I fatti, la Libia. Intervista con Paolo Sensini
Marco Dotti
«Diecimila morti e almeno cinquantamila feriti in Libia». È 17 febbraio 2011 e questo messaggio postato su twitter dalla tv satellitare Al Arabiya – che dichiara di riprendere una dichiarazione da Parigi di Sayyid al-Shanuka, fantomatico membro libico della Corte Penale internazionale – fa il giro del mondo. Come il classico sasso lanciato in uno stagno produce cerchi sempre più grandi, la notizia si amplifica, genera rabbia, suscita sdegno produce riprovazione e offre agli interessati il principale argomento per riunire il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Non fa, al contrario, il giro del mondo e non smuove coscienze il comunicato stampa con cui la stessa Corte Penale internazionale categoricamente smentisce che «il signor al-Shanuka sia in alcun modo membro o consulente della Corte». Nell’aprile scorso, Paolo Sensini ha intrapreso un viaggio assieme a un gruppo di ricercatori di una commissione non governativa (The Non-Governmental Fact Finding Commission) per la ricerca e verifica dei fatti. Ne ha tratto un libro, documentato e impegnato, Libia 2011 (Jaca Book, Milano 2011), uscito nei giorni scorsi, con la prefazione di Giovanni Martinelli, Vescovo di Tripoli. Propaganda e false notizie – come ci ha spiegato lo storico Marc Bloch, in un suo aureo libretto – sono sempre state elementi costitutivi della guerra, di ogni guerra. Oggi, però, si assiste a un cambio di registro. Non fosse che per la velocità di circolazione delle notizie stesse, vere o false che siano. Pensiamo solo al fatto che, nonostante esistessero trentacinque giornali a Parigi, la caduta della Bastiglia impiegò tredici giorni per raggiungere Madrid e, caso di scuola ancora più eclatante, la morte di Napoleone venne data dai giornali inglesi a due mesi di distanza dal “fatto”…
Oggi tutto è just in time, il sistema è inondato da tweet, notizie, informazioni che chiedono solo di essere consumate, senza possibilità che vengano al tempo stesso metabolizzate, analizzate, smontate e rimontate. L’invasione della Libia – a un secolo esatto dalla prima guerra Italo-Libica – rappresenta un caso di specie in tal senso?
Certamente sì. Basti pensare che, nella nullità militare e di fatto dei cosiddetti “ribelli”, l’innesco della guerra contro la Libia è stato originato da alcune menzogne – i diecimila morti, le fosse comuni, i rastrellamenti. Questa guerra, però, è stata condotta con modalità mediaticamente innovative. I mezzi di informazione non sono stati “semplicemente” al fianco dei bombardieri, embedded, sono stati a loro volta, sul piano simbolico e sul piano dell’immaginario, arma di guerra tra le più letali. Si sono “ingaggiati”, arruolati in senso stretto. Questa guerra è stata dunque innescata da menzogne – i diecimila morti, i cinquantamila feriti, le fosse comuni sulle spiagge, i rastrellamenti e via discorrendo –, è stata condotta con altre menzogne e si è conclusa con menzogne ancora più grandi; e il “dopo” è ancora oggi gestito sulla base di sempre nuove menzogne. La Libia è così finita – luogo esemplare di un disastro che ha colto impreparata soprattutto la sinistra italiana, scomponendo radicalmente ogni vecchio criterio di appartenenza – dentro una matassa di bugie intessute su altre bugie difficili da districare. Abbiamo così avuto prova ulteriore di un processo in atto da tempo: quello che porta all’erosione dei fatti non tanto a vantaggio di false notizie, quanto di veri e propri spettri, in questo caso provenienti inizialmente dai due più importanti media del mondo arabo, Al Jazeera e Al Arabiya. Le due televisioni satellitari sono controllate dall’aristocrazia sunnita del Qatar e dell’Arabia Saudita. Non è un caso che proprio il direttore dell’ufficio corrispondenza di Al Jazeera, nonché conduttore di uno dei programmi di approfondimento politico più seguiti nel mondo arabo abbia presentato le proprie dimissioni, lanciando accuse pesanti contro il network. Dimettendosi, Ghassan Bin Jiddo ha osservato che la tv all-news Al Jazeera stava perseguendo una linea editoriale dal doppio binario: nessuna notizia della rivolta popolare esplosa in Bahrein (paese membro del Consiglio di Cooperazione del Golfo, di cui fa parte guarda caso lo stesso Qatar), ma eccessiva copertura, esagerazione nel numero dei morti ed esasperazione nei toni per quanto concerne la Libia. Al Jazeera, ha scritto il suo ormai ex notista politico in una lettera pubblicata dal quotidiano “El Shorouk”, ha «smesso di essere un sogno di oggettività e si è trasformata in una centrale operativa dell’incitamento» a invadere e rovesciare con colpi di Stato i regimi avversi, chiamando questi colpi di Stato “insurrezioni” di popolo.
Lei non è un giornalista, ma uno storico e un filosofo. Eppure, si è mosso, è andato sui luoghi, ha compiuto un’attività di verifica dei fatti, un “fact checking”… Quale è stata la sua prima reazione, dinanzi ai fatti e a una vita non sterilmente rinchiusa in gabbie e cartine geopolitiche?
La prima reazione è stata lo stupore. Quando sono arrivato a Tripoli, me l’immaginavo devastata e distrutta, se non dalle bombe, dalla sua miseria. Tutt’altro. Tripoli è una città di livello molto alto. L’urbanizzazione è umana, lo stato sociale mediamente efficiente, il Pil procapite è di oltre 18.700 dollari, con un costo della vita che è 1/4, quasi 1/5 del nostro. Gli standard della qualità della vita, in Libia, sono addirittura superiori a quelli di otto paesi europei. Quando Gheddafi andò al potere, nel 1969, il tasso di analfabetismo nel paese si aggirava su valori del 94%, oggi l’88% dei libici è alfabetizzato, l’istruzione è gratuita, così come l’assistenza medica. In un momento di contrazione generale del welfare, qualsiasi cosa si possa pensare di Gheddafi, questi sono dati da non sottovalutare o, in ogni caso, da ponderare. Cosa che, mi pare, i media mainstream non hanno fatto. Di questo non si parla, eppure la Libia non è lontana e la maggior parte degli attacchi via aerea sono partiti da basi dislocate in territorio italiano. Tra l’altro – e lo dico da uomo di sinistra – se non fosse stato per un certo tentennamento iniziale di Berlusconi, certe sortite della Lega e, soprattutto, alcuni reportage usciti su “Libero” o “Il Giornale”, noi dell’affaire Libia sapremmo ancor meno… I media mainstream non hanno taciuto, hanno parlato. Nello specifico hanno parlato di fosse comuni, di bombardamenti da parte del Rais e di massacri.
Lei che cosa ha verificato?
Non esistono prove documentarie né testimoniali di quanto affermato dai media, chiamiamoli così, “conformisti”. Per chi legge, si tratta di navigare a vista, tra mezze informazioni e frammenti che di tanto in tanto incrinano lo scenario. A Tripoli, nei giorni successivi ai primi bombardamenti da parte della Nato, ho preso parte ai lavori della Fact Finding Commission on the Current Events in Libya e ho verificato che i veri bombardamenti sono stati i lanci delle Agenzie di stampa. E voci che rilanciavano altre voci che a loro volta amplificavano vecchie e nuove voci in un gioco di rimandi senza alcuna referenza concreta. Per questa ragione ho parlato di spettri. Pensi che la Reuters, l’agenzia di stampa britannica, e Al Jazeera si sono a un certo punto trovate nell’imbarazzante situazione di doversi formalmente scusare per aver spacciato video e fotografie d’archivio come immagini in presa diretta di manifestazioni antigovernative in Libia. Ma oramai quelle immagini stavano rimbalzando per ogni dove, producendo il loro effetto. La decolonizzazione del nostro immaginario deve partire dai fatti, deve ripartire dalle cose e dai luoghi, dalle persone e dalle loro vite, deve ripartire dal passo lungo della storia.
[intervista apparsa sul numero 41 di Vita, ottobre 2011]
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