I nuovi ultimi e il bisogno di comunità
Aldo Bonomi
Mauro Magatti e Mario De Benedittis, I nuovi ceti popolari. Chi ha preso il posto della classe operaia?, Feltrinelli, Milano 2006.
Il dibattito sulla crisi del welfare si è fatto fantasmagorico. Pieno di fantasmi e allegorie. Il fantasma degli ultimi e le allegorie delle prestazioni, per produrre inclusione, animano la scena. Se si pensa che gli ultimi sono ciò che resta della classe operaia e dei salariati che con difficoltà arrivano a fine mese, si immagina la ripresa forte del welfare state. Se si pensa che gli ultimi sono oggi gli utenti-clienti della società della velocità e dello spettacolo si immagina che la potenza del mercato, della privatizzazione e della liberalizzazione dei servizi, permetterà di andare con un volo low cost a Londra a curarsi dal dentista pakistano a basso costo o di avere in casa l’idraulico polacco che arriva subito e ci fa la manutenzione. Se si pensa che gli ultimi sono quelli che hanno, nell’epoca del globale, come unico destino il locale, l’allegoria diventa la voglia di comunità, la comunità come assenza, fatta di ciò che resta della famiglia, del paese, del territorio. Un dibattito che, per dirla con Derrida, evoca gli spettri di Marx e impegna il meglio del pensiero sociologico contemporaneo, da Bauman a Bourdieu, Beck…
Tutti cercano di dare risposta all’interrogativo epocale sul chi ha preso il posto della classe operaia. Sottotitolo del libro di Magatti e De Benedittis, I nuovi ceti popolari: si aggiunge così il tema del chi e del che cosa sia oggi da ritenersi ceto popolare, cioè gli ultimi che stanno nella parte estrema della forbice tra meriti e bisogni. Il libro non dà tutte le risposte, né agli spettri di Marx, né alla questione grande di cosa significa oggi ceto popolare ma scava, partendo da un lavoro di ricerca, nel mondo dei lavori raccontando l’antropologia della globalizzazione sostanziata da spazi aperti ove si lavora e si produce per competere, da una società dell’incertezza ove tutto sembra in rapido mutamento e allo stato liquido e gassoso. Si può far condensa nell’unico spazio che sembra solido e certo: il territorio, le reti corte di prossimità. Questo diviene lo spazio di posizione, e a volte anche lo spazio di rappresentazione (basta aver presente alcune fenomenologie politiche del moderno) nella dinamica dell’ipermoderno caratterizzata da flussi che sorvolano e mutano i luoghi in cui si vive. Comprese le forme dei lavori. Per capirci, sono flussi la finanza, le transnazionali, le internet company, i corridoi europei, le migrazioni che impattano sul territorio con simboli del quotidiano ben noti a tutti come le borse, le banche, le grandi imprese, i consumi, le infrastrutture di comunicazione hard e soft sino agli immigrati. Alla politica e alle istituzioni si chiede di accompagnare i soggetti sociali ed economici e i tanti messi al lavoro in questo incontro, così come nel ‘900 si chiedeva alla politica, alle istituzioni e alla rappresentanza del lavoro e dell’impresa di accompagnare lo sforzo verso il benessere verso l’inclusione che aveva oggetti e fini certi. Oggi i fini sono tutt’altro che certi. Quello che si chiede è quello di abbassare l’incertezza dello spazio aperto da percorrere per “mangiare futuro”.
Il lavoro, nel suo produrre reddito e senso per vivere e rappresentarsi è a tutt’oggi un codice potente di creazione di identità. Gli autori ci fanno notare che non è più solo il lavoro in sé che produce identità ma il consumare, il poter raccontarsi in uno “spazio estetico” per cui occorre avere a disposizione sì un capitale economico, ma anche un capitale sociale, un capitale culturale, un capitale simbolico. Non basta più il “dimmi che lavoro fai e ti dirò chi sei”. Per il lavoro e dal lavoro, nel tempo degli utenti-clienti, ci si aspetta di poter consumare e di attivare le proprie reti di relazione e la possibilità di rappresentarsi in società. Certo per chi non ce la fa a diventare utente-cliente, oltre che lavoratore, partendo dalle reti amiche e di prossimità, da ciò che resta della comunità, dalla famiglia che si fa Spa o che con il suo essere famiglia allargata fa da base primaria per il capitale relazionale, c’empre il sindacato che continua ad avere un forte ruolo per la tutela degli ultimi. Ma la questione riguarda come il welfare state possa produrre non più e non solo reti di protezione, ma anche capitale sociale e capitale culturale. La tesi forte del libro roprio in questa rivisitazione sostanziata da un solido tentativo concettuale di tenere assieme i tre modelli di welfare, quello di territorio e di prossimità, quello del mercato e delle opportunità e quello dello Stato. Tesi innovativa nel mettere in mezzo tra Stato e mercato anche il bisogno irrisolto di nuove forme di comunità e di mutualismo sempre più attuali in un mondo in cui il lavorare e il vivere si caratterizzano per l’attualità di ciò che in parte ci pareva completamente superato dalla modernità.
[da Il sole 24 ore, inserto culturale della domenica, 25 giugno 2006]