philosophy and social criticism

Ho parlato di Dio con Antonin Artaud

Sylvère Lotringer [*] [**]

A cinquant’anni dalla morte, Antonin Artaud resta al centro di una violenta polemica che ha coinvolto innanzitutto gli psichiatri dell’ospedale di Rodez,[1] dove soggiornò per quasi tutta la durata della Seconda Guerra mondiale; poi gli amici e i cosiddetti discepoli che radunò intorno a sé al ritorno a Parigi nel maggio 1946; e infine i membri della famiglia, in particolare la madre e la sorella. Più di recente, i nipoti hanno dissotterrato l’ascia di guerra e intentato causa all’editore e alla responsabile della pubblicazione delle sue opere.

La disputa tra la famiglia di Artaud e i suoi amici, vecchi e nuovi, verte su diverse questioni, la principale delle quali riguarda il suo atteggiamento nei confronti della religione. Educato a Marsiglia, nel culto della religione cattolica romana, da una famiglia greca originaria di Smirne e assai devota, il giovane Artaud pensò di farsi prete. A quell’epoca, nel 1914, iniziò a soffrire di violenti disturbi nervosi, «una sorta di spasmo morale, di angoscia virulenta, di vertigine fisica» che lo faceva, disse, singhiozzare, tremare e urlare di disperazione. Nel corso degli anni seguenti, il suo stato gli impose numerosi soggiorni in cliniche neuropsichiatriche che non sembrano però avergli fatto un gran bene. Infatti, la sua salute addirittura peggiorò per effetto di una cura all’arsenico a cui i medici lo sottoposero per combattere quella che pensavano fosse una sifilide ereditaria, diagnosi frequente all’epoca e che forse era del tutto fondata nel caso di Artaud, a dispetto delle sue ripetute proteste. La malattia, almeno, lo preservò dai macelli della Prima Guerra mondiale, così come più tardi la follia gli avrebbe evitato un coinvolgimento diretto nella Seconda. Nel 1919, in una clinica svizzera dove soggiornò per un anno, gli venne dato per la prima volta, allo scopo di attenuare i suoi dolori, del laudano che lo lasciò per il resto dei suoi giorni irrimediabilmente dipendente da diverse sostanze oppiacee, tra cui – oltre, appunto, al laudano – la morfina, la cocaina e l’eroina. La sua sofferenza non era né immaginaria né istrionica, come talvolta si è dato a intendere (in effetti faceva l’attore), né semplicemente risultava dalla sua crisi spirituale, benché sia indubbio che tanto il suo intenso fervore , quanto la trasformazione radicale che impose alla sua esistenza abbiano riattivato sintomi fisici, legati alla meningite acuta contratta all’età di cinque anni, rimasti fino a quel momento assopiti.I movimenti oscillatori che hanno caratterizzato per tutta la vita l’atteggiamento di Artaud nei confronti della religione e il carattere blasfemo e violentemente anticristiano di numerosi suoi scritti hanno seminato confusione tra gli amici dell’ultimo periodo, i quali, fedeli alle sue ultime convinzioni, non hanno smesso di scontrarsi con la famiglia, e in primo luogo con la madre, Euphrasie Artaud, nata Nalpas, e con la devota sorella, Marie-Ange Malaussena. Ed è vero che gli strali di Artaud contro Dio e l’èra cristiana non trovano equivalenti nella cultura occidentale, nemmeno nell’opera di Nietzsche, che lo aveva segnato profondamente Artaud. Ma è innegabile che era ritornato al cristianesimo, e senza riserve, all’epoca del suo viaggio in Irlanda nel 1937 e che si era comportato da «convertito» entusiasta, prima di abiurare di nuovo violentemente nel 1945. Il fatto che avesse ripudiato in quel momento tutti i testi scritti sulla scia della conversione – «un orribile sortilegio, affermò, che mi ha fatto dimenticare la mia vera natura» – non basterebbe a giustificare gli sforzi dispiegati dopo la guerra dagli amici e dagli epigoni del surrealismo per impedire la loro pubblicazione, che, a detta di alcuni, avrebbe potuto attentare alla memoria, o forse solo all’immagine, del poeta. Bisognava essere abitati da una profonda religiosità, da una religiosità fanatica per spingersi tanto lontano sia nell’adesione a una fede quanto nel suo ripudio. I funerali religiosi imposti dalla sorella Marie-Ange Malaussena, contro il desiderio degli amici di Artaud, non contribuirono affatto a calmare gli animi.

Il destino dei suoi disegni e dei quaderni fu un altro motivo di controversia tra gli amici e la famiglia e lo è ancora oggi. Marie-Ange Malaussena accusò gli amici di Artaud di aver fatto razzia nella camera della clinica d’Ivry dove morì, nel marzo 1948. Ed è un dato di fatto. Paule Thévenin, che Artaud designò come sua esecutrice testamentaria per quanto riguarda i suoi scritti – ciò che la famiglia contesta nel modo più assoluto – e che divenne in seguito, e fino alla fine dei propri giorni, l’artigiana occulta della pubblicazione dell’opera completa presso le edizioni Gallimard, affermò che era stato Artaud stesso ad averle chiesto di mettere al sicuro tutte le sue carte prima di morire e nel timore che la famiglia, per eccesso di zelo, le distruggesse. Non è il parere della sorella: «Il giorno stesso della morte di Antonin – scrisse nel 1959 con toni presi a prestito, potremmo dire, da suo fratello minore – una immensa cabbala è stata ordita contro la sua famiglia all’unico scopo di intimidirla. Poiché sono stati commessi atti delittuosi. È stata fatta una completa razzia nella sua camera. Tutto quello che possedeva, manoscritti, appunti, disegni, libri, corrispondenza, tutto era sparito prima che arrivassimo… Da allora alcuni individui, cercando di trarre profitto dal loro furto, hanno potuto, grazie ad alcune complicità, infiltrarsi dappertutto, e dappertutto siamo dovuti intervenire. È così che più di una ventina di procedimenti sono in corso. Ecco tutto l’affaire Antonin Artaud».

Gli energici propositi della sorella di Artaud oltrepassarono leggermente i confini del linguaggio giuridico: «Per colpire la famiglia del poeta, sbottò, i suoi “amici dell’ultima ora” usarono senza risparmiarsi tutto ciò che insudicia, puzza e può uccidere». Ai sensi della diagnosi fatta dalle autorità mediche, Artaud soffriva di una «psicosi allucinatoria cronica, con idee deliranti lussureggianti e polimorfe […] d’influenza multipla». In complesso, potremmo rendere conto dell’affaire negli stessi termini. [2] Come spesso accade, questo accesso paranoico non era totalmente sprovvisto di fondamento. Lo zelo degli amici, che la sua “statura mitica” da ultimo poeta maledetto faceva aumentare di giorno in giorno, diventava tanto testardo e intrattabile nello sforzo di proteggere Artaud dalla religione, quanto quello della sua famiglia per reintegrarcelo.

Ma «l’affaire Artaud» non finì qui. Esplose nuovamente dopo appena qualche anno, quando uno dei preziosi quadernetti che Artaud aveva l’abitudine di portarsi in tasca dovunque andasse sparì, rubato come una santa reliquia durante la grande mostra dedicata al poeta al Centre Pompidou di Parigi. Conseguenza fu che il nipote di Artaud perseguì in tribunale Paule Thévenin (la quale morì poco dopo) per aver illecitamente falsificato i manoscritti, e così la pubblicazione degli ultimi testi (ventisei volumi pubblicati finora) è stata rimandata in attesa dell’esito della controversia giudiziaria.

Le questioni “Artaud” e “Dio” sono solo una parte della posta in gioco nella disputa che imperversa tra gli amici e la famiglia. Anche i suoi due psichiatri sono stati irresistibilmente travolti dalla tempesta. Per avere curato Artaud, si ritrovarono molto presto schierati con i belligeranti e reagirono a loro volta con energia e veemenza. Entrambi provinciali, ricevettero subito il fermo sostegno di una rivista altrettanto provinciale, La Tour de Feu, diretta da Pierre Boujut, che consacrò due voluminosi fascicoli ad Artaud e all’affaire. Boujut si schierò decisamente dalla parte degli psichiatri e, per certi aspetti, della famiglia , contro gli amici e gli ammiratori parigini di Artaud dunque, contrapponendo loro i cafoni snobbati alle consorterie letterario-mondane della capitale, che si trattasse di lettristi, surrealisti o maoisti da salotto (Tel Quel), cioè tutto il fior fiore culturale del tempo. E la querelle s’inasprì ancora di più.

Era stato Artaud stesso a dare fuoco alle polveri dopo il suo ritorno a Parigi nel 1946, accusando pubblicamente il dottor Gaston Ferdière, primario dell’ospedale psichiatrico Pereyre a Rodez, di averlo ingiustamente sottoposto a un’overdose di elettroshock. E Ferdière sarà fino alla fine dei suoi giorni l’oggetto di attacchi feroci da parte di tutti coloro che il mito di Artaud attirava come mosche. Per prima cosa ci furono due pamphlet ingiuriosi pubblicati dalla prima generazione di neosurrealisti del dopoguerra, Isidore Isou e il suo gruppo lettrista. [3] I lettristi si spinsero fino a tormentarlo direttamente, svegliandolo nel cuore della notte per coprirlo d’ingiurie al telefono. Lo psichiatra aveva le sue buone ragioni per ricordare ai detrattori che non era stato lui ad aver fatto internare Artaud e che in realtà l’aveva salvato dall’ospedale di Ville-Évrard dietro pressante richiesta di un amico comune, il poeta Robert Desnos. Facendo visita ad Artaud a Ville-Évrard dopo cinque anni senza vederlo, Desnos l’aveva trovato terribilmente cambiato. Era «in pieno delirio, parlava come san Gerolamo e non voleva più andare via perché si sarebbe allontanato dalle forze magiche che lavoravano per lui». Con acuta premonizione, Robert Desnos aveva aggiunto: «Un giorno Artaud mi considererà di certo un persecutore!».[4]

L’aspra difesa di Ferdière non contribuì certo a placare i suoi aggressori, anzi. Non smetteva d’indispettirli, valendosi senza mezzi termini delle leggi e delle consuetudini che «la società ha convenuto per la propria difesa, per la sua legittima difesa», affermando in modo ancora più provocatorio che si trattava di «delirio, delirio cronico» e che questo delirio rendeva Artaud «violentemente antisociale, pericoloso per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone». In realtà, per inconsuete che fossero, le innumerevoli eccentricità e manie di Artaud, il modo in cui «inghiotte il cibo, lo sminuzza sulla tovaglia, rutta a tempo, sputa per terra e, prima della fine del pasto, si mette in ginocchio per salmodiare», [5] oppure la sua abitudine di sputare al passaggio della moglie incinta dell’interno di Ferdière, il dottor Jacques Latrémolière, allo scopo di esorcizzare i demoni o le tentazioni della carne, non meritavano una condanna così severa e non rappresentavano di sicuro un pericolo per nessuno, neanche per lui. Inoltre, come Artaud fece giudiziosamente notare a Ferdière, queste pratiche facevano tutte parte della formazione di attore che l’aveva reso celebre a teatro. Ferdière non fece nulla neppure per disarmare i suoi nemici. Osservava, per esempio, che il giorno in cui il poeta arrivò e fu invitato alla sua tavola, la moglie aveva avuto «certamente il merito di aver accolto a braccia aperte e di essersi lasciata abbracciare da quell’individuo dall’aspetto ripugnante». Per di più, lo psichiatra adottò una dura linea di difesa giuridica: fece vietare la pubblicazione delle Lettres de Rodez di Artaud invocando una legge del 1838 sulla protezione dei diritti e dei beni degli internati per malattia mentale. Strana argomentazione da parte di qualcuno che si rivendicava anarchico e che, la prima volta che gli feci visita, venne a prendermi alla stazione di Fontainebleau esibendo un numero del «Canard Enchaîné», settimanale satirico e iconoclasta. L’insistenza di Ferdière a proteggere i diritti di Artaud non fece altro che alimentare la voce, più tardi ripresa dallo stesso Artaud, che accusava Ferdière, poeta scadente, di essere geloso del genio di Artaud. Infine, dopo la sua partenza da Rodez e la sistemazione in una clinica aperta della periferia parigina, a Ivry, Ferdière non esitò a mettere la morte del suo paziente a Parigi sul conto dei discepoli, o spacciatori, dell’ultima ora, che gli avevano procurato la droga.

Ma Ferdière se la prese anche con la famiglia, dandole della «postuma». L’accusò di avere trascurato il malato durante la guerra, di non essersi minimamente preoccupata di inviargli cibo e, quando finalmente fu autorizzato ad andarsene liberamente per le strade di Rodez imbacuccato in un’uniforme da marinaio spaiata, di non avergli procurato vestiti decenti. «Soprattutto ­- notava Ferdière – mi pare che la sorella avrebbe potuto trovare, in tre anni e tre mesi, il tempo e la possibilità di venire a trovarlo…». Aggiunse infine: «Accuso soprattutto la famiglia di Artaud di averne sottovalutato, quando era ancora vivo, l’opera e il genio» – accusa, questa, più volte diretta anche contro lo stesso Ferdière. A partire da qui, tutto ciò che riguarda la vita di Artaud, così come la sua opera e la sua eredità – che si tratti del rifornimento di droga, delle cure ricevute nei diversi ospedali (sosteneva che lo avessero avvelenato), della realtà della sua follia (che ha sempre negato), della causa della sua morte (cancro o overdose di laudano), del destino dei suoi manoscritti (tutelati, alterati o rubati), e persino dell’edizione dei suoi testi – è diventato materia di controversie tanto forti che, invece di schierarsi subito da una parte o dall’altra, converrebbe piuttosto prendere in esame il fenomeno in sé: spiegare cioè come si siano prodotti dibattiti così furiosi, scontri così appassionati, un’asprezza così acuta e che non dà certamente alcun segno di volersi esaurire.

Tutta questa gente che ha frequentato Artaud da vicino o da lontano è forse semplicemente paranoica?, come mi suggerì un giorno Paule Thévenin per rendere conto del comportamento aberrante di quegli psichiatri, parenti, amici, discepoli, «cloni» di Artaud, di tutti quei veterani di guerre condotte in suo nome, sempre pronti a gettarsi di nuovo nella mischia, di quei rapaci collezionisti delle sue reliquie. O forse è questione di un altro fenomeno, molto più vasto, una reazione tipica della società che potrebbe benissimo avere scatenato l’autore stesso con la sua traiettoria esemplare? Giacché esiste pur sempre qualcosa che si potrebbe definire un “mito” intorno ad Artaud, qualcosa che egli avrebbe fatto nascere con il suo rifiuto di ogni compromesso e a cui solo un’epoca estrema come la nostra, con le sue ideologie apocalittiche e i suoi miti che si diffondono come la peste attraverso popoli e continenti, poteva dare un senso così forte. Per avere richiamato a sé le potenze del destino, l’apprendista stregone Artaud ha finito, ancora vivo, con il servire loro in pasto.

Contrariamente a Ferdière, che aveva bazzicato i surrealisti quando studiava medicina a Parigi, era amico molto intimo di Robert Desnos e aveva fama di libero pensatore, il suo collaboratore, il dottor Jacques Latrémolière, che qui è il protagonista, aveva tutto del provinciale. Molto religioso, si era sposato giovane e aveva scelto di restare a esercitare nella sua regione come medico generico allo scopo di mantenere la famiglia in rapida crescita. Come Artaud, era portato a porre in termini apocalittici la questione dell’avvenire dell’umanità e quando feci la sua conoscenza nel 1983 Dio continuava ad assorbirlo tanto quanto al momento in cui aveva incontrato Artaud per la prima volta, nel 1943. Comunque sia, la nostra conversazione ebbe qualcosa d’irreale. Era come se fosse rimasta ferma nel tempo, o piuttosto riprendesse altre conversazioni che aveva avuto quarant’anni prima, esattamente al punto in cui le aveva lasciate. Georges Bataille un giorno scrisse, per provocazione, che se dio esistesse, sarebbe un porco. Parlando con Latrémolière capii che Dio esisteva ed era uno psichiatra.

Se Latrémolière rimase sempre ancorato alla propria fede, Artaud non smise di oscillare tra il fanatismo religioso e il rigetto fanatico della religione. Nel 1937, all’epoca del suo viaggio fatale in Irlanda, Artaud tornò repentinamente al cattolicesimo e conobbe un nuovo naufragio mentale. Il rimpatrio forzato in Francia, poi l’internamento in tutta una serie d’istituzioni psichiatriche, da Sotteville-les-Rouen, vicino a Le Havre, a Sainte-Anne, a Parigi, e da Ville-Évrard a Rodez, nel sud della Francia, segnarono il suo destino per nove anni. L’ospedale Sainte-Anne, situato, come a farlo apposta, tra il Quartiere Latino e la prigione della Santé, funzionava più come centro di smistamento che come una comune istituzione psichiatrica. I malati che vi entravano, restavano qualche mese a scopo di osservazione e di diagnosi prima di ripartire per le loro destinazioni finali. Tra coloro che esaminarono il poeta pazzo figurava un brillante specialista della psicosi paranoica a cui capitava anche di frequentare il gruppo surrealista, un certo dottor Jacques Lacan. Il suo verdetto fu severo: il paziente era irrimediabilmente «fissato» nel suo delirio. Appare oggi innegabile che Desnos avesse consultato Lacan prima di recarsi a fare visita al suo amico. Il giudizio di Desnos su Artaud «radicato nei suoi fantasmi e difficile da guarire» così come il suo avvertimento finale sulla possibilità che questi lo trattasse come «un persecutore» fanno direttamente eco alla diagnosi dello psicanalista. Lacan aveva aggiunto: «quest’uomo non scriverà mai più». Che Desnos abbia insistito per fare trasportare il malato in un ospedale più accogliente è quindi un fatto ancora più rilevante. Per Desnos, Artaud, anche se pazzo, restava innanzi tutto un grande scrittore. E in realtà comporrà ancora una quantità di testi tale da riempire una ventina di volumi dell’Opera completa. Circa un anno dopo, nel febbraio 1939, Artaud fu prelevato dal Sainte-Anne e trascinato fino all’ospedale di Ville-Évrard, a Neuilly-sur-Marne. Gli era stata infilata la camicia di forza in quanto opponeva resistenza al trasferimento, trovando che l’avessero già fatto spostare troppe volte all’interno del Sainte-Anne, dove importunava gli altri pazienti con le sue salmodie notturne. Lo accompagnava una diagnosi tra le più inquietanti: «Sintomo delirante di tipo paranoide. Manie di persecuzione, di avvelenamento, di sdoppiamento della personalità. Intossicazioni multiple, grafomania». Il malato non aveva quindi smesso di scrivere, ma a quanto pare si trattava di scrittura incomprensibile.

Ci trovavamo allora alla vigilia della Seconda Guerra mondiale e le condizioni di vita a Ville-Évrard si degradavano rapidamente. Alcuni medici partirono per il fronte, e in particolare quelli che si erano interessati personalmente al caso Artaud. Più tardi, alcuni membri del personale furono mobilitati dal Servizio per il lavoro obbligatorio in Germania. Prima ancora che la Francia venisse occupata, correva voce che in Polonia erano stati sterminati tutti gli internati delle istituzioni psichiatriche. I malati erano terrorizzati. L’occupante tollerava a malapena l’esistenza di simili istituzioni e il governo di Vichy ne ridusse drasticamente il finanziamento pubblico in modo che avessero appena di che vivere. Artaud non poteva contare molto sull’aiuto dei suoi vecchi amici surrealisti, la maggior parte dei quali dovette fuggire o nascondersi. Era sicuramente il momento peggiore per soggiornare in un ospedale psichiatrico francese. Nel 1940, un primo episodio di carestia si portò via i pazienti malati fisicamente. Poco a poco divenne norma una sottoalimentazione degna dei campi della morte, con il suo spettacolo di corpi emaciati, articolazioni ingrossate e ventri gonfi. Interi ospedali psichiatrici furono decimati.

«Era una vera morìa», affermò la giovane Marthe Robert quando, all’epoca, fece visita ad Artaud. Infine, nel 1946, sarà proprio lei, con il drammaturgo Arthur Adamov, a far uscire Artaud da Rodez. La situazione a Ville-Évrard diventava sempre più intollerabile. «Quest’atroce impressione di fame che dal 1940 non mi ha più abbandonato» scrisse Artaud successivamente (lettera del 12 luglio 1943). Gli occupanti requisirono l’ospedale di Villejuif e spostarono tutti i malati a Ville-Évrard. Nel 1943, allarmati dall’aggravarsi delle condizioni di salute di Artaud, Robert Desnos e Paul Eluard riuscirono a farlo trasferire in zona libera, a Chezal-Benoît, ospedale situato sulla linea di demarcazione. Desnos affidò il poeta al suo amico di Rodez, il dottor Gaston Ferdière, che in precedenza era stato proprio il direttore di Chezal-Benoît e che assicurò il passaggio in zona libera. Non si può mettere in dubbio che questa operazione abbia salvato la vita di Artaud. Al suo arrivo a Rodez, nel febbraio del 1943, Artaud era in preda a un’esaltazione religiosa che spiega l’attenzione che gli rivolse immediatamente il dottor Jacques Latrémolière, devoto tanto quanto lui. Bisogna anche dire che al di fuori di Ferdière – che però era un ateo militante – non si trovava davvero nessun altro con cui parlare; l’edificio era popolato soltanto da rozzi campagnoli dell’Aveyron. Inoltre, Artaud era stato preceduto dalla sua sulfurea fama parigina di poeta, attore e regista. Così non ci volle tanto all’illustre paziente per salutare in Latrémolière un «vero e grande cristiano», qualcuno che conosceva, come affermò subito, da molto tempo e che riconosceva su questa terra «come uomo di buona volontà, e, in cielo, come uno degli Angeli che Gesù Cristo ha preposto alla guardia del sacro» (lettera del 5 aprile 1943). Allo stesso modo celebrò Ferdière, la cui ispirazione di corrergli in soccorso era da attribuirsi al «Cielo, da dove in realtà – gli scriveva Artaud – lei stesso discende» (lettera del 12 febbraio 1943).

Queste pie gentilezze rispondevano chiaramente, almeno in parte, al bisogno di farsi ben volere da coloro che avrebbe voluto considerare i suoi nuovi amici. Dopo sei orribili anni passati in ospedale, come avrebbe potuto Artaud ignorare che, per quanto amichevoli potessero sforzarsi di essere o di apparire gli psichiatri, questi restavano innanzitutto degli psichiatri? Erano loro a decidere del suo destino. Proprio come lo scimpanzé di cui parla Kafka in Relazione per un’accademia che si trasformò in uomo perché sarebbe stata la sola maniera per evitare di dover trascorrere tutta la vita in una gabbia, così in quel momento il desiderio più forte di Artaud era quello di «cercare una via d’uscita». Non gli ci volle molto tempo per valutare i suoi interlocutori e capire come prenderli per il verso giusto. Del resto, aveva sempre dimostrato una sconcertante capacità di entrare nel pensiero degli altri per farlo proprio. Era la sua strada maestra verso la conoscenza – almeno di sé stesso – sempre che dire questo abbia un senso, trattandosi di qualcuno con un così scarso possesso di sé. Se era riuscito a catturare nella sua rete dei giganti come Paolo Uccello o Eliogabalo, che male poteva esserci a sondare con le sue dita villose la mente di Ferdière? Con Ferdière, percepì immediatamente, così affermava, «una strana fraternità di spirito», al punto tale che «se lo sentissi parlare – scriveva alla madre – avresti spesso l’impressione di sentire parlare me» (lettera del 27 dicembre 1943). Conoscendo a fondo il suo Ferdière, si premurava, in tutte le lettere, di fare allusione al suo passato surrealista, di sottolineare il loro comune interesse per il «meraviglioso» – pallido riflesso della propria immaginazione sovreccitata – e di ricordargli la sua amicizia con André Breton. Contrariamente all’autore di Nadja, però, Ferdière non poetizzava affatto la follia, e non batteva in ritirata quando ci si trovava al cospetto. Artaud sostenne anche di riconoscersi in Latrémolière: metteva in primo piano i mali fisici che avevano in comune, alimentava un’atmosfera di complicità, una sorta di comprensione virile da uomo a uomo e immaginava che, in quanto fratello cristiano, il giovane medico fosse in lotta con la sua sessualità esattamente come lui stesso non aveva mai smesso di esserlo. «So che lei è stato malato – gli scriveva poco dopo il suo arrivo a Rodez – e che ha sofferto molto, non tanto per il suo dolore fisico quanto per un altro male che è un po’ lo stesso che mi tortura qui, ma che ha comunque la stessa causa e di cui non voglio parlarle in una semplice lettera, ci vorrebbe una lunga conversazione fuori di qua e un incontro da uomo a uomo e da amico, ma questo male rasenta lo scandalo dell’orribile storia di cui sono vittima e che anche lei conosce per averne sofferto terribilmente nel segreto della sua anima e della sua coscienza» (lettera del 25 marzo 1943). Qui Artaud alludeva alle aggressioni erotiche che diceva di subire ogni notte da parte di «orde di demoni» che non smettevano di succhiargli tutta la sua sostanza. E, senza alcun dubbio, contro la sua volontà.

Latrémolière ci vedeva chiaro in questo giochetto così come nell’abitudine di Artaud, notava, «di vederci sprofondare nella sua storia, anche se ci faceva risalire di millenni». È per lo meno ciò che il dottore dà a intendere nel solo articolo che abbia mai pubblicato al riguardo, Ho parlato di Dio con Antonin Artaud. Sembra non avere mai considerato sincero l’interesse d’Artaud nei suoi confronti. «Non gl’importava granché del mio dolore fisico – osserva aspro – ci teneva soprattutto che provassi la sua stessa tortura “che rasentava lo scandalo dell’orribile storia di cui era vittima”… Ho sempre ritenuto che noi tutti fossimo per lui soltanto una sorta di occasione salvatrice per esorcizzare i demoni altrui, non riuscendo a respingere i suoi».[6] Latrémolière dimenticava solo che gli psichiatri dovrebbero servire proprio a questo. È evidente che ce l’aveva con il suo paziente perché non lo riconosceva per ciò che era. Artaud presentava, scrive nel suo articolo, «la classica interpretazione delirante legata all’ipertrofia dell’io, generatrice dell’idea di persecuzione, per non parlare poi delle allucinazioni […] Il suo ragionamento del tutto interessato, in ultima analisi, gli faceva mascherare i suoi piccoli bisogni personali in grandi idee vertiginose». Questo medico manifestava, paradossalmente, entro certi limiti, lo stesso genere di sintomo egocentrico che stigmatizzava nel suo paziente.

I due uomini – lo psichiatra dalle idee precise e il paziente illuminato – dovevano formare una bella coppia. Me li immagino camminare in lungo e in largo nel cortile dell’ospedale (in seguito demolito per fare posto a un collegio femminile), così come ora io passeggio per i viali di ghiaia in compagnia di Denis-Paul Bouloc, un poeta del posto che conobbe Artaud a quel tempo. Mi pare di sentire ancora lo scricchiolio dei loro passi sul pietrisco e le loro voci stridule. E di cosa potevano discutere se non di Dio?

Un problema in particolare dava del filo da torcere allo psichiatra e al suo paziente, quello del Sesso e della Verginità, che Artaud considerava il punto più spinoso del dogma cristiano, uno dei «Misteri più profondi della Religione Cattolica, la nostra Religione». Agli occhi del poeta, la sessualità umana non rappresentava semplicemente il peccato, che si può sempre riscattare grazie ai sacramenti, ma il Male incarnato. Gli sembrava inconcepibile che Dio avesse voluto creare degli esseri umani la cui carne dovesse macerare per nove mesi «nello sperma e negli escrementi» (lettera a Latrémolière del 29 aprile 1943). In origine, supponeva, gli umani erano stati creati senza sesso né intestini e gli alimenti, una volta assimilati dallo stomaco, si eliminavano per evaporazione lombare. La sessualità si riduceva a uno sfortunato incidente della natura. L’intenzione di Dio era che gli uomini restassero eternamente puri e angelici.

Eppure, era iscritto nella loro stessa finitudine che avrebbero tradito l’infinito divino. Con l’orgasmo e le budella, Satana aveva imposto la propria biologia all’organismo umano allo scopo di mantenerlo nell’abiezione. Era dunque dovere di buoni cristiani come loro ripristinare con l’astinenza lo stato immacolato che avevano ricevuto da Dio. Su questo punto come su qualsiasi altra cosa, la posizione di Artaud era assoluta. E il rimedio raccomandato non meno radicale: la castità integrale perfino nel matrimonio. Non poteva nemmeno concepire che quel giovane sposo cattolico che era il suo psichiatra non condividesse il suo orrore della sessualità. Invano Latrémolière faceva valere che l’amore umano e l’amore divino non rappresentavano che un’unica e stessa cosa, e che l’amore di Dio creava un debito di cui ci si poteva liberare solo con lui e gli altri uomini. Artaud si accontentava di alzare le spalle: il matrimonio sessuale non era cristiano, punto e basta. In realtà, al medico non era proprio possibile dare adesione completa a questo orrore sacro della sessualità: sua moglie era in stato di avanzata gravidanza e non sarebbe stata l’ultima. Artaud ovviamente non poté mai perdonarglielo del tutto. E non mancava di compiere complicati gesti di esorcismo ogni volta che incrociava la consorte di Latrémolière nel chiostro dell’ospedale, salutandola generosamente al suo avvicinarsi prima di sputarle alle spalle allo scopo di proteggersi da ignobili demoni.

«Le nostre opinioni differiscono su qualche punto», finì con l’ammettere il medico. Strana conclusione da parte di uno psichiatra: si aspettava davvero di avere su tutto esattamente lo stesso punto di vista del suo paziente delirante? Spesso Latrémolière sembra considerare – era completamente razionale quando si trattava d’irrazionale – che la follia sia una semplice questione di opinione. Era davvero il compito di uno psichiatra quello di convincere un supposto demente che il suo concetto di astinenza integrale era in contraddizione con l’ortossia cristiana? Artaud, naturalmente, approfittava di quest’ingenuità del medico per ribaltare i ruoli: «Quando la sento dire che la castità integrale è eretica e che la chiesa e tutti i grandi mistici predicano la procreazione mediante il sesso e la sua immonda copulazione, mi domando io stesso se non ho a che fare con un demente» (lettera del 19 luglio 1943).

Il giovane psichiatra confondeva inestricabilmente predica e terapia. Don Julien, cappellano dell’ospedale, ci sapeva fare meglio. Non ci aveva messo molto a capire che lo zelo eccezionale di Artaud – l’insistenza, per esempio, nel confessarsi tre volte alla settimana – faceva parte del suo delirio. Il prete arrivò persino a sospettare che l’impazienza manifestata dal malato nel ricevere i sacramenti altro non fosse che un diversivo alla droga. E il fervore di Artaud divenne così ossessivo, con quella sua mania di sorvegliare la cappella per scoprire l’andirivieni del prete, che il buon Padre decise addirittura di non mettere più piede in ospedale durante la settimana. Non è poi quindi molto sorprendente che abbia giudicato un po’ delirante anche lo zelo evangelico di Latrémolière. Altrimenti, come spiegare quell’insistenza a infliggere a un maniaco le sue “dissertazioni teologiche” sull’Amore Divino? Ma Artaud non smetteva di aumentare la posta in gioco. Le sue lettere a Latrémolière presero la piega di severi sermoni sul Male dell’orgasmo, insaporiti di riferimenti a Giovanni di Patmos, che sognava di mantenere la separazione dei sessi con il fuoco, e alle visioni preadamitiche di verginità integrale che ossessionavano Santa Ildegarda.

Lo stesso Latrémolière riconobbe in seguito che la sua situazione era a quel tempo «complessa e delicata». In apparenza, Artaud aveva tutto del cristiano autentico, tanto che il medico si sentiva tenuto, riconosce, ad «abbracciare per quanto possibile tutti gli aspetti del suo cristianesimo – quelli che giudicavo variabili e quelli che mi urtavano». Nella sua relazione con Artaud, doveva assumere insieme tre incarichi difficilmente compatibili: in quanto psichiatra, aveva la responsabilità di valutare, usando un termine di Michel Foucault, il grado di «pericolosità» del paziente per la società; in quanto medico, gli sembrava suo compito riportare il paziente nella norma; e in quanto cristiano, gli doveva compassione. Le sue convinzioni religiose pretendevano da lui che seguisse questo suo paziente, fratello nel cristianesimo, «fino ai limiti estremi dell’amicizia fraterna».[7] Ma con Artaud non esisteva propriamente alcun limite, per quanto «estremo». Ne esisteva tuttavia almeno uno che suo fratello in Cristo non era sicuramente pronto a varcare: procurargli dell’oppio, dell’eroina o della morfina. Per tutta la vita, Artaud ha cercato di spillare dai suoi medici un oppiaceo o qualsiasi altra droga. Sosteneva che avrebbero così curato il suo organismo «viziato da abiezioni infette». Ma non aveva funzionato spesso; con un pretesto così esplicito, la mancanza era troppo palese. «Senza questa cura legata all’energetica dell’essere, la mia anima sarebbe sempre più scandalizzata dal peccato» minacciava Artaud nella sua primissima lettera a Latrémolière (25 marzo 1943). Credeva davvero che il suo devoto medico avrebbe ceduto a un ricatto così grossolano? Le esigenze di Artaud sarebbero diventate particolarmente isteriche: «Lei pensa a me come a un tossicomane, gli rinfacciava, quando invece a intossicarmi sono lo sperma e gli escrementi che mi provengono da tutti i vostri peccati» (29 aprile 1943).

Il fatto che Latrémolière sia stato profondamente ferito dagli attacchi che Artaud, una volta liberato da Rodez, lanciò contro i suoi medici sembra indicare che il suo interesse per questo paziente non sia stato soltanto di natura fraterna ed evangelica. Ferdière, quanto a lui, si dimostrò molto più filosofo: gli affronti dei pazienti «fanno parte del mestiere», mi ha ribadito. Nel caso di Latrémolière, entrò in gioco qualcosa di più che potremmo chiamare amicizia, se poteva esistere amicizia tra due uomini situati da una parte e dall’altra del confine della salute mentale (e ognuno a un’estremità opposta del manganello). Ma se il giovane internista si sentiva in una situazione «complessa e delicata» di fronte al paziente, questa lo era ancora di più per Artaud, il cui destino dipendeva totalmente dai capricci dei medici. I malati e i dottori che si occupano di loro non si trovano mai in condizioni d’uguaglianza, anche quando dicono di essere loro amici, come Artaud lo assicurava a Latrémolière, il quale gli credeva. È ciò che Artaud esprime quanto mai chiaramente in una lettera a quest’ultimo: «Il medico ha sempre ragione contro un internato […] e il malato sempre torto perché […] persino le sue dichiarazioni dei fatti rientrano nella categoria di un delirio catalogato» (19 luglio 1943). Scrisse questa lettera cinque mesi dopo il suo arrivo a Rodez e aveva dunque avuto il tempo d’imparare la lezione, sempre che la sua precedente esperienza negli ospedali psichiatrici non gli fosse bastata. Un mese prima, il dottor Ferdière, giudicando la salute di Artaud sufficientemente ristabilita per sopportare il trattamento, aveva prescritto una serie di elettroshock. E fu proprio Latrémolière, amico personale di Artaud, a essere incaricato di somministrarglieli.

Si fa fatica a conciliare i sentimenti di compassione umana e di fraternità in Dio che professava questo medico con la pratica deliberata d’infliggere delle scosse elettriche a pazienti indifesi. Ci s’immaginerebbe volentieri il cristiano sincero che è in lui provare orribili turbamenti i di coscienza e resistire con tutte le sue forze all’ordine datogli dal suo superiore. Nulla di più lontano dalla verità. In realtà, Latrémolière era abbastanza eccitato all’idea di usare questo procedimento e lo prodigò generosamente ai suoi malati per tutto il periodo in cui esercitò in quell’ospedale, praticando circa milleduecento elettroshock in tre anni. E, oltre al desiderio di curare, il suo ardore si spiegava con il fatto che tale trattamento era proprio il soggetto della sua tesi di laurea in medicina.

La terapia per convulsioni elettriche, come è stata chiamata, godeva all’epoca del fascino stimolante della novità. Era già abbondantemente utilizzata in Germania, ma era ancora poco conosciuta negli ambienti psichiatrici francesi. Latrémolière, essendo uno dei primi a sperimentarla, faceva quindi opera di pioniere. Questo trattamento era apparso soltanto tre anni prima in Francia, e precisamente a Ville-Évrard, l’ospedale che Artaud aveva appena lasciato. E dove era previsto che gli fosse applicato (ma gli specialisti non sono ancora sicuri che lo sia stato effettivamente). È lì che il dottor Rondepierre, avendo letto nel 1940 un articolo a proposito di questo metodo, aveva tentato di adottarlo. Al suo inventore, Ugo Cerletti, professore in psichiatria, era venuta l’idea nel 1938 dopo la visita a un macello di Roma e aveva fatto costruire il primo dispositivo dispensatore di elettroshock. Anche il dottor Rondepierre andò a visitare un macello, a Kremlin-Bicêtre, nella periferia parigina. Osservò accuratamente il tipo di forcipe che i macellai applicavano ai due lati del capo del maiale. La bestia cadeva come una pietra e il macellaio la sgozzava seduta stante. Notò pure che se invece il macellaio lasciava passare qualche secondo, il maiale si rialzava «e si allontanava con buffa andatura». Il dottor Rondepierre decise di fabbricarsi da sé la prima macchina per gli elettroshock. La costuì con l’aiuto di un radiologo, il dottor Lapipe, e fece i suoi primi esperimenti su alcuni porcellini d’India. Poi se la prese con i conigli e infine con un maiale proveniente dal porcile di Ville-Évrard, prima di provare la sua macchina, con discrezione s’intende, su un paziente che ebbe «la fortuna di non uccidere». [8] E fu questa stessa macchina che Latrémolière utilizzò poco dopo per Artaud.

Era già noto allora che le crisi epilettiche potevano provocare nel paziente straordinarie trasformazioni psichiche e talvolta persino una guarigione completa. Fino all’introduzione dell’elettroshock, crisi simili venivano indotte artificialmente con iniezioni di cardiazol, rimedio elaborato da un medico ungherese, il dottor Van Meduna. Era stato il primo a notare che schizofrenia ed epilessia erano incompatibili e ne aveva dedotto che suscitando l’una si sarebbe colpita l’altra. Tale sostanza presentava però un grande inconveniente: prima di perdere conoscenza, il paziente provava una orribile sensazione di morte imminente e quindi resisteva con tutte le sue forze a qualsiasi altra iniezione. La terapia per convulsioni provocava crisi simili, ma, sosteneva Rondepierre, i pazienti non opponevano più alcuna resistenza al trattamento. Riemergevano solo dall’accesso epilettico in uno stato di ebetudine e di confusione, chiedendo quando il trattamento gli sarebbe stato dunque applicato… Era, secondo lui, una cura miracolosa che poteva funzionare anche su pazienti considerati incurabili, come nel caso di Artaud.

Ma i miracoli non hanno granché di scientifico. L’elettroshock, in realtà, aveva un impatto massiccio e indiscriminato, come quando si picchia sul televisore per stabilizzare l’immagine. I probabili danni al cervello o l’entità delle perdite di memoria non sono mai stati calcolati con precisione. Certi pazienti affermano che l’effetto debba essere valutato su una scala di anni, non solo su giorni o settimane. Altri lo considerano irreversibile. Queste osservazioni hanno finito con il raffreddare l’entusiasmo iniziale per quest’invenzione. Tuttavia, l’elettroshock resta un comodo mezzo per intontire un paziente e per questo gli ospedali vi ricorrono ancora oggi correntemente per risparmiare sul personale. Non così era nel momento in cui questa terapia fece la sua apparizione negli ospedali psichiatrici francesi. Il trattamento chimico delle malattie mentali non esisteva e ci si accontentava di lasciare i malati marcire nei locali degli istituti, come era stato il caso per Artaud durante gli anni precedenti il suo arrivo a Rodez. «Cancrena da ospedale» era del resto l’espressione usata di frequente dal personale per designarli. Aogni modo, sarebbe ingiusto considerare l’elettroshock un mezzo essenzialmente punitivo. Nel caso di Artaud costituì un tentativo, certo brutale, di migliorarne lo stato mentale e, entro certi limiti, ha avuto successo, probabilmente più di quanto chiunque oggi sia disposto ad ammettere. Smentendo il verdetto definitivo di Jacques Lacan, il poeta non rimase «fissato» nel suo delirio, ma si rimise a scrivere. Le lettere scritte all’epoca da Artaud in merito al trattamento, nelle quali protesta con veemenza contro la sua applicazione, ma ne descrive pure gli effetti con quella precisione e potenza che gli sono proprie, appartengono anch’esse alla storia di questa terapia.

Gli elettroshock furono somministrati ad Artaud con una cadenza di tre volte a settimana per un anno di fila. Cinque giorni dopo la prima seduta, Artaud provava forti dolori alla schiena e al fegato e supplicò Ferdière di smettere il trattamento: «Mio caro amico, gli scriveva, devo chiederle un grande favore e una grande grazia. Si tratterebbe di far cessare, per quanto mi concerne, le applicazioni di elettroshock che il mio organismo mostra chiaramente di non sopportare e che sono di certo la causa rivelatrice predominante della mia deviazione vertebrale attuale […] questa insopportabile sensazione di frattura nella schiena» (lettera del 25 giugno 1943). Tale reazione anormale fu registrata da Latrémolière nel suo trattato, Incidenti da elettroshock, pubblicato nel 1956:

OSSERVAZIONE N. 7

«Antoine A… 46 anni, ex-tossicomane, affetto da psicosi allucinatoria cronica, con idee deliranti polimorfe lussureggianti… Dalla seconda seduta, parla di vaghi dolori dorsali che diventano violenti al risveglio della terza crisi: bilaterali, costrittivi, accresciuti dal minimo movimento, la tosse… Durante due mesi di riposo a letto, le iniezioni intradermiche d’Istamina e le gocce di Pyréthane riescono infine a vincere i dolori».

Molto più tardi, Latrémolière mi assicurò lui stesso che questo tipo d’incidente si produceva di rado, «forse sette o otto volte» su milleduecento applicazioni. Ma un’occhiata al suo resoconto – «Osservazione n. 8: Louis B., 22 anni», coltivatore dalla muscolatura «molto sviluppata» – tenderebbe a dimostrare il contrario. Il contadino in questione, per quanto robusto, provò forti dolori medio-dorsali che presentavano «le stesse caratteristiche degli altri casi» e anche lui fu costretto a restare a letto per parecchie settimane. Il fatto è che all’epoca non esistevano rilassanti muscolari; le convulsioni erano violente e gli incidenti frequenti.

Il trattamento era in sé abbastanza inoffensivo: una breve scossa elettrica dietro la testa. Ma la reazione, a seconda della curva e dell’intensità della corrente, poteva essere estremamente violenta. I pazienti erano in preda a una crisi paragonabile a quella del «piccolo male» degli epilettici; cadevano poi in uno stato nebuloso (coma) accompagnato da una cancellazione organica della coscienza. Restavano confusi e inebetiti durante la fase successiva allo shock, scossi da balzi, sussulti, gesticolazioni incontenibili. Al risveglio, provavano angoscia e sofferenza, con fantasmi e forti allucinazioni che ricordavano un po’ la schizofrenia. In Artaud tutto questo si traduceva con lo stesso sentimento lacerante di spossessamento che aveva descritto a Jacques Rivière circa venticinque anni prima. Gli psichiatri tedeschi, che sono stati i primi a ricorrere a questa tecnica su vasta scala, spiegano tale stato con «l’angoscia dell’io diviso» (schildge).

Ogni volta che Artaud perdeva conoscenza, «soffocava dentro di sé», diceva, per una settimana intera. Si sentiva poi così disorientato che non capiva più dove si trovasse. Lo stato di terrore si prolungava per parecchie ore e diventava sempre più insostenibile man mano che riacquistava la memoria. Dopodiché sopraggiungeva una profonda depressione. Aveva dubbi su tutto, sulla sua intelligenza, sullo scopo da raggiungere e sulla sua missione terrena. «Sono stanco di vivere, signor Latrémolière – scriveva dopo un silenzio durato tre mesi – perché mi accorgo che ci troviamo tutti in un mondo dove niente ha tenuto…» (lettera del 5 gennaio 1945). Per Latrémolière erano questi segni incoraggianti; indicavano che «la ricostruzione mentale» del paziente si era ormai avviata. Pertanto, i medici ebbero buone ragioni per ritenere che la coscienza del paziente sarebbe stata in grado di correggere le proprie perturbazioni e di ritrovare il proprio equilibrio.

La prima serie di elettroshock fu somministrata nel luglio 1943. Artaud non smetteva di lamentarsi di quanto fosse terribilmente doloroso il trattamento. «Quel che desidero maggiormente è evitare un nuovo trattamento», così implorava Ferdière il 24 ottobre 1943, presagendo che ci sarebbero state ulteriori sedute. Ma l’indomani le convulsioni ripresero e durarono fino al 22 novembre. «Il trattamento dell’elettroshock – scriveva Artaud in seguito – è stato per me un supplizio orribile durante tre mesi. E finché vivo, non voglio più vedere un supplizio così. E spero che in futuro me lo eviterete». (Nouveaux écrits de Rodez, dicembre 1943).

Nonostante tutto, il suo stato mentale migliorava leggermente. Gli capitava, a tratti, di riconoscere che non era Antonin Nalpas ma Antonin Artaud. Nel febbraio 1944, sotto l’impulso di un pittore, amico di Ferdière, Frédéric Delanglade, si rimise a dipingere e a disegnare. Divenne in seguito uno dei suoi mezzi preferiti di espressione, in ospedale e poi fuori. Ma nel corso dei mesi seguenti, i medici osservarono una nuova ricaduta del malato, il quale si lamentava sempre più di essere vittima di sortilegi e avvelenamenti. Notarono anche una recrudescenza di gesticolazioni e allucinazioni. Artaud si rese conto che il loro atteggiamento nei suoi confronti stava cambiando e si fece di nuovo prendere dal panico. Lanciò a Ferdière alcuni avvertimenti: «Ho risalito la china una volta, dopo tre mesi di angoscia, di delirio, di confusione, di oblio. Non la risalirò un’altra volta, perché la mia anima ne ha abbastanza di essere maltrattata e martirizzata» (lettera del 2 aprile 1944). Il suo terrore s’intensificò nel corso delle settimane seguenti e supplicò nuovamente Ferdière di risparmiargli il trattamento. «Un serie supplementare di elettroshock mi annienterebbe. E non credo che lei lo voglia, onestamente» (20 maggio 1944). Tre giorni dopo, Latrémolière cominciò una nuova serie di dodici elettroshock che durò fino al 16 giugno 1944 e che lo lasciò incosciente per un mese intero. A tal punto, scriveva alla madre, da non sapere più chi fosse né dove si trovasse. È anche possibile che Artaud abbia subìto un’ultima serie di elettroshock nel mese di agosto dello stesso anno, a giudicare, almeno, dalla lettera che indirizzò a Latrémolière: «È stato proprio lei a fare cessare nel mese di agosto le applicazioni per me orrende dell’elettroshock perché ha capito che non era un trattamento da farmi subire e che un uomo come me non doveva essere curato ma aiutato nel suo lavoro». E aggiunse:

L’elettroshock, signor Latrémolière, mi avvilisce, mi toglie la memoria, m’intorpidisce il pensiero e il cuore, fa di me un assente che si vede assente e che erra per settimane alla ricerca del suo essere, come un morto accanto a un vivo che non è più sé stesso, che ne esige la venuta, ma da chi non può più entrare […] Ogni volta mi restituisce a quegli abominevoli sdoppiamenti di personalità di cui ho scritto nella corrispondenza con Rivière, ma che allora erano una conoscenza percettiva e non un tormento come sotto l’elettroshock. Provo molta amicizia per lei e lo sa, ma se non fa smettere immediatamente questi elettroshock non potrò custodirla nel mio cuore […] Se l’uomo che in lei mi ha compreso e amato, come mi ha dimostrato nello scorso mese d’agosto, perché quello è il suo irriducibile io personale, se quell’uomo, dico, fosse stato assolutamente presente negli ultimi giorni, per niente al mondo avrebbe sopportato d’infliggermi ancora una volta i supplizi del sonno e dell’orribile intorpidimento mentale dell’elettroshock. [9]

Non c’è alcun dubbio che nell’insieme quest’esperienza abbia profondamente intaccato la sua relazione con Latrémolière. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Al ritorno a Parigi, Artaud si lamentò spesso di quanto i suoi psichiatri l’avessero fatto atrocemente soffrire e i suoi amici parigini, furiosi, ne rimproverarono il sadismo. Il medico cristiano la prese come un fatto personale e si sentì tanto più tradito in quanto considerava quelle accuse prive di fondamento: «Strillava come un ossesso – mi dichiarò in seguito con un risolino beffardo e un’alzata di spalle – ma non aveva male».

La lettera a Latrémolière del gennaio 1945 fu l’ultima che Artaud scrisse al suo «amico», ma non del tutto l’ultimo contatto tra i due uomini. La precipitazione degli eventi esterni ebbe certamente a che fare con questa brusca interruzione: sconfitta in Russia, l’armata tedesca stava perdendo velocemente il dominio sull’Europa e il giovane internista andò a combattere con la Resistenza. Al suo ritorno a Rodez tre mesi dopo, nell’aprile 1945, ricevette un disegno che Artaud aveva eseguito per lui e intitolato: L’Uomo e il suo dolore.

Artaud si rimise a disegnare veramente nel gennaio 1945, quando l’ultima serie di elettroshock iniziò a farne vacillare le convinzioni religiose. Le sue idee circa una cospirazione mondiale ordita dagli Iniziati che metteva in opera sul suo corpo una sorta di «magia nera sessuale», costringendolo auna serie di riti speciali di esorcismo, cominciarono a perdere di pregnanza, come anche l’impressione di aver vissuto diverse vite successive e di essere abitato nel corpo da una coscienza estranea alla sua. Poco a poco, Artaud si ritrovava guarito dalla fede, ma non dall’inclinazione religiosa né dalle «intenzioni di purezza», che ne costituivano il fondamento incrollabile. Proprio durante questa fase di transizione incominciò a fare i grandi disegni ravvivati di colore che ho visto per la prima volta alle pareti dell’appartamento di Paule Thévenin. Rappresentavano il suo primo e coerente tentativo di costruirsi, per mezzo di un’opera, un nuovo corpo a partire dalla disintegrazione del proprio. Una delle sue prime realizzazioni, risalente al gennaio 1945, L’essere e i suoi feti, mostrava un proliferante laboratorio della Carne. Questo disegno inscenava un mostruoso guazzabuglio di organi, feti, peni, ossa, viscere, seni turgidi costituenti un corpo grottesco dispiegato in una sorta di “esoscopia” intorno a due coppie allacciate mentre copulano supine e sovrastate da file di pittogrammi a forma di sole e da allettanti corpi femminili a diversi stadi di decomposizione. Il primo disegno evocava un graffito. Raffigurava una coppia irrigidita in un abbraccio quasi cadaverico, da una parte e dall’altra di una vagina prominente da dove era appena stato espulso un feto. L’altra coppia, suggerita soltanto dall’incontro di organi riproduttivi, era incastrata in una specie di bara o, per lo meno, di un dispositivo meccanico indicante il carattere non naturale di qualsiasi procreazione. Nella maggior parte dei disegni di quell’epoca, che si sforzavano di conservare la pietosa goffaggine delle forme, la sessualità restava la matrice di ogni forma possibile. Ad Artaud ci vollero parecchi mesi per rendersi conto che, per la prima volta dopo anni, era riuscito a fare «qualcosa di speciale», uno spazio scenico crudele paragonabile sotto ogni aspetto a ciò che aveva realizzato nei suoi scritti e nel suo teatro. Cominciò allora a prendere sul serio i propri disegni – ne spedì un paio a Jean Dubuffet – e a considerarli una eventuale fonte di reddito per il futuro. Giacché Ferdière aveva acconsentito a lasciarlo andar via soltanto a condizione che fosse finanziariamente indipendente.

Nel febbraio 1945, Artaud interruppe per qualche mese la produzione di disegni in grande formato per mettersi a redigere le note dei suoi quaderni di Rodez, nei quali cercava di scandagliare «le profondità dell’inconscio umano, le sue rimozioni e i suoi segreti che persino l’io abituale ignorava» (lettera del 7 gennaio 1945). Ciò che vi scoprì fu che l’io non era rigorosamente legato a una percezione unica e del resto non era per nulla unico, né percepito in uno spazio corporeo assoluto, ma «disperso nel corpo anziché essere raccolto su sé stesso in una uguaglianza sensoriale assoluta». L’essere umano poteva essere talvolta un ginocchio, talvolta un cuore o un piede. Poteva anche essere urina, cibo, sperma o idea. Se abbandonassimo ogni pensiero e dogma religioso, constatava, scopriremmo che sarebbe in realtà possibile fare un’esperienza diretta e materiale dell’anima.

Il primo aprile 1945, mentre la Francia si apprestava alla Liberazione, Artaud portava finalmente a termine la sua e rinunciava ufficialmente alla fede cattolica e a tutte le sue convinzioni religiose. Gettando dalla finestra «comunione, eucarestia, dio e il suo cristo», dichiarò che era sé stesso, «cioè semplicemente Antonin Artaud, un incredulo irreligioso di natura e d’animo, che non ha mai odiato niente di più al mondo quanto Dio e le sue religioni». Affrancato da ogni fede, si sarebbe ormai messo alla ricerca di un’anima che potesse essere il corpo e di un corpo che potesse essere l’anima.

Fu allora che donò a Latrémolière L’Uomo e il suo dolore. Contrariamente ai suoi disegni colorati in gran formato, quest’ultimo era un semplice schizzo, spoglio, quasi una caricatura. Raffigurava un uomo che cammina «e che si trascina dietro il dolore come la vecchia fosforescenza dentaria della cisti delle pene cariate». Uno straccio bianco cingeva, come se fosse un cappuccio, la guancia resa gonfia dall’accesso e la testa stessa, nel suo insieme, assomigliava in realtà a un grosso dente. Nel testo che l’accompagnava, e da cui sono tratte queste citazioni, Artaud sembrava gettare uno sguardo distante sulle proprie sofferenze. Non si lamentava più – al contrario, ora proclamava aalta voce che le sue sofferenze gli appartenevano, poiché la conoscenza acquisita nel dolore si rivelava di gran lunga superiore a qualsiasi speculazione metafisica. «E il chiodo di un dolore dentario, la martellata caduta accidentalmente su un osso dicono di più sulle tenebre dell’inconscio che tutte le ricerche dello yoga».

I diversi dolori illustrati da Artaud nel suo disegno erano quelli di cui soffriva: i denti, persi tutti dopo anni di negligenza da parte delle istituzioni; le coliche con feci macchiate di sangue, delle quali si lamentava spesso a Rodez, primo sintomo di quel cancro al retto di cui sarebbe morto. Il disegno non allude esplicitamente agli elettroshock, ma la prima cosa che Artaud menziona è il dolore dorsale, del quale non smetterà di lamentarsi fino alla fine: «Nella schiena abbiamo vertebre piene, scrive, trafitte dal chiodo del dolore». [10] L’uomo ha la schiena rotta ad angolo acuto e tutto il corpo smembrato in un accatastarsi di scatole una sull’altra, ciascuna sostenuta da enormi chiodi. Sarebbe questo il risultato di una caduta «accidentale» su un osso, così come sosteneva? L’allusione doveva essere perfettamente chiara per entrambi. In realtà, la postura dell’uomo nel disegno sembra corrispondere esattamente alla descrizione che lo stesso Latrémolière fece, nel suo trattato, dell’«incidente» accaduto durante la prima serie di elettroshock. «Dalla seconda seduta, parla di vaghi dolori dorsali, che diventano violenti al risveglio della terza crisi […] lo costringono, quando cammina, a mantenere una postura irrigidita, con il torace spinto in avanti». L’uomo nel disegno era raffigurato in questa stessa posizione, il torace proteso, che si trascina dietro «tutte le coliche dei suoi chiodi» di dolore come se fossero altrettanti sacchi. Sembra camminare, ma potrebbe anche benissimo essere immobilizzato a letto, «inchiodato a letto», come si suol dire, con la costola rotta, le braccia lungo il corpo, la bocca sigillata e crocifisso dalla sofferenza.

Latrémolière aveva una sua interpretazione personale. Attirava l’attenzione sulle forme femminili appese al corpo dell’uomo, quelle parti arrotondate di morbide carni, erotiche, che pendevano da una parte e dall’altra della colonna vertebrale. Un altro sacco, chiazzato, maculato di rosso, penzolava più in basso all’estremità di un cordone. Artaud lo identificava con i muscoli dolorosi dell’uomo, mentre Latrémolière persisteva a vederci una placenta e una evidente allusione alla bambina appena messa al mondo da sua moglie. Accanto a questa «placenta», si poteva notare in effetti, sulla sinistra del disegno, un personaggio minuscolo assomigliante a un feto che precipitava a testa in giù. Solo che questo bambino era la replica esatta, ma capovolta, dell’uomo: stessa postura rotta in due, stessa bocca sigillata dal dolore. Anche questa volta, è possibile che Latrémolière abbia proiettato le proprie preoccupazioni sul suo paziente: l’omuncolo non era Artaud ansioso di divenire il figlio del medico, o sua moglie – l’omosessualità si esibiva come impotenza – ma Artaud rinato dalla sua sofferenza.

Questo disegno insomma parlava chiaro e tondo del dolore e non è un caso che Artaud lo abbia regalato proprio a quell’uomo, suo amico, che si ostinava a negarne l’evidenza. Eppure, in quel momento, Artaud non era più del tutto lo stesso (per quanto mai fosse stato lo stesso in due momenti diversi della sua vita). Ora vedeva la sua esperienza della sofferenza nell’insieme sotto una luce diversa, come un aspetto di quella che era diventata la sua missione in terra: liberare il corpo e la sua abietta libido organica dal sortilegio dell’incorreggibile massa umana.

Dopo aver rinunciato a Dio, le accuse contro la società si fecero più stridenti e amplificate da una forsennata avversione contro la psichiatria. Il corpo miracolato che intendeva fabbricare esigeva non soltanto che fosse disfatta la configurazione degli organi fraudolentemente impiantati, ma che anche il corpo sociale fosse «disorganizzato» totalmente. Tutto questo non andava senza un certo pericolo e nel 1947, ritornato a Parigi, ad Artaud non fu affatto difficile identificare il destino sinistro di Van Gogh con il proprio. Gliene diede occasione una grande mostra su Van Gogh appena iniziata al museo dell’Orangerie, ma quello che mandò Artaud su tutte le furie fu un articolo scritto da uno psichiatra sull’opera del pittore pazzo. Che l’autore fosse medico rappresentava già una tara agli occhi di Artaud. Intollerabile era, tuttavia, che quest’uomo osasse dare a Van Gogh dello «psicopatico degenerato». Rivivendo per procura la propria esperienza a Rodez, Artaud tentò immediatamente di celebrare Van Gogh, il suicidato della società in uno splendido saggio in cui analizzava passo dopo passo i mezzi anche insidiosi con i quali gli psichiatri riuscivano – non solo con l’elettroshock dunque – ad annientare la mente dei loro pazienti. Ferdière non era forse un altro dottor Gachet, lo psichiatra che aveva curato Van Gogh e che si era spacciato per suo amico quando invece lo detestava perché era un artista geniale?

All’inizio, Artaud aveva celebrato in Ferdière un’anima gemella, ma non ci volle molto perché il padre putativo e il poeta fraterno si trasformasse ai suoi occhi in un personaggio fatale, un «porco» e un eroinomane, geloso del genio del suo paziente. Più tardi, da Ivry, Artaud scrisse a sua sorella: «A volte nella vita, mentre in superficie si spinge uno scrittore a rimettersi a scrivere, risalgono invece gelosie dalla cattiveria dell’inconscio» (lettera del 3 aprile 1946). Accadde anche con il dottor Gachet che si era coalizzato con la società fino a condurre Van Gogh al suicidio. Come Artaud, Van Gogh era una persona casta e si era appena disfatto della «magia civica» quando fu punito spietatamente dalla società. L’automutilazione dell’artista quindi assume tutto il suo significato: Van Gogh si bruciò la mano, si tranciò l’orecchio e si sparò un colpo in pancia, mosso non dal senso di colpa ma dal desiderio di sottrarre il proprio corpo alla società.

Artaud non si dimostrò certo tenero nei confronti del dottor Ferdière, ma riservò gli attacchi più feroci contro un certo «Dottor L.», dandogli della creatura vile e dell’«ignobile porco»… È difficile immaginarsi qualcuno che si precipiti per rivendicare l’identità di questo fantomatico dottor L. Ma si sottovaluterebbe fino a che punto fosse impulsivo Latrémolière. Chi altri poteva essere questo dott. L. – si disse – se non lui, e ci andò per le spicce. Si affrettò a dissipare ogni equivoco possibile su questa identificazione scrivendo un testo dove in epigrafe appose una citazione tratta proprio dal Van Gogh di Artaud che biasimava lo «stupro immondo» del dottor L.:

Mi basta mostrarla come esempio, dottor L.,

ne porta il marchio sul muso,

razza d’ignobile porco.

Il resto del brano, che Latrémolière non ritenne opportuno di riportare, non era certo meno ingiurioso:

Se nel coito non è riuscito a chiocciare con la glottide come lei sa e a gorgogliare nello stesso tempo con la faringe, l’esofago, l’uretra e l’ano, non può dirsi soddisfatto.

E nel suo sussulto organico interno ha preso una certa piega che è la testimonianza incarnata di uno stupro immondo, e che coltiva di anno in anno, sempre più, perché, socialmente parlando, non è punibile a termini di legge, ma lo è a quelli di un’altra legge dove a soffrire è tutta la coscienza lesa, perché comportandosi così le impedisce di respirare.

Taccia di delirio la coscienza che lavora, mentre, d’altra parte, la strozza con la sua ignobile sessualità.

Forse ci sarebbe voluto di più per dissuadere il buon dottore dal proclamare a voce alta: «Sono il Dott. L.». E aggiunse sarcasticamente, parlando di Artaud come di un amico: «Quest’apostrofe costituisce l’ultimo messaggio personale che mi abbia rivolto Artaud da vivo». Ciò richiedeva probabilmente qualche spiegazione, ma Latrémolière non si lasciò intimidire da questo compito scorraggiante: «Non oso definirmi suo amico – riconobbe – Dovrei rivedere il significato dell’amicizia e prendere Antonin Artaud per un uomo di gran cuore. Cosa che non era. La parola amico, nei suoi confronti, è diventata tuttavia di un’incredibile banalità». [11]

In una nota a piè di pagina, Latrémolière riconosceva esserci qualche elemento sconcertante. In effetti, la curatrice di Van Gogh, il suicidato della società, Paule Thévenin, ritenne opportuno di negare, in una nota, che questo «Dottor L.» fosse il dott. Latrémolière. Artaud l’aveva rassicurata del contrario, scrisse. Mirava a un altro medico. Paule Thévenin non arrivò al punto di farne il nome. Fu abbastanza perché Latrémolière ci vedesse una smentita diplomatica. Aveva buone ragioni per sapere, nel proprio intimo, quale fosse la verità. Chi avrebbe potuto dubitare anche solo per un secondo, dopo le loro interminabili discussioni a Rodez, che Artaud non lo prendesse per un accanito seguace dell’accoppiamento coniugale, un peccatore irremissibile? Non che questo addolorasse poi tanto Latrémolière. Era pronto a subire l’insulto da buon cristiano. E, in fondo, un insulto è proprio così offensivo quando vi offre una possibilità di esistere pubblicamente? Ferdière, quanto a lui, era stato il bersaglio costante dei nuovi amici di Artaud, i quali, invece, avevano sistematicamente ignorato Latrémolière. Ora, non è stato proprio Latrémolière ad avere somministrato con le proprie mani ad Artaud quegli elettroshock che hanno fatto protestare tutti con veemenza? In un certo senso, Artaud stesso, con le sue accuse ingiuste, ovviava a questa ingiustizia. Latrémolière non era certamente uomo da farsi sfuggire un’occasione simile. «Siccome non ne rivela il nome – scriveva a proposito della nota di Paule Thévenin – continuerò a vantarmi di questi epiteti di cui conosco l’origine e per i quali non conservo il minimo rancore». È così che, diffamato e trascinato nel fango, questo dott. L., alias Latrèmolière, venne a occupare una posizione di primo piano. Il fatto che un critico si spostasse da New York a Figeac, dove abitava, per parlare con lui di Artaud – mai nessuno prima si era preso la briga d’interrogarlo a questo proposito – gli confermava che era giunta la sua ora.

All’epoca della mia prima visita, nel luglio 1983, ignoravo che Latrémolière si proclamasse l’infame dottor L. Il numero speciale de La Tour de Feu su Artaud che possedevo non conteneva l’articolo di Latrémolière, Ho parlato di Dio con Antonin Artaud, il suo unico titolo di gloria, che fu aggiunto in una riedizione ulteriore.

Mi mancava un elemento essenziale per comprendere l’ostilità manifestata dal medico durante il nostro colloquio nei confronti del suo vecchio amico e paziente. È stato solo dopo che mi sono anche reso conto che Latrémolière aveva divorato l’intera opera di Artaud e si era trasformato in uno specialista di questo autore al solo fine di scoprirvi altri oltraggi, stuzzicato dall’interesse di cui era oggetto e, al tempo stesso, indignato da quello che considerava un tradimento da parte di un amico.

Ma il punto dolente è che quel «Dott. L. non era il dottor Latrémolière». Me l’ha assicurato categoricamente Paule Thévenin quando l’ho rivista a Parigi. Artaud le aveva confidato che si trattava del dottor Jacques Lacan.

I protagonisti di questo piccolo dramma, Antonin Artaud, il dott. Ferdière, il dott. Latrémolière, Paule Thévenin, il dott. Lacan, sono tutti scomparsi e davvero non c’è più ragione di mantenere il nome segreto. Oggi, Jacques Lacan ha acquisito una celebrità mondiale, non come medico «erotomane» certo, ma in quanto maestro di tutta una generazione, una personalità infinitamente più controversa di quel povero dottor Latrémolière che Ferdière mi dipingeva in via confidenziale come «un animo turbato». Affascinante, burbero, arrogante, il «Dott. L.» era un autocrate e un genio a modo suo, riverito nel suo paese e celebrato spesso, dai suoi discepoli americani, come il «Freud francese».

Non mi sono sentito di rivekare tale verità a Latrémolière, quando sono tornato a fargli visita, esattamente due anni dopo, a Figeac, sonnolenta cittadina del sud della Francia famosa per il suo vino e situata a mezzora di distanza da Rodez. E neppure di divulgarla nello scambio di lettere un po’ rude che ho avuto nel frattempo con il dott. L.

Anche Jacques Lacan, come Ferdière, aveva gravitato nell’orbita dei surrealisti senza mai veramente appartenere al gruppo. Verso la fine degli anni Venti, esercitava all’ospedale Sainte-Anne di Parigi, dove si accostò all’arte dell’«osservazione psicanalitica rapida». La tesi di medicina su La Psicosi paranoica nelle sue relazioni con la personalità che sostenne nel 1932 fu celebrata come uno studio rivoluzionario sia dalla nuova generazione di psichiatri francesi sia dal gruppo surrealista, di cui aveva appunto fatto parte Artaud fino al 1928. In quell’epoca, l’ambiente psichiatrico francese si ostinava a sottovalutare Freud, e Lacan fu, con i surrealisti, il primo a interessarsi al suo lavoro. Ma contrariamente a quanto si è sempre creduto, i testi fondatori di Salvador Dalì sul «metodo paranoico-critico», nei quali lo stesso André Breton vedeva la formulazione definitiva della filosofia surrealista, non s’ispiravano allo studio di Lacan: piuttosto l’inverso.

Fu in qualità di specialista della paranoia che il «Dott. L.» esaminò Antonin Artaud a Sainte-Anne nell’aprile 1938, dopo che il malato vi era stato trasferito da un ospedale della regione di Rouen con una diagnosi che gli imputava «idee deliranti di persecuzione con timori di avvelenamento». La scheda compilata al Sainte-Anne precisava che soffriva di «sortilegio magico che violenta il linguaggio e il pensiero, e lo ostacola. Doppia personalità». Erano esattamente i sintomi che Artaud aveva descritto con una precisione stupefacente nelle lettere a Jacques Rivière e che avevano convinto Breton nel 1923 a invitare il giovane scrittore a unirsi al gruppo surrealista. Secondo Roger Blin, l’attore che divenne un discepolo e un grande amico di Artaud, Jacques Lacan, in ospedale, consacrò ad Artaud solo una rapida visita. Lo trovò in ottima salute e stimò che lo sarebbe stato fino a ottant’anni, giudicando il suo stato mentale irreversibile.

Che Artaud abbia dato al «Dott. L.» dell’«erotomane» appare piuttosto ironico. È vero che, in gioventù, il celebre psicanalista aveva fama di dandy e di donnaiolo, proprio come il suo arzillo compare e seduttore incallito, Louis Aragon, il «paesano di Parigi». Lo accenna brevemente la biografa di Lacan, Elisabeth Roudinesco. Ma, a dire il vero, in questo non c’era niente che uscisse dall’ordinario, per lo meno agli occhi di una persona comune, ciò che Artaud, però, non era. Jacques Lacan, sempre molto elegante, era sicuramente un mondano. Inoltre, si era sposato più volte ed ebbe in seguito un figlio fuori dall’unione coniugale, in ogni caso fuori dalla propria, con la moglie di Georges Bataille, il che turbò parecchio il gran legalista che era in lui e lo avrebbe condotto successivamente, dà a intendere Roudinesco, a forgiare uno dei suoi concetti più dibattuti, il «Nome-del-Padre», quel nome che era per l’appunto negato al proprio figlio. Ma tutti questi pezzi messi insieme non saprebbero giustificare l’epiteto di «erotomane». Non ci voleva tanto, tuttavia, agli occhi di Artaud per fare di chiunque un mostro sessuale, come ben sa il povero Latrémolière, senza per questo farne il misterioso «Dott. L.».

L’ironia di quest’accusa risiede però altrove: nel primo titolo di gloria di cui si sia vantato il dottor Lacan. Giacché l’erotomania è appunto la nozione che Lacan, nel suo studio sulla paranoia, aveva ripreso dalla psichiatria francese classica (Clérambault) per appropriarsene. C’era una sorta di giustizia poetica nel fatto che la replica furibonda del paziente Artaud – a meno che non fosse un umore impercettibile, e passato del tutto inosservato – ritorcesse contro lo psichiatra uno dei suoi concetti emblematici. Per anni, Artaud aveva collaborato con il dottor Edouard Toulouse, lo psichiatra specializzato nei geni precoci a cui era stato affidato dai genitori quando era andato a vivere a Parigi. Artaud conosceva a fondo la terminologia psichiatrica ed era perfettamente in grado di descrivere i propri sintomi come uno specialista, il che gettava nello stupore i suoi corrispondenti e gli psichiatri. Come avrebbe potuto quindi essere pazzo, quest’uomo che era così ben informato del proprio stato? Senza dubbio Artaud sapeva cosa stava dicendo quando dava a Lacan dell’erotomane.

L’erotomania confermava anche l’interpretazione freudiana classica della paranoia come omosessualità repressa, che Latrémolière aveva implicitamente ripreso nella sua analisi del disegno di Artaud. Altri psichiatri hanno cercato nella stessa direzione una spiegazione allo straordinario orrore manifestato da Artaud nei confronti della donna. Il dottor René Allendy, un eminente psichiatra che l’aveva aiutato a fondare il teatro Alfred Jarry e che lo conosceva intimamente, dichiarò ad Anaïs Nin che Artaud era omosessuale. È anche vero che a quell’epoca, all’inizio degli anni Trenta, Allendy era l’amante di Anaïs Nin ed è possibile che abbia tentato di dissuaderla dal lasciarsi incantare troppo dall’affascinante attore. Latrémolière, quanto a lui, metteva in causa l’impotenza e don Julien un’educazione religiosa troppo rigida, ma questa sembra essere di gran lunga la risposta meno plausibile. Ovviamente non lo sapremmo mai, e del resto perché dovremmo cercare di saperlo? L’importante è che Artaud sia riuscito a trasformare la sua esecrazione della «maculata concezione» in una potente requisitoria contro Dio e la società, in una insurrezione poetica contro la vita così com’è.

Il dottor Latrémolière non era un poeta, nemmeno un poeta minore come il dottor Gachet o il dottor Ferdière, ma si considerava di certo come tale. Altrimenti, perché avrebbe iniziato il suo articolo dichiarando piuttosto incongruamente che era «un medico cristiano amante della poesia», prima di citare alla rinfusa, come se fossero tanti suoi ispiratori, Villon, il re David, Ronsard e Salomone? La Tour de Feu non aveva chiesto al buon dottore di fare poesia, ma giusto d’inveire contro Artaud e la sua genia, eppure si era comportato come se il mondo avesse vissuto solo nell’attesa della sua parola: «Sono consapevole, ma molto umilmente, scriveva, di essere ispirato da cinquemila anni di storia e di cultura umana». Il dottor Ferdière non aveva poi tutti i torti di pensare che Latrémolière avesse qualche problema. Il nostro incontro a Figeac ebbe a quanto pare un effetto elettrizzante sulla sua vita. Di punto in bianco, smise di parlare di pensione e fece un completo voltafaccia. Si lanciò in una frenetica attività facendo della sua testimonianza su Artaud una sorta di testamento indirizzato al mondo. Nella lettera che m’inviò a New York il 13 febbraio 1985, esultava: «Sto scrivendo un volume molto audace: A. A. tel qu’en lui-même!».

L’indomani ancora, mi giunse un’altra lettera in cui diceva di aver ricevuto la trascrizione della nostra conversazione: «la relazione del nostro combattimento – che ha appassionato anche me». Vi era allegata una copia del suo articolo su Artaud e Dio. «Credo che le interesserà, scriveva, ma le prometto che il mio libro la stupirà».

Quindici giorni dopo, senza preavviso, ricevetti una sua lettera dal tono molto secco riguardante l’intervista che aveva fatto alla signora Malaussena, la sorella di Artaud, e che avevo incluso nella trascrizione del nostro dialogo, dal momento che me l’aveva fatta ascoltare durante quella seduta molto animata e che l’avevo ovviamente registrata. Si era accorto solo allora che l’intervista avrebbe fatto parte della versione ufficiale del nostro colloquio. Ora, quell’intervista, affermava, non aveva alcun senso nel contesto generale del suo libro e gli sarebbe dispiaciuto molto se ne avessi fatto uso. Sarebbe stato commettere, diceva, «un vero e proprio stupro».

Sospettavo già vagamente che la sua intervista alla sorella di Artaud non fosse del tutto attendibile. Latrémolière vi si mostrava più ingenuo di quanto non fosse allo scopo di suscitare nella sua interlocutrice reazioni che rasentassero il ridicolo. Non si trattava tanto, come avevo creduto, di una commedia dell’ingenuità quanto del teatro della crudeltà. Eppure, l’idea d’incastrare i due colloqui in un solo testo, come una sorta di matrioska, mi era parsa una costruzione drammatica interessante. Inoltre, avrebbe riflesso esattamente quello che era successo tra noi. Gli risposi subito, ma le nostre lettere, per l’ennesima volta, s’incrociarono. L’indomani ricevetti dal dottore una missiva, furiosa, ancora più maniacale: «Caro signore, lei è un imbroglione, intellettualmente e materialmente. Le proibisco di utilizzare questo testo prima della pubblicazione del mio libro…». Gli espressi la mia sorpresa di fronte a quegli sbalzi d’umore. «Sono un amico o un imbroglione? Che idee si è fatto su di me? Non penso di aver fatto nulla che meriti le accuse che lei mi rivolge, e che sono probabilmente una reazione di rabbia o di ansia da parte sua. Ma qui nessuno è un perseguitato. Per quanto riguarda il suo dialogo con la signora M., non l’ho trascritto in vista di una pubblicazione, ma perché faceva parte integrante di quel piccolo dramma espressivo che abbiamo vissuto insieme e di cui conservo un ricordo assolutamente caloroso».

Il 5 aprile 1985, Latrémolière mi scriveva una lettera in cui batteva chiaramente in ritirata: «Caro amico, se collera c’è stata, era santa e si è subito dileguata: nessun’ansia, né paranoia, grazie. Ho terminato il libro, cerco un editore. Mia figlia lo sta battendo a macchina: tutto si svolge in famiglia a causa del segreto, affinché nulla fuoriesca: lei sa cosa deve fare – non potevo aspettarmi di più dalla sua onestà e non l’ho mai creduta capace di una violazione […] D’accordo per la sua visita».

Ho incontrato il «Dott. L.» per l’ultima volta a Figeac nel luglio 1985. Il suo ufficio risuonava, come una chiesa, di una musica liturgica che stava provando con il registratore per una messa. Abbassò il volume quando entrai in compagnia di mia moglie, Chris Kraus, ma diversi «Alleluia!» trionfanti non smisero di accompagnare la voce di un officiante sullo sfondo della nostra conversazione.

Lo psichiatra mi porse il suo manoscritto. Cominciai a leggerne l’introduzione: «Ho deciso di non inserire la nostra conversazione nel mio testo poiché certi ragionamenti in forma di gioco mi offendono. Una recente telefonata di Sylvère Lotringer nel 1985 dimostra che non si rende conto della nostra opposizione, ma che comunque mi stima un po’. La mia risposta è la decisione stessa di far pubblicare questo testo qualsiasi cosa accada, peggio per me, e per lui. È anche il mio giudizio su Artaud».

Sfogliai rapidamente il manoscritto per arrivare alla conclusione. «La fine è un po’ cattiva», disse con evidente soddisfazione. «Ho cambiato il titolo del mio libro. L’Abbandonato di Dio? Perché no?».

Emisi un vago grugnito: l’idea non era poi così sbalorditiva.

«Ecco. Con un punto interrogativo, naturalmente».

«E perché?».

«Perché non lo so. C’è anche l’inferno, non è vero? Forse sa che in un paese slavo la Vergine Maria è apparsa a sei ragazzi e ragazze. Gli ha detto: “Guardate l’inferno”. E li ha portati all’inferno. Non sono mica dei piccoli nevrotici, sa, è una vera e propria apparizione, come a Lourdes. Mi è sembrato necessario. Ha detto che la Russia sarebbe diventata di nuovo…»

«Una grande terra cattolica? – anticipai ­- Ma non ha mai smesso di esserlo».

«Certo. Ma non c’è stato amore alla fine della vita di Artaud».

«Intende dire che Artaud fosse pieno di odio?».

«Le farò un sermone, peggio per lei».

«Adoro i sermoni».

«Vado a messa tutti i giorni. E la nostra gioia è quella di ricevere il corpo di Cristo e il sangue di Cristo, perché la comunione significa entrambe le cose. La nostra gioia è nel Cristo. Quella di Artaud era… nell’oppio. Eppure, Marie-Ange ha detto: “Era un ragazzo molto credente, contrariamente a ciò che dice la gente. Ho l’impressione che, nonostante tutto, la sua fede in Dio abbia resistito a tutto”».

Così terminava il suo libro. Non è mai stato pubblicato, che io sappia, e forse non è mai stato ultimato, malgrado il fervore dei familiari. Il dottor Latrémolière è morto qualche anno dopo, così come Paule Thévenin, Marthe Robert, le sue amiche parigine, i suoi giovani discepoli… Mi capita di chiedermi se lo stesso Latrémolière sia entrato nel regno di Dio, se abbia incontrato Artaud nella vita eterna, o se sia rimasto anche lui nei limbi ad attendere qualche ombelico, come Artaud. Il buon dottore avrebbe accettato di parlare nuovamente di Dio con Antonin Artaud, se si fosse presentata l’occasione?

Qui metto, a mia volta, un grosso punto interrogativo.

Dio solo può saperlo.

[Traduzione di Giuliana Prucca]

Note

[**] Tratto da Fous d’Artaud, Sens & Tonka, Paris 2003 (traduzione italiana e cura di Giuliana Prucca: Pazzi di Artaud, Medusa, Milano 2006) La redazione ringrazia Sylvère Lotringer per l’amicizia e l’autorizzazione a riprodurre il testo.

[1] Su questa vicenda cfr. Marco Dotti, La cifra nera, in appendice a Bernard Noel, Artaud & Paule, a cura di Lucetta Frisa, Joker edizioni, Genova 2005.

[2]Marie-Ange Malaussena, “L’affaire Artaud: ce qu’il faut savoir”, in La Tour de Feu, n. 136, edizione rivista e aggionata, dicembre 1977.

[3] Isidore Isou, Antonin Artaud, torturé par les psychiatres; Maurice Lemaître, Qui est le Docteur Ferdière, Éditions Lettristes, Paris 1970.

[4]Lettera di Desnos a Ferdière, in La Tour de Feu, cit., p. 27.

[5] Ibidem.

[6] La Tour de Feu, cit., p. 87.

[7] La Tour de Feu, 136, cit., p. 86.

[8] Cfr. “Economie de guerre, premiers électrochocs”, Recherches, n. 31 (febbraio 1978).

[9] La Tour de Feu, cit., Lettera del 6 gennaio 1945.

[10] Antonin Artaud, Œeuvres complètes. Cahiers de Rodez (février-avril 1945), a cura di Paule Thévenin, Gallimard, Paris 1974, t. XIV, p. 46.

[11] La Tour de Feu, cit., p. 81.