissimo.

S.L. Che cosa intende dire con «comprensibile» ?

J.L. Comprensibile come la nostra conversazione per esempio. Il numero di parole che ha creato ruttando e che non hanno nessun senso – perché non hanno nessun senso – non apporta nulla alla civiltà, ma proprio nulla.

S.L. Pensa che la civiltà stessa ne abbia così tanto di senso?

J.L. Ah sì. Basta guardare l’umanità dal principio per vedere che c’è un miglioramento progressivo. Certo ci sono dei crolli, ma, in linea generale, si assiste ad una crescita.

S.L. Abbiamo migliorato il modo di uccidere la gente, e basta.

J.L. Non solo questo, no, non solo. Oh no, no. Io comunque non ho mai ucciso nessuno. Di persone che hanno ucciso qualcuno, cerchi pure, non ce ne sono tante, tranne per motivi politici.

S.L. Appunto. Io associo Artaud ai dadaisti. È tutta un’epoca. La prima grande carneficina.

J.L. Surrealista. Artaud è surrealista.

S.L. Lo so bene. Ma la sensibilità di Artaud mi pare molto più caotica e anarchica e incontrollata, come quella dei Dada. Artaud, per me, è una risonanza, una cassa di risonanza di quella grande rottura che è stato il dadaismo nella nostra civiltà. Se possiamo chiamare civiltà questa follia di sterminare su scala mondiale… Artaud forse è paranoico, narcisista, megalomaniaco, tutto ciò che vuole, ma questo gli dà una certa percezione delle cose. Una percezione completamente inumana per certi aspetti…

J.L. Inumana, è la parola giusta. Pertanto non ha nessun interesse. Crede che venga… dall’alto?

S.L. No. È l’esperienza dell’inumanità.

J.L. Si sta proprio addentrando in ciò che le dicevo. Se è inumano, significa davvero che non ha nulla da apportare agli uomini.

S.L. Forse non siamo abbastanza consci dell’inumanità dell’umanità che ci viene presentata.

J.L. Scusi?

S.L. Dell’inumanità del genere di civiltà che stiamo producendo.

J.L. Ma non vi è alcun nesso tra la civiltà attuale e l’opera di Artaud.

S.L. Crede?

J.L. Non è affatto costruttiva.

S.L. Quello che stiamo costruendo in questo momento mi pare del tutto distruttivo.

J.L. Lo dice lei. È una cosa che esiste da parecchio tempo, sa.

S.L. Dalla Guerra del ’14 ha assunto una potenza e una velocità mai viste prima. E che ci conducono alla nostra perdita.

J.L. E pensa che fosse sensibile, lui, Artaud, a questa civiltà? Insomma, posso garantirle che non lo era, ma proprio per niente. S’interessava solo a se stesso. Durante il periodo in cui l’ho frequentato, era lui il Cristo, il centro del mondo. Non venga a dirmi allora che ha fatto progredire l’umanità. Era piuttosto il contrario. Ed è un movimento non ha mai smesso.

S.L. Che cosa significava essere amico di Artaud?

J.L. Abbiamo chiacchierato a lungo. Ore. Su Dio. E Dio sa quanto la sua religione fosse discutibile. Una specie di mito di cui si considerava il centro.

S.L. Artaud riteneva di avere un rapporto privilegiato con Dio?

J.L. Privilegiato? Era colui che avrebbe dovuto prendere il potere prima dell’ultima apparizione di Dio su terra. Capisce quindi… mi faccia ridere, eh, quando si parla di messaggio. Non c’è un bel niente. È vuoto, così [batte sul tavolo]. E per di più è incomprensibile. Allora no, non me la dà più a bere. Quante persone ci sono che lo leggono? Nessuno. Nessuno. Qualche intellettuale qua e là.

S.L. La sua opera ha esercitato un’influenza enorme sulla cultura.

J.L. Crede? Crede?

S.L. Su tutto il teatro occidentale, per esempio, da una ventina d’anni.

J.L. Senta, non parliamo di teatro. Non ha mai avuto alcun successo dal punto di vista teatrale. Tutte le opere che ha scritto erano una lagna. E poi non mi venga a raccontare che le idee di Antonin Artaud su Il Teatro e il suo doppio hanno una qualche importanza. Lei è completamente fuori strada. Prova ne è che le applicazioni pratiche sono state un fiasco.  Spiacente ma…

S.L. Ciò non toglie che tutti i grandi registi contemporanei – Grotowski, Peter Brook, il Living Theater – di tutti i paesi, della Pologna, dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, tutti considerano Artaud come un punto di partenza.

J.L. Sì, sì, quando c’è qualcosa di strampalato, tutti ci credono subito.

S.L. Non è un caso se dall’inizio del secolo tutto ciò che c’è d’importante nell’arte moderna si è volto, come Artaud, verso le società primitive. La nostra civiltà stava perdendo di sostanza, tutto appariva e spariva in superficie, a gran velocità. Si è sentito il bisogno di riallacciarsi a forze tradizionali, di ritrovare radici terrestri, di reinventare riti rigorosi. È questo il teatro di Artaud. È questo che lo spinge ad imbarcarsi per il Messico o l’Irlanda. E lei lo trova strampalato? Io ci vedo, invece, un rifiuto tale di compromessi…

J.L. Di compromessi, questa poi, nella vita quotidiana non si faceva di certo scrupolo. Non mi racconti storie. Io l’ho conosciuto personalmente. Veniva da noi a prendere un libro e a declamare. Ah, per questo era molto bravo come uomo di teatro, ma niente di più.

S.L. E lei come la prendeva?

J.L. Si ascoltava da solo.

S.L. A forza di ascoltarsi da soli forse giunge il momento in cui si sente meglio.

J.L. Senta, signore, spiacente, ma ho studiato psichiatria per quattro anni. Non mi dica una cosa così perché temo di dover risponderle che è assurdo. Quando ci si ascolta per tutto il tempo non si ascoltano mai gli altri, al contrario. Al contrario. Non si ascoltano più gli altri. Quindi non si è più in grado di amarli. Ed è per questo che Artaud è stato messo da parte… tra gli scarti. In Irlanda in particolare. Non era più in grado di avere una relazione normale con nessuno. Non era più socievole. E se l’abbiamo curato – cosa che ci è stata rimproverata, non è vero? – è perché occorreva proteggerlo da se stesso. E abbiamo assistito alla sua evoluzione in senso inverso. È stato di nuovo capace di scrivere, di disegnare, di chiacchierare con noi. Siamo stati noi ad avergliene ridato il gusto. Mi ricorderò per sempre le dichiarazioni del mio amico Ferdière: « Se l’avessi saputo, non l’avrei mai lasciato andar via da Rodez. Me ne pento infinitamente ».

S.L. Tutto ciò gli ha permesso di scrivere un mucchio di cose importanti.

J.L. Bo! Ci sono lettere indirizzate a chiunque. Se ne fa quel che si vuole. Una lettera a Hitler, ne sarà al corrente. Beh, allora…

S.L. Quando legge i testi di Artaud, non cerca mai di dimenticare il personaggio che ha conosciuto? Leggerlo come si potrebbe leggere Racine…

J.L. Ah no, a me, lui parla. Non mi dice granché, ma mi parla, sì, mi parla comunque.

S.L. E che cosa le dice?

J.L. Bah! Immagini. Mi comunica delle immagini. Senza valore. Tra trenta o cinquant’anni sono sicuro che nessuno ne parlerà più.

S.L. In che modo ha sentito parlare di Artaud all’inizio?

J.L. Non ne ho sentito parlare. Ce l’hanno mandato a Rodez perché a Ville- Évrard stava crepando di fame. Ferdière conosceva uno degli psichiatri laggiù e aveva la possibilità di farlo passare attraverso un ospedale psichiatrico sulla linea di demarcazione. Quando ce l’hanno portato era magrissimo e parecchio malconcio. Non avevo mai letto nulla di Artaud a quell’epoca e se non l’avessi conosciuto, probabilmente non avrei mai letto niente di suo.

S.L. Non sapeva quindi nulla di Artaud quando l’ha visto per la prima volta. Come glielo hanno presentato?

J.L. Ferdière mi ha messo al corrente. Mi ha detto che veniva dall’Irlanda, che l’avevano arrestato perché faceva un gran baccano sulla nave che lo riportava in Francia – quando l’hanno rinchiuso parlava del bastone di san Patrizio. È per questo che lo hanno portato all’ospedale psichiatrico più vicino, a Sotteville-les-Rouen, se ricordo bene. Ed è stato subito evidente. Nessuno ha dichiarato che era una persona normale. Se avesse trascorso anche solo un quarto d’ora con lui…

S.L. Conosco molte persone che non sono del tutto… normali, come dice lei, o comuni. Sanno comunicarmi sempre cose interessanti. Vanno subito all’essenziale…

J.L. Se le guarda dall’esterno, sì.

S.L. E lei, le guarda dall’interno?

J.L. Ne ero pur costretto. Ogni psichiatra è tenuto a seguire i suoi malati, a discutere con loro da pari a pari. So bene che a mio discapito giocava il fatto che detenessi il potere assoluto sulla sua libertà – sebbene non fossi l’unico, eh? Questo non facilitava certo la nostra amicizia. E tuttavia, siccome lui aveva bisogno di me, allora si è sempre comportato bene. Era gentile. Nella conversazione ordinaria non lanciava frasi come quelle che avrebbe lanciato più tardi. Più tardi, beh, allora, tutto gli è stato possibile. Quel che diceva lasciava tutti a bocca aperta. C’è sempre gente pronta, non appena si manifesta qualcosa di straordinario, a gridare al miracolo. Ma quando si prendono in considerazione i suoi testi, soprattutto quelli finali… Prenda il Van Gogh per esempio, ci sono solo tre pagine decenti. Il resto, sono cazzate.

S.L. E come vede lui Van Gogh? Non come un illuminato, o un delirante: è il mondo a delirare, è l’ordine a essere diventato criminale, anormale… E come inizia il Giudizio di Dio? Inizia con delle visioni di guerra, di armamento a oltranza, di devastazione. È il secolo intero ad essere diventato omicida… Mi colpisce, a me, vedere Artaud ritornare a Parigi come la gente dai campi di concentramento, scheletrico, sdentato, devastato… Non dico che Rodez sia stato un campo di concentramento, certo, ma non è strano che, anche lontano dal grande cataclisma, isolato, come lo era stato Van Gogh, un uomo che evidentemente non era del tutto « normale »…

J.L. Grazie!

S.L. … Si trovi ad esprimere…

J.L. Non del tutto normale!

S.L. … Si trovi ad esprimere tutto l’orrore, tutta la follia del mondo?

J.L. Lei fa dei confronti strani, però.

S.L. L’importante non è solamente sapere se Artaud ingannasse o no i suoi amici. Sono sicuro che lo facesse, soprattutto quegli amici da cui dipendeva la sua libertà… È addirittura il minimo…

J.L. Non per questo è meglio. Non contribuisce a migliorare la società.

S.L. No.

J.L. Grazie! Grazie!

S.L. Forse per coloro che lo circondano, e da cui dipende, e che devono fare i conti con un rapporto del genere. Ma in quello che scrive, ci sono delle intuizioni non soltanto su ciò che gli accade nella testa, ma è la sua testa stessa a diventare il mondo.

J.L. No, no. Ebbene, ebbene! Senta, la compatisco davvero perché lei ha bisogno di tranquillanti…

S.L. Ah sì?

J.L. Ah sì, sì.

S.L. Dopo tutto perché esiste qualcosa come la letteratura? Perché la gente si dà tanto la pena a non dire le cose in modo semplice?

J.L. Perché sperano di poter guadagnare dei soldi. Quanta gente scrive per la vanagloria di andare in televisione?

S.L. All’epoca di Artaud c’era la radio…

J.L. È lo stesso.

S.L. Perché allora s’imparano queste cose a scuola se le persone scrivono per fare soldi, o perché sono un po’… strane?

J.L. Quali persone? Artaud praticamente non si studia a scuola.

S.L. Io lo insegno alla Columbia University. E non sono il solo.

J.L. Sì. Allora provo pena per i suoi allievi. Ah, sì. Perché non saranno felici. Non gli darà certo forza studiare Artaud. Anzi… deboli e sottomessi per tutta la vita.

S.L. Trova che i testi di Artaud non abbiano forza?

J.L. No, ho detto che non danno forza.

S.L. Se hanno forza, ne danno anche.

J.L. Ma è una forza assolutamente aberrante. L’ho visto mentre declamava. Il discorso non reggeva. Si esibiva. Contava solo lui. Nient’altro. Allora non venga a dirmi che era sensibile alla civiltà. Era sensibile solo a ciò che lui stesso provava, al suo dolore atroce. Questo lo riconosco. E io mi sono interessato al suo dolore. Con lui. Ma il suo, eh? Il suo. Non bisogna allora glorificarlo troppo.

S.L. È successo anche a Cristo.

J.L. Grazie. È stato Artaud il primo ad assimilarsi a Cristo.

S.L. Certo.

J.L. C’è tuttavia una sfumatura.

S.L. Non vorrei mettere vicino le due cose…

J.L. L’ha appena fatto! L’ha appena fatto!

S.L. E perché no. C’è forse in entrambi i casi qualcosa che interessa la gente.

J.L. In entrambi i casi? Nel primo, sì. – Ho parlato di Dio con Antonin Artaud. Quindi so perfettamente cosa ne pensava. Che io sappia, Cristo non ha mai gridato insulti contro popoli interi. No, no. Non starò certo qui a farle una lezione di catechismo.

S.L. Di tutta questa controversia su Artaud che credeva o non credeva in Dio, lei che ne pensa?

J.L. Assolutamente nulla. Perché non ha nessun interesse per me. Ci ha creduto ad un certo punto, poi non ci ha più creduto. Quando ci credeva, ci credeva male, o in modo strano. Se riesce a fare una sintesi di tutto questo, beh allora è proprio fortunato, lei.

S.L. Uno dei testi sui Tarahumara è stato scritto a Rodez , nel 1943. È strano, è infarcito di Santi e simboli religiosi, tutto un delirio su Cristo e la Croce che Artaud rinnegherà qualche anno dopo, di ritorno a Parigi, come uno stupido maleficio subìto dalla pretaglia. I testi scritti in Messico, invece, sono di una gran bellezza, molto cristallini…

J.L. Di che parla?

S.L. Della Montagna dei segni.

J.L. Non lo conosco.

S.L. È una visione estremamente serena delle cose. Il che è del tutto inconsueto in Artaud.

J.L. Sì, esatto.

S.L. Tutto è al suo posto. Gli Dei, gli uomini, le pietre. Gli uomini non sono più il centro dell’universo, ma sono estratti dalla pietra e le pietre sono degli dei. C’è una specie di armonia materiale…

J.L. E lei chiama questo armonia, le pietre sarebbero degli dei?

S.L. Così dicevano i Greci.

J.L. Non erano poi tanto al centro del mondo, i Greci. Sono stati solo una parte dell’evoluzione della civiltà, e non quella dove gli dei sono pietre e viceversa, ah questa poi no.

S.L. E i Galli con i Druidi e i dolmen, sono abbastanza centrali per lei? È pur sempre il nostro passato francese, o meglio celtico. Non è un caso che Artaud sia andato proprio in Irlanda.

J.L. E allora?

S.L. Perché lo si accetta dai Druidi, perché lo si trova del tutto legittimo in loro – ma quando qualcuno si crede un Druida, e ridiventa druida, ci si affretta a rinchiuderlo? Se questa è la follia, allora la follia non ci dice forse qualcosa su ciò che siamo stati? [Silenzio]. Su ciò che siamo? [Silenzio.]

J.L. Lei mischia un po’ tutto troppo facilmente.

S.L. Mmmmmmmm.

J.L. Fa una confusione…

S.L. Crede?

J.L. Ah sì, una gran confusione. Perché passare da Artaud a Cristo e da lì ai Druidi, beh, ce ne vuole, eh?

S.L. Stavamo parlando di pietre e di dei.

J.L. Sì sì sì sì. Non mi sono distratto. La civiltà in quel momento poteva permettersi di parlare di pietre e di sacralizzarle. Perché no. Ma insomma dopo c’è stato altro.

S.L. L’età della pietra non è così lontana. E millecinquecento o duemila anni di storia non sono poi tanti quando ci si pensa. Anzi, varrebbe forse la pena di rifletterci invece di guardare una partita di calcio alla televisione. E quando ci riflettiamo, incominciamo a chiederci cosa significa vivere, e vivere in una società come la nostra dove non sappiamo più molto bene che cosa sia un dio, dove non ci sentiamo più in contatto con niente, nemmeno con le pietre. Non le sembra legittimo questo genere di domande? Intendo dire, questo è ciò che si chiama pensare. O scrivere. Forse è proprio la funzione della letteratura quella d’immaginare un mondo dove gli uomini sono come la pietra, e non solo delle immagini sfocate sul piccolo schermo.

J.L. Mmmmmmmmmmmm.

S.L. Io, quando leggo Artaud, vedo cose che mi appaiono assolutamente folli…

J.L. Grazie.

S.L. … Ma belle, un senso della lingua, una specie di sonorità pietrosa, primitiva, organica della lingua che trovo sconvolgente.

J.L. Sì. Solo in quei brani che possiedono le qualità che dice lei e che riconosco essere molto belli, poi si girano due pagine e ci si imbatte in qualcosa d’inascoltabile, di assolutamente incoerente. Capisce quindi che prendere dei sassolini – ci torneremo sui sassolini – a destra e a manca e dimenticare quella sua parte incoerente, beh, francamente è difficile fare una sintesi, vero?

S.L. Sì. Ma perché voler fare delle sintesi?

J.L. Eh, perché è necessario fare delle sintesi, continuamente.

S.L. Perché?

J.L. Come perché? Lei non fa mai la sintesi di se stesso?

S.L. Di tanto in tanto, quando non posso fare altrimenti. Quando ho bisogno di fare alla svelta. Ma è così schematico.

J.L. È un dato di fatto.

S.L. È proprio questo che Dada aveva iniziato a rimettere in discussione: la logica, la dialettica, il pensiero razionale… Tutto ciò corre veloce, ma non afferra le cose.

J.L. Da lì all’analisi dei sogni il passo è corto, non è vero?

S.L. Non so se i sogni debbano essere analizzati.

J.L. E ora ci si accorge che le tesi di Freud non reggono più.

S.L. Che cosa ci possiamo fare se i sogni sono diventati la realtà?

J.L. Tutto bene, la salute?

S.L. [Ride.] …E la realtà volge all’incubo: se riflettiamo un po’ sulle possibilità di distruzione che esistono attualmente, la catastrofe appare quasi inevitabile.

J.L. Non è mai inevitabile in ogni caso.

S.L. Quando si pensa che si dispongono di soli tre minuti per fermare degli ordigni atomici comandati elettronicamente… Ecco il genere di ragione che ci governa.

J.L. È da quarant’anni che va avanti così.

S.L. In quarant’anni siamo passati da un termine di qualche ora per colpire un bersaglio intercontinentale a qualche minuto.

J.L. Ragione in più per non servirsene.

S.L. Le macchine sono ragionevoli? Presto saranno loro a dover prendere le decisioni. È un’altra forma d’inumanità.

J.L. Spiacente, ma è la macchina ad essere a disposizione degli uomini, e non il contrario.

S.L. È la storia del Golem. Quando resterà soltanto qualche secondo per decidere…

J.L. Insomma da qui a dire che qualcuno arrivi a suicidarsi, mi pare molto improbabile. Le conseguenze sarebbero immediate. È dunque un suicidio.

S.L. Sì. È folle.

J.L. Quindi è impossibile.

S.L. Un popolo intero ha voluto suicidarsi. La Germania. E ha cercato di suicidarne molti altri…

J.L. Sto giusto leggendo le memorie di Churchill, capita allora a proposito. È stato tutto un processo, mah, ascendente, non è vero? E poi dietro Hitler ci sono state anche delle persone che che tentavano di fermarlo. Ha avuto la meglio grazie a una serie di colpi di fortuna, altrimenti non sarebbe successo niente.

S.L. La situazione sembrava sotto controllo, ma poi è sfuggita di mano.

J.L. Sarebbe bastato invadere la Rhur nel momento in cui Hitler l’ha ripresa, sarebbe bastato cacciarlo da lì e non sarebbe successo niente, niente.

S.L. Hitler, lui però, non era in un manicomio. Era a capo del governo. Forse ha bluffato, o delirato, ma tutti gli hanno creduto.

J.L. Ma è morto come un pazzo. Un suicida.

S.L. Non è morto da solo.

J.L. No, ahimé.

S.L. Ci sono state decine di milioni di morti. Non è abbastanza per gridare? Persino con grida narcisistiche e paranoiche? Quando un mondo sta annientando quaranta milioni di persone, il grido vorrà ben dire qualcosa.

J.L. Sì, ma il grido di Hitler aveva un valore diretto, d’influenza diretta sul suo popolo, non è vero? Era musica per il popolo.

S.L. Sì, ma al popolo piaceva la musica.

J.L. Al popolo piaceva la musica, ma non necessariamente quella. Solo che si trovava in condizioni storiche tali che a Hitler è bastato cercare nel passato recente le ragioni per cui non era contento.

S.L. Il popolo tedesco è diventato pazzo. È diventato pazzo ragionevolmente.

J.L. Lo dice lei stesso…

S.L. Artaud era pazzo.

J.L. Non ragionevolmente. Spiacente, ma questa è la differenza.

S.L. Artaud non ha mai bruciato nessuno.

J.L. [Tossisce.] No, ma se lei diffonde il suo pensiero a destra e a manca, non sono sicuro che non si verificherebbero degli incendi o delle ustioni.

S.L. Il napalm esiste da qualche tempo. Le ustioni capitano tutti i giorni. Si provocano anche… con l’elettricità.

J.L. Fuma tanto?

S.L. No. [Ride]. Per me, la letteratura è come inforcare gli occhiali. Fa vedere il mondo diversamente. E quando mi metto gli occhiali di Artaud – non sono i miei -, mi fanno vedere cose che altrimenti resterebbero invisibili. E il fatto che il mondo che vedo con i suoi occhiali sia a pezzi, che sia pieno di ribaltamenti, tradimenti, rinnegamenti non mi sorprende. Lo vedo tutti i giorni sui giornali.

J.L. Se mette insieme ciò che può trovare dietro gli occhiali di Valéry, dietro quelli di Sade e di un mucchio di altri autori, ci vedrà forse una sintesi – ecco che ci ritorniamo – che non sarà affatto la stessa.

S.L. Sono cose molto diverse. Perché cercare di metterle insieme? Sade è molto metodico nei suoi piaceri. Artaud no.

J.L. Non è molto metodico, no, no di certo. Ma non sa rendere felice nessuno.

S.L. No. Ci pensa la pubblicità. Basta fare un’ordinazione. Eppure, non trova strano che abbia continuato a scrivere così, tutta quella massa di testi che ha prodotto…

J.L. Ebbene, non riusciva a fermarsi. Sa come scriveva? Aveva dei quaderni un po’ dappertutto. […] [I testi i Artaud] sono molto discontinui. Molto discontinui per uno psichiatra, sa quando si vede emergere il cuore, il nocciolo del problema! …le abitudini di pensiero paranoiche e deliranti, con il malato, il medico non reagisce .Ho sentito spesso Antonin Artaud dire sciocchezze. La sua tesi del grido che si leva da un uomo e che ha un valore… mistico…

S.L. È la sua.

J.L. Come?

S.L. Lei mi ha detto che aveva lanciato un grido…

J.L. No, no. Gridava sempre… in ogni caso, tutta la sua opera è un grido. Un grido.

S.L. Lei, io, don Julien, siamo a quanto pare tutti d’accordo su questo punto.

J.L. È un grido, ma un grido talvolta disarticolato. E questo toglie valore al resto, detto tra noi.

S.L. Quando lui parlava, lei non faceva particolarmente attenzione. In che cosa era…

J.L. No, parlava normalmente. È questo che cercavo di farle capire. Quando andava da sua sorella, era gentilissimo. Non li infastidiva. Invece quando era con i suoi amici al bar, allora incominciava ad essere… a gridare con tutte le sue forze… Gridava di tutto.

S.L. In ogni caso sembra avere avuto una grande capacità di adattamento, che poi è ciò che caratterizza la normalità, non è vero?… Poter adattarsi ad ogni situazione.

J.L. Ma… Ma non si giudica un uomo a seconda dei momenti. Io sono stato costretto ad esprimere un giudizio su Artaud per poterlo curare. Sull’insieme dei suoi atteggiamenti.

S.L. Perché bisogna giudicare le persone?

J.L. Giudicare per poter riportarle alla normalità. È il ruolo del medico riportarle alla normalità. Permettergli di vivere nel mondo esterno senza dar fastidio a nessuno, capisce? Ora, le dico, lui, Ferdière, si è pentito amaramente di averlo lasciato andare via. Se lo avesse tenuto tre o quattro anni in più… Non era più in grado… affidarlo ad un medico che gli lascia le chiavi della clinica perché vada a spasso quando vuole. È quanto meno strano, non è vero?

S.L. Questo è successo quando è tornato a Parigi.

J.L. Sì, a Ville-Évrard. Aveva una chiave della clinica.

S.L. A Ivry.

J.L. Come?

S.L. A Ivry. È a Ivry che era libero di andare e venire come voleva, per lo meno fino a sera, non a Ville-Évrard. A Ville-Évrard lo rinchiudevano a tripla mandata…

J.L. Sì, è a Ivry. E aveva una camera lontano dagli altri. È per questo, del resto, che è morto da solo.

S.L. Pensa che non avrebbero dovuto lasciare libero Artaud?

J.L. Ma insomma! Ferdière aveva preteso che venisse sorvegliato…

S.L. Perché? Aveva paura che Artaud si suicidasse?

J.L. No! No, no, nient’affatto! Aveva paura che facesse delle sciocchezze. Che facesse stupidaggini… [Si schiarisce la voce.] Quando usciva a Rodez – noi ne eravamo abituati – andava alla cattedrale. Si metteva in ginocchio in mezzo alla navata e poi gesticolava, così…

S.L. Questo non ha mai ucciso nessuno.

J.L. No, è vero, non ha mai ucciso nessuno, questo glielo concedo senza difficoltà.

S.L. Gente perbene ha fatto di molto peggio. Ho visto migliaia di persone camminare sulle ginocchia nella cattedrale di Cracovia, in Polonia. Erano ottimi cattolici, glielo posso assicurare.

J.L. No, no, volevo darle solo… un dettaglio. Giusto un aneddoto.

S.L. A dire il vero, se Artaud si fosse messo a strisciare su un marciapiede di New York, nessuno si sarebbe voltato a guardarlo.

J.L. Non era presentabile, capisce. Non era presentabile. Bisognava davvero corrergli dietro… Allora a quel punto, sì… Era come quando tornava a casa. Era decente.

S.L. A New York vedo ogni giorno gente stesa sui sedili della metropolitana, mezza nuda, con il sesso per aria; vedo persone urlare per la strada, accusare interlocutori immaginari; gente in pigiama o avvolta in un asciugamano; persone vestite nel modo più stravagante, più oltraggioso. Nessuno le rinchiude. Altrimenti bisognerebbe rinchiudere tutta la città.

J.L. Senta, signore. Parliamo seriamente, la prego. Perché un paranoico che delira non è un tipo che si mette a dormire in metropolitana. Non è affatto la stessa cosa.

S.L. Allora di che cosa avevate paura? Che cosa c’era da temere?

J.L. Che facesse qualche sciocchezza, semplicemente!

S.L. Di che genere?

J.L. D’altronde ne ha fatte abbastanza. [Si schiarisce la voce.]

S.L. Per esempio?

J.L. [Resta in silenzio.]

S.L. Che tipo di sciocchezze… che potrebbero mettere in pericolo la società.

J.L. Se l’avesse visto, non se lo chiederebbe neanche. Passava il tempo su e giù per il corridoio. Pfui! pfui! pfui! Sputava perché i demoni gli correvano appresso… Eh però! Non bisogna esagerare…

S.L. Non ha scagliato i demoni contro gli altri, però. Li ha tenuti per sé.

J.L. Ma no, signore, senta…

S.L. Non ha messo in pericolo le persone che passavano nel corridoio…

J.L. Le faccio un piccolo esempio, ma… ce ne sono a migliaia. Mia moglie, quando Artaud le passava accanto, la salutava molto piano, e poi dopo… Pfui! pfui! pfui! Perché per lui era il demonio. Gli amici… le mogli degli amici, erano demoni.

S.L. Come lo interpreta lei questo?

J.L. Capivo che… a lui, la sola cosa che importava, era la propria purezza personale.

S.L. Rispetto alle donne?

J.L. Sì! Certo! Certo! E d’altronde potrei parlargliene con cognizione di causa perché sono convinto che fosse impotente. Impotente!… Capita a persone perbene, non è quello che intendo dire. Ma insomma… una serie di grida… che ha gridato nelle sue opere, vien proprio da lì.

S.L. Intende dire che è come i castrati che cantano meglio…

J.L. Cantano meglio, trova?

S.L. Li castravano apposta, in Italia per esempio, nell’Ottocento.

J.L. Senta… Senta, non mi piace più di tanto questo genere di battute. Perché Artaud non era un castrato, era triste di sentirsi così. Sì. E perciò, voleva che anche gli altri lo fossero.

S.L. Le parlavo dei castrati che venivano trasformati in cantanti d’opera. La mutilazione era il prezzo che dovevano pagare per emettere il loro… canto.

J.L. Non l’ho mai visto da nessuna parte. Ho assistito invece ad una corale. Era composta da giovani così, sì. Ma risale a…

S.L. Le domande che ha fatto alla sorella di Artaud… Mi chiedevo… Stava forse cercando di… valutare quanto fosse stretto, diciamo, il loro legame… Con sua sorella, sua madre…

J.L. Come?

S.L. I rapporti di Artaud con la sorella, con la madre… Dopotutto sono donne anche loro…

J.L. Non c’entra nulla.

S.L. Non c’entra.

J.L. No, no, no… L’impotenza è una questione che viene fuori da tutta la sua opera, più tardi. [Si schiarisce la voce.] Se dà un’occhiata al mio libro… [Raschio] al mio articolo, vedrà che, la conclusione è che [Raschio]… Mah, che bisogna evirare l’uomo.

S.L. Intende dire che non l’avevano già fatto?

J.L. Eh?

S.L. Pensa che Artaud non fosse già castrato?

J.L. Parlava dell’uomo in generale, eh… Sì, bisognava evirare l’uomo, perché l’uomo si abbandona a… atti impuri. Aveva solo questo in testa.

S.L. È molto…

J.L. Generare solo con soffio…

S.L. È molto cristiano.

J.L. Cosa! Crede?

S.L. C’è un certo orrore della sessualità…

J.L. Crede?

S.L. A partire dalla mela, sì.

J.L. Dal Giansenismo. Non dalla mela.

S.L. Artaud era giansenista, pensa?

J.L. Eh? Ma s’immagini. Era alienato e basta.

S.L. Ma molto influenzato dalla chiesa… Stando alla testimonianza della sorella, era qualcuno di profondamente credente. Lei era d’accordo, del resto.

J.L. Sì… Sì… Ma in realtà io che ho chiacchierato con lui su questo argomento, non andava troppo lontano, eh.

S.L. Forse credeva più degli altri. L’orrore della sessualità esiste in numerose culture, in molte religioni, soprattutto giudeo-cristiane… Solo non sempre è spinto fino all’estremo. Forse Artaud mostra a che punto può diventar pericolo, se le cose… legittime… vengono esagerate. Insomma, mostra che, in fondo, le cose legittime possono essere pericolose…

J.L. Di che sta parlando?

S.L. Del fatto che nella religione cristiana c’è una certa diffidenza della sessualità.

J.L. Ma neanche per idea. Lei sta parlando di trent’anni fa… o cinquanta.

S.L. Sì, trent’anni fa, all’epoca di Artaud. E molto più in là ancora.

J.L. Io parlo di adesso.

S.L. Ma neppure i Messicani di Artaud erano quelli di oggi. La religione di Artaud era forse più primitiva, più radicale. Cercava le radici.

J.L. Le ripeto che la religione di Artaud era lui stesso. Si sentiva al centro del mondo.

S.L. E quando andava in chiesa… Era allora Dio che andava in chiesa? O lui stesso che andava in chiesa?

J.L. Ah no. Questo… Questo faceva parte delle sue incoerenze.

S.L. Quindi talvolta era Dio, e talvolta non lo era, Dio. Talvolta era… Artaud.

J.L. Sì, se vuole. Perché era molto variabile.

S.L. E lei, col passare degli anni, l’ha visto sotto questi diversi aspetti?

J.L. Oh, in ogni caso, non sono stato con lui così a lungo. Ma insomma… Ora che lo conosco, lo ritrovo nei suoi testi… [Raschio.] E i testi alla fine sono davvero un’esasperazione contro l’uomo. Contro la sessualità dell’uomo.

S.L. E pensa che questo abbia un qualche nesso con la sua… impotenza?

J.L. Esattamente, la sua impotenza. In primo luogo evirare gli altri, significava riportarli alla propria dimensione.

S.L. La sessualità dell’uomo, pure lei è cambiata molto. Nell’Ottocento era ancora una cosa privata. Ora è talmente pubblica e ostentata dappertutto che potremmo dire che si tratta di una specie di evirazione.

J.L. Lei vaneggia.

S.L. Non è più tanto sessuale, la sessualità. La consumiamo… Al cinema, sui manifesti… sul divano… La sessualità, è la società.

J.L. Non si tratta di una specie di evirazione… I suoi giudizi sulla civiltà sono piuttosto strani. Mi permetta, signore, di non condividerli.

S.L. No? Per nulla?

J.L. Per nulla.

S.L. Oh io… seguendo lo sguardo di Artaud… vedo più chiaro. Sa, l’America, non è l’America. È il mondo, solo più rapido, più brutale. Accelera le cose. Rivela in piena luce ciò che altrove, qui per esempio, esiste ancora in nuce, all’ombra. Anche un pazzo come Artaud l’ha fatto, in un cantuccio, però, non lontano da qui, con la sua follia in testa…

J.L. Ma anche in America c’è un risorgere della religione.

S.L. Sì. In forme un po’ frenetiche, devo dire.

J.L. No, nient’affatto. C’è di sicuro. In America esiste tutto. C’è anche una risurrezione della pietà, del cristianesimo, questo è certo. Pure in Francia, del resto. Guardi: sono venuti a prendermi per andare a trovare una setta… che è… ammessa dalla chiesa… dove si prega di più lo Spirito Santo. Ebbene, le assicuro che ce n’è di gente a quelle riunioni. E molta.

S.L. Anche Lutero aveva molto pubblico… Cos’è che fa la differenza tra uno che viene ascoltato e uno no… Hitler grida e la gente obbedisce con entusiasmo. Artaud grida e lo si guarda, dapprima… scetticamente, poi con sgomento, e poi per finire forse in modo un po’ troppo credulo…

J.L. Non ce ne sono tanti però di creduloni.

S.L. Allora perché viene pubblicato? Il mondo non è un po’ folle per pubblicare cose simili…? E in case editrici rispettabili come Gallimard.

J.L. [Silenzio.] Non le sto dicendo che non vi sia nulla nei suoi scritti. Le dico solo che non lasceranno nessuna traccia.

S.L. Che cosa lascerà una traccia allora? Quale scrittore, secondo lei, contemporaneo di Artaud… potrà resistere?

J.L. Non m’interesso alla letteratura per diletto. Penso… di trovarci una forma di civiltà… che è necessaria, ecco.

S.L. Nella letteratura?

J.L. Nella… vita. Nella vita. Io non ho fatto letteratura con Artaud, mi sono interessato alla sua vita, capisce. Ho avuto un’esperienza reale con lui. Il valore dei suoi testi… ad ogni modo me ne frego e sono convinto, glielo ripeto, che… non ci vorrà molto, prima che svanisca. Sprofonderà completamente nell’oblio, è chiaro. Quando se ne parla con qualcuno, nove persone su dieci… Quando dico nove, voglio dire anche molto di più. Il 99% non conosce Antonin Artaud. Sì, lei vive in un ambiente dove se ne parla. Ma insomma… È un ambiente ristretto.

S.L. Ricopre il pianeta.

J.L. Come?

S.L. È stata appena pubblicata una vasta antologia di testi di Artaud negli Stati Uniti. È già esaurita.

J.L. Un… Un volume.

S.L. Ne esistono già tre o quattro.

J.L. Tre, quattro! Quanti ne escono all’anno negli Stati Uniti? Eh? Quanti? E quanti lettori ha…

S.L. E se il mondo gli desse… ragione?

J.L. Ragione su cosa? È incoerente dall’inizio alla fine.

S.L. È appunto ciò che sto dicendo. Se il mondo fosse incoerente tanto quanto Artaud?

J.L. Ebbene non ci resterebbe più nient’altro che pregare.

S.L. [Non ha sentito.] Che pagare?

J.L. Che pregare.

S.L. Pregare… È forse quello che a suo modo faceva anche Artaud. È forse il genere di preghiera di cui abbiamo bisogno. Oggigiorno, sembra che la gente non ascolti molto se non c’è anche un po’ di sangue, di violenza. E di grida.

J.L. [Silenzio.] Non crede che ne abbiamo le scatole piene in questo momento… Con tutti i terrorismi… Allora anche questo finirà col passare perché è… incoerente. Sì, è incoerente.

S.L. Quali terrorismi?

J.L. I terrorismi… dappertutto. Qualsiasi telegiornale dà notizie di catastrofi un po’ ovunque.

S.L. Allora i terrorismi che cosa sono… follia?

J.L. Lei mi prende per uno stupido.

S.L. Seguo solo il suo pensiero. Mi parla di terrorismi, d’incoerenza… Non ci sono solo i terrorismi. Un po’ ovunque ci sono guerre che scoppiano e altre che non scoppiano… Gente che muore di fame, persone torturate, sterminate qua e là… Che lo si sappia o no… Oggi, domani… Il mondo intero è a ferro e fuoco… E non è finita.

J.L. Speriamo di no. E poi tutto è incominciato anche con Stalin. Sto leggendo Krusciov. Parla di migliaia e migliaia, di milioni di uomini uccisi da Stalin.

S.L. Ma era un uomo del tutto equilibrato, Stalin.

J.L. Crede?

S.L. Era consono alla situazione. Ha dato ordini. Ha messo in piedi il suo teatro. Artaud era incapace di allestire uno spettacolo teatrale. Stalin ha trasformato il mondo intero in un gran teatro.

J.L. Anche Hitler.

S.L. Sì. L’ha aiutato. Loro due hanno avuto successo. Artaud invece ha fallito. Ma Artaud è pazzo.

J.L. [Silenzio.] Sa, il suo ragionamento non m’impressiona più di tanto perché mi sembra claudicante… Zoppica… Zoppica terribilmente.

S.L. Cos’è che fa la follia, cosa la conformità? Hitler era del tutto consono ad un paese sull’orlo della rovina, dissaguanto dalle potenze vittoriose…

J.L. Senta, lei mi chiede che cos’è la follia, vada a farsi un giro in un ospedale psichiatrico. Così capirà subito. Capirà subito. Non ho bisogno di fare dimostrazioni. Vedrà subito.

S.L. Quando un pazzo scrive…

J.L. Non bisogna giocare così con le parole. Lei non ha diritto di giocare con le parole…

S.L. Quando un pazzo scrive e questa scrittura viene letta, allora diventa letteratura. Che cosa ne facciamo di questo genere di letteratura? Perché la leggiamo… Perché non dobbiamo leggerla… Che cos’è la cultura?

J.L. Perché dopo qualche tempo dimentichiamo?

S.L. Ci sono cose che dimentichiamo e ritroviamo e cose che abbiamo trovato e dimentichiamo completamente.

J.L. [Silenzio.] Sì… Ebbene, sarà dimenticato molto presto, Artaud.

S.L. È nell’ordine delle cose… È nel disordine delle cose… Le cose, io le vedo abbastanza disordinate. E Artaud faceva parte di questo disordine.

J.L. Lei si accontenta di essere uno spettatore.

S.L. Uno spettatore? No, sono in pieno ombelico del mondo.

J.L. Pure lei?

S.L. È un ombelico un po’ fallace. È New York. Non dico che New York sia il centro del mondo. È il mondo che ha sempre bisogno di avere un ombelico per guardarsi. Allora perché non potrebbe essere New York?

J.L. Sì.

S.L. Negli anni trenta era Parigi. Prima era Londra. E Berlino… E Costantinopoli.

J.L. Sì. E allora?

S.L. E allora? Essere nell’ombelico del mondo, come lo era Artaud, le permette di vedere meglio.

J.L. Ma Artaud non era l’ombelico del mondo. Ci si metteva, il che è diverso.

S.L. È diventato l’ombelico del mondo. Era Dio.

J.L. [Ride piano.] Sì, sì. Senta, credeva di esserlo.

S.L. Esatto. Lo credeva. Quando Gesù ha detto: sono Dio, tutti gli hanno creduto.

J.L. No.

S.L. No? L’hanno messo a morte.

J.L. Sì. È diverso.

S.L. Ad Artaud è stato fatto l’elettroshock. Anche questo è diverso.

J.L. Senta, la prego, non mi parli di elettroshock perché gliene ho fatti, io. Posso mostrarle la lettera di Ferdière… È una vergogna…

S.L. Aver…?

J.L. Aver rimproverato a Ferdière di avere praticato l’elettroshock. È una vergogna. È stupido.

S.L. È anacronistico.

J.L. Eh?

S.L. Un anacronismo… Detto questo, parecchia gente è anacronistica. A New York si fanno elettroshock tutti i giorni.

J.L. Ma anche in Francia, stia tranquillo. Mia figlia è anestesista e fa l’anestesia per gli elettroshock. Se ne fanno ancora. In certi casi particolari. Ora sono stati circoscritti maggiormente. Ma sono convinto che ad Artaud si sarebbe fatto l’elettroshock persino adesso.

S.L. È possibile. Ho le mie idee in proposito. Ma vede, io non studio l’elettroshock, io leggo Artaud.

J.L. Sì, sì, capisco bene.

S.L. E l’elettroshock fa parte di quelle cose che qualcuno dice e altri ascoltano. E trovano importante. Qualcosa che viene insegnato… È un classico studiato a scuola. Io insegno un classico. Diciamo un classico da shock.

J.L. Lei ci mette chiunque tra i classici.

S.L. Sono pagato dalla Columbia University per insegnare Artaud. Ogni due anni.

J.L. Sì. Ebbene! deve dirne di cose abbastanza strane.

S.L. Devo dirne di cose abbastanza strane?

J.L. Sì. E che non tengono conto della realtà del personaggio.

S.L. Lei deve esserci abituato a sentire cose strane. Dopotutto, è il suo mestiere.

J.L. No. Quando parlo con qualcuno di ragionevole… sono abituato ad ascoltare cose serie.

S.L. I suoi pazienti sono persone strane però. Antonin Artaud…

J.L. Ad ogni modo non sono più psichiatra.

S.L. Ah, non lo è più?

J.L. No, no. Da molto tempo. Lo sono stato solo per quattro anni. Bisognava che mi sistemassi perché avevo tre figli. Diciamo che mi sono sistemato in fretta, ecco.

S.L. E non come medico in…

J.L. No, no. Come medico generico.

S.L. Allora, che cosa rappresenta questo periodo di quattro anni nella sua vita?

J.L Mah… da una parte, non avrebbe rappresentato nulla se non ci fossero stati tanti pettegolezzi. Dall’altra, intende parlare di me, di ciò che rappresenta per me? Mi ha dato un’idea dell’uomo normale. Ha introdotto in me l’idea dell’uomo normale. Di colui capace di vivere in società, voglio dire.

S.L. E Artaud non era in grado di vivere in società.

J.L. No. Se non fosse stato di nuovo catapultato nella società, sarebbe vissuto molto più a lungo.

S.L. Per lei, vivere significa vivere il più a lungo possibile?

J.L. Scusi?

S.L. Hitler, Stalin erano capaci di vivere in società. Erano persone del tutto normali.

J.L. Ma lei ci tiene proprio ad analizzare cose che non stanno sullo stesso piano?

S.L. Artaud ha scritto a Hitler. Le cose non sono forse in comunicazione tra loro?

J.L. No. Perché lei analizza fenomeni che sono storici. Che si sovrappongono, che si svolgono su un numero considerevole di anni. E con, alla fine, l’assoggettamento di un popolo, no? Questa, allora, è politica, non filosofia.

S.L. Forse un giorno ci si accorgerà che Artaud era la storia e che molte altre cose che ora si considerano come tali non lo erano.

J.L. Sono sicuro di no.

S.L. Quattro anni dunque, e le hanno cambiato l’idea dell’uomo. Dell’uomo normale. Quattro anni non sono tanti, ma comunque…

J.L. Quattro anni, di cui tre con Artaud.

S.L. Tre con Artaud. Questo periodo della sua vita è quindi stato davvero segnato [marqué] da Marteau… oh scusi! da Artaud.

J.L. Oh no! Lo è diventato soltanto dopo. Quando si è iniziato a parlare di lui. Se no, lì per lì, era un malato come gli altri.

S.L. Aveva dei malati i cui sintomi potevano paragonarsi ai suoi?

J.L. No, non esattamente. C’erano tutti i tipi di malattie mentali. Dallo schizofrenico, il grande schizofrenico infermo, fino al maniaco-depressivo, gli epilettici, un mucchio di roba.

S.L. Quindi non faceva particolare attenzione ad Artaud.

J.L. No, non più di tanto.

S.L. Ci si rendeva conto all’ospedale di Rodez che si trattava di un uomo, diciamo, eccezionale?

J.L. No. Per niente.

S.L. Mai una cosa che abbia detto, o che le abbia letto, o persino i suoi disegni, tra cui quello che tiene in banca… mai niente di speciale?

J.L. Oh! i suoi disegni… Sa, se ne vedono dappertutto di disegni di quel genere. Non hanno nulla di eccezionale ad ogni modo.

S.L. Non ho capito molto bene perché allora ha messo quel disegno in banca. Perché tutti le chiedevano di vederlo?

J.L. Sì, sì, sì. Due persone sono venute per fotografarlo. Mi avevano promesso che mi avrebbero inviato una foto.

S.L. E l’ha messo in banca per proteggerlo?

J.L. Sì, per proteggerlo. Perché si trovava in una casa di campagna. Ora, non conto certo sul disegno di Artaud per far fortuna più tardi.

S.L. Ma lei mette in banca tutto ciò che ha un valore.

J.L. [Di malavoglia.] Sì. Più o meno. Potrebbe averne, tutto qui. Mi dispiacerebbe perderlo.

S.L. Ma allora forse… forse di Artaud, se ne conserverà traccia. Altrimenti il suo disegno non avrebbe valore, no? Forse alla fin fine lei crede in Artaud.

J.L. [Silenzio.] Senta… Questo suo giochetto non mi diverte affatto, le assicuro. Affatto.

S.L. Cerco solo di capire.

J.L. Ah sì, non ha ancora capito?

S.L. Ho capito alcune cose… Capisco anche che a volte lei reagisce alle mie domande in funzione di controversie a cui invece io non prendo parte. Non mi metto al posto di chi l’attacca. Ho il mio modo di vedere le cose, ma ognuno ha il suo. Ci sono ovviamente modi di vedere che mi piacciono, altri che non comprendo.

J.L. [Tono secco.] E si vede.

S.L. Certo. Se non avessi nulla da dire su Artaud, non lo insegnerei. E poi insegnare Artaud… Non so leggerlo a braccio, Artaud. Non capisco quello che dice, Artaud.

J.L. [Tono un po’ meno secco.] Lo dice lei stesso!

S.L. Ma c’è qualcosa nei suoi testi. Quello che capisco poco a poco, a sprazzi, è già abbastanza per incitarmi a continuare. Un po’ come qualcuno che mi tenesse per mano e mi indicasse in effetti cose abbastanza strane. E ci sono cose che non si vogliono vedere, e poi altre che vengono mostrate male. Ma insomma c’è qualcosa.

J.L. L’ho conosciuto troppo bene perché la sua prosa possa farmi vedere qualcosa.

S.L. Intende dire che ne ha abbastanza di Artaud.

J.L. Credo di sì.

S.L. Ma tutto questo è retrospettivo. È ciò che è venuto ad aggiungersi all’Artaud che ha conosciuto, proprio come i letterati sono intervenuti dopo e non prima, quando forse lui ne aveva più bisogno. Quello che cerco di circoscrivere qui è il suo rapporto non mediato con Artaud.

J.L. Può leggere le mie reazioni nell’articolo che ho scritto per La Tour de Feu. Si trovano tutte lì dentro. Con la sola differenza che da allora ho fatto molta strada. E non ascolto più Artaud. Non ho neanche più voglia di ascoltarlo. Non mi rivela nulla. Né su di lui, né su di me. Né sull’uomo. Soprattutto sull’uomo.

S.L. E allora perché viene pubblicato?

J.L. Esistono le mode.

S.L. La storia della letteratura è costituita da una serie di mode. C’è stata la moda Racine, la moda Marivaux… E poi, alla fine, è ciò che si chiama cultura.

J.L. Artaud non durerà.

S.L. È difficile sapere ciò che si conserverà in un mondo così strano come il nostro. Così diverso. Sappiamo contemporaneamente quel che succede in tutti i paesi. È un po’ saturo.

J.L. Non è il mondo ad essere saturo, sono le informazioni a sommergerci.

S.L. Le informazioni sono il mondo.

J.L. Era un problema anche in passato, solo che se ne parlava di meno.

S.L. È vero. Prima quando la gente voleva sapere qualcosa su un paese, ci andava.

J.L. Ci andava.

S.L. Così come Artaud è andato in Messico. Ora si ascoltano le notizie, o ci si va in tre ore. È anche a questo genere di fenomeno che in qualche modo Artaud rispondeva nella sua Corrispondenza con Jacques Rivière, si ricorda? Sono lettere di dolore. Ma di cosa soffre? Artaud dice: non so cosa sia la mia mente. Non so se i miei pensieri mi appartengono e non conosco questo cervello che produce i miei pensieri.

J.L. Ecco. Era l’inizio del suo smarrimento. Ha sentito la sorella parlare dei suoi soggiorni in casa di cura durante tutta la sua gioventù. Non si trattava neanche di case di cura. Partiva. Andava in Savoia, altrove. Incontrava medici a destra e a manca e quando tornava a casa, era guarito.

S.L. Che le informazioni siano diventate il nostro modo di conoscere le cose, è forse un sintomo del fatto che le cose non hanno più corpo. Anche di questo Artaud si lamentava con Rivière. Non sapeva più molto bene cosa gli appartenesse e cosa no. Come se avessimo una radio collegata direttamente alla testa che ci dice… cosa pensiamo, proprio come la meteo al mattino.

J.L. Sì.

S.L. Che ci dice chi siamo.

J.L. Sì, è un po’ quello che provava Artaud. È ciò che si chiama un’allucinazione.

S.L. Perché no? Non sono forse un po’ allucinati i popoli in questo momento?

J.L. Su, forza, farnetichiamo ora!

S.L. Metto tutto insieme perché, per me, la letteratura non è qualcosa di separato dal mondo.

J.L. Solo che ne fa una sintesi stranissima… E che le è propria.

S.L. Pensa?

J.L. Temo.

S.L. Vede, io metto insieme il mondo di Figeac e quello di New York. Non mi sembra affatto strano. Coesistono nel tempo, coesistono nello spazio. C’è il mondo di Artaud e poi c’è…

J.L. Il suo, il mio… Ma non per questo ci ascolteranno. Lui ha gridato, un po’, e ha avuto la fortuna di mettere insieme qualche parola con una certa musicalità, questo è certo, gliel’ho sempre riconosciuto. Ma niente di più. Musica e basta.

S.L. Céline diceva: tutto quello che possiedo è una « petite musique ».

J.L. Ecco, vede.

S.L. È uno scrittore. A modo suo fa musica. Mallarmé scriveva musica nelle lettere. Anche la sua musicalità quindi rappresenta ciò gli era peculiare. Era il suo contributo alla civiltà. Artaud ha dato un contributo alla civiltà.

J.L. Ah no, questo no. Nessun contributo. Ne sono convinto. Lo penso dopo averlo letto, dopo aver vissuto con lui, dopo aver letto articoli come questo qui1, o altri o le sue opere che ho al piano di sopra. Dopo aver meditato su tutto ciò, ne ho tratto una conclusione, ed è questa: Artaud non ha nessun valore civilizzatore. Nessuno.

S.L. Rappresenta un pericolo per la civiltà?

J.L. Neanche. Questo vorrebbe dire gonfiarne l’influenza.

S.L Da vivo però costituiva un pericolo, abbastanza per essere rinchiuso.

J.L. Adesso attaccherà con il discorso del pericolo? Sì! Sì! Era incapace di vivere normalmente.

S.L. Quattro anni fa sono andato in Africa. A vivere in una cultura diversa.

J.L. So già dove vuole arrivare.

S.L. In Africa, per ragioni diverse, tra le quali alcune molto pratiche (sono andato a vivere nel deserto con i nomadi), mi sono rasato la testa. Un sacco di gente si rasa la testa.

J.L. Perché no.

S.L. Quando sono tornato in Francia, ho avvertito subito una specie di animosità nei miei confronti. Nella metropolitana mi fulminavano con lo sguardo, una sera i poliziotti mi hanno fermato per strada e, con la pistola in pugno, mi hanno perquisito. Per una cosa dopotutto inoffensiva come quella di rasarsi la testa, mi sono sentito una specie di straniero, di paria sociale. Facevo paura. È questo il pericolo?

J.L. Ma è lei che si è sentito così. È normale, è la sua reazione. Gli altri non erano al corrente. Non avevano vissuto quello che lei aveva vissuto. Dove sta il problema?

S.L. Dove stava il problema di Artaud allora? Gli altri non avevano vissuto quello che lui aveva vissuto. In Messico. In Irlanda. Nella sua testa, rasata o no. Allora cosa vuol dire rappresentare un pericolo? Cosa significa provocare l’odio o lo sguardo imbarazzato della gente? Fino a che punto possiamo tenerne conto, e dobbiamo tenerne conto?

J.L. [Picchiettando con le dita sul tavolo.] Che cos’è una società?

S.L. È un insieme di persone che la lascia vivere come vuole nella misura in cui lei non gli impedisca di vivere.

J.L. Grazie! Grazie! Significa non ostacolare la libertà altrui.

S.L. Sì, ma ci vuole una società che abbia una certa apertura di spirito per non sentirsi imbarazzati, o minacciati, non appena qualcuno si rasa la testa, cambia aspetto. O lancia un urlo.

J.L. Ci tiene ad ogni costo.

S.L. Nel Medioevo davano la colpa alle streghe. Si era posseduti dal diavolo, non dalla radio. E si era trattati… come tali.

J.L. Lei ha perso di vista il suolo. Il solido. La solidità.

S.L. Dove sta il suolo?

J.L. È sotto i nostri piedi, sotto i nostri passi.

S.L. Parlavamo di che cos’è una società poiché il problema di Artaud è a quanto pare quello di rappresentare un pericolo sociale.

J.L. Io non ho mai detto questo. Ho parlato del pericolo per lui, questo sì.

S.L. Cerchiamo di capirci. Proteggeva lui, o proteggeva la società contro di lui? O è la stessa cosa.

J.L. Ho protetto la società contro di lui.

S.L. Ha protetto la società contro di lui… Bene, almeno è chiaro. Abbiamo capito dove sta il suo suolo.

J.L. Perché la società l’ha respinto… Senta, vada a farsi un giro in un ospedale psichiatrico e poi torni.

S.L. Ci sono già andato.

J.L. Ebbene, non si direbbe.

S.L. Non è il rapporto tra paziente e psichiatra in quanto tale che m’interessa, ma ciò che fa sì che quello che succede lontano da tutto, in un ospedale psichiatrico, possa invece riguardare il mondo intero. E che ci siano persone, forse abbastanza pazze, come me, per interrogarsi sulle tracce lasciate da quell’esperienza e per vedervi come una specie di crogiolo della cultura del ventesimo secolo.

J.L. Mmmmmm Mmmmmm.

S.L. Come Dada per esempio, che per me rappresenta la cultura del ventesimo secolo.

J.L. Un fenomeno ristretto.

S.L. Un fenomeno ristretto?

J.L. Non si parla più di Dada. Soltanto lei continua a parlarne.

S.L. Tutta la cultura americana è fondata su Dada.

J.L. Ebbene.

S.L. Soprattutto nel campo artistico: Duchamp…

J.L. Non durerà, su.

S.L. Non durerà? La gente se lo contende a peso d’oro.

J.L. Anche Artaud?

S.L. Il mercato della pittura. A modo suo, anche questo fa parte della cultura.

J.L. No. È la moda.

S.L. È la speculazione.

J.L. Questa poi! Lei passa facilmente da una cosa all’altra.

S.L. La moda fa salire il valore. Il valore è il denaro. Il denaro, si specula.

J.L. Lei è americano. Si vede.

S.L. No. Sono francese.

J.L. Allora è stato contagiato.

S.L. Io non ho un Artaud in banca.

J.L. Neanch’io, s’immagini. Se si trova in banca, è solo perché sono venuti a vederlo. E in quell’occasione mi hanno preso in giro.

S.L. Se venissero a far visita a sua moglie, poi lei la metterebbe in banca?

J.L. [Picchiettando impazientemente sul tavolo.] Senta, signore, mettiamo fine a questa conversazione. Credo che non ci porterebbe tanto più in là, non è vero?

S.L. E se parlassimo di quello che le avevo chiesto all’inizio, e cioè: come reagiva nei confronti di Artaud indipendentemente da tutto il rumore che in seguito è stato fatto attorno a lui?

J.L. Gliel’ho detto. Era un malato come gli altri. Un malato di cui però ci occupavamo maggiormente perché veniva a casa nostra: lo invitavamo a pranzo e ci leggeva alcuni testi di altri autori, era appassionante. E poi dopo parlavamo d’altro. Tutto qui. Niente di più. Niente di più. Non mi ha fatto un’impressione sconvolgente, no, questo no. Lo compativo, con tutto il cuore. Cercavo di stargli accanto, il più vicino possibile in modo da capire e aiutarlo a cavarsela da solo. In tre anni siamo quasi riusciti a farlo, ma non del tutto.

S.L. Il dottor Ferdière gli ha proposto alcune attività letterarie. È stata una buona idea.

J.L. Non è stato Ferdière, ma don Julien, il cappellano. Siccome Artaud non conosceva l’inglese, si faceva tradurre dei testi inglesi, e poi ne faceva ciò che voleva. È così che ha ricominciato a lavorare un po’.

S.L. Non sapevo che Artaud non conoscesse l’inglese. Credevo che fosse stato lui stesso a tradurre i testi di Lewis Caroll.

J.L. Lo facevano appunto insieme nell’ufficio di don Julien. Artaud prendeva appunti. È stato lui ad aver trovato la parola « joufflu mafflu » per Humpty dumpty. Vede, era così che ci divertivamo con Artaud, che trascorrevamo l’esistenza in modo interessante. Ma insomma, non bisogna esagerare.

S.L. Concepivate tutto questo come una terapia particolare?

J.L. Ferdière le ha dato un nome e ha parlato di «art therapy». Io sono d’accordo…

S.L. Non esisteva a quell’epoca?

J.L. No. Ma al di là dei nostri rapporti con lui e degli elettroshock, non succedeva nulla di straordinario. Vivevamo con lui, punto e basta. Avevo trecentocinquanta pazienti da tenere occupati, quindi capisce, non potevo dedicargli tutto il mio tempo.

S.L. Artaud era abbastanza libero di entrare e uscire dall’ospedale?

J.L. Alla fine. Non del tutto, ma quasi.

S.L. I suoi amici di Rodez, con i quali usciva di tanto in tanto, erano assolutamente consapevoli di avere a che fare con qualcuno di eccezionale.

J.L. Sì, loro sì. Perché non vivevano con lui. Non esiste grand’uomo per il proprio domestico, non è così? E noi eravamo al suo servizio… Per aiutarlo.

S.L. Sainte-Beuve diceva che bisogna sapere tutto sui grandi uomini…

J.L. Ma perché insiste a dire che era un grand’uomo? Era un alienato.

S.L. Gérard de Nerval era alienato. E Nietzsche. E Hölderlin…

J.L. Lo conosco già questo ragionamento. Non prova niente.

S.L. Prova che non c’è niente da provare.

J.L. A che ora riparte?

S.L. Prendo il treno delle 18.28 per Parigi.

J.L. Sono le 18.03.

S.L. Sì.

J.L. Bene. Mi dispiace non averle dato maggiori idee illuminanti. Ma ora ho un’opinione ben precisa su Artaud e la rivelo solo a chi vuole stare a sentirla: è un fenomeno ristretto.

S.L. E lei si è trovato coinvolto soltanto in un fenomeno ristretto?

J.L. Sì.

S.L. È un peccato però.

J.L. No. Non è colpa mia. È colpa sua.

S.L. Artaud non le ha mai fatto l’elettroshock.

J.L. Lei non sa cosa vuol dire fare l’elettroshock. Provoca una disgregazione della persona analizzata e in seguito una ricostruzione. E ogni volta che lo somministravamo ad Artaud, ci accorgevamo che dopo era un po’ più ricostruito. Ecco.

S.L. Ma era davvero lo stesso?

J.L. Lo stesso.

S.L. Tornava l’Artaud familiare?

J.L. No. Semplicemente Artaud. Di questo, ne sono convintissimo.

S.L. Lei mi ha detto che Artaud cambiava a seconda delle persone con cui stava. Allora di che Artaud si trattava?

J.L. Di colui che c’era prima. È lo schema che ritorna.

S.L. È questo che tentava di scoprire interrogando la sorella di Artaud?

J.L. Ho tentato di scoprire che cosa l’avesse influenzato maggiormente in gioventù.

S.L. E quali conclusioni ne ha tratto?

J.L. Ha sentito: la madre. Il padre era presente solo per dare i soldi, si sa.

S.L. E le donne? La madre è pur sempre una donna…

J.L. La madre non è una donna. È la donna.

S.L. Allora è un po’ come la Vergine.

J.L. Salvo che la Vergine era anche madre.

S.L. Madre, ma donna.

J.L. Era una vergine.

S.L. Poco importa, comunque, se Artaud, come lei afferma, era impotente…

J.L. Non ho avuto quest’impressione lì per lì. Me ne sono reso conto soltanto quindici o venti anni dopo rileggendo i suoi testi. Il grido di Artaud è il grido di un impotente.

S.L. Se così fosse, dobbiamo compiangere la virilità.

J.L. Sono le 18.15. Fa giusto in tempo a prendere il treno. Sono spiacente di non averle risposto come avrebbe voluto.

S.L. Ma lei mi ha risposto perfettamente.

J.L. Mi lasci il suo biglietto da visita, per favore.

S.L. Non ho un biglietto da visita.

J.L. Ah no?

S.L. No.

J.L. Neppure lei?

S.L. No. Ma posso mostrarle la mia carta d’identità. [Ride.] Dopotutto, l’identità serve a questo.

[Traduzione di Giuliana Prucca]

Note

[**] Tratto da Fous d’Artaud, Sens & Tonka, Paris 2003 (traduzione italiana e cura di Giuliana Prucca: Pazzi di Artaud, Medusa, Milano 2006).