philosophy and social criticism

Il demone di Tronti

Damiano Palano

«Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione […] entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza. […] Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di altre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da poter essere risolto soltanto con la violenza. Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può trasformarsi in un conflitto insanabile».

Sfogliando le seicentocinquanta pagine del Demone della politica – la corposa antologia, curata da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M.H. Mascat, che raccoglie alcuni dei lavori più importanti stesi da Mario Tronti dal 1958 al 2015 (Il Mulino, pp. 656, euro 46.00) – è quasi inevitabile tornare alle parole che Max Weber pronunciò nella sua celebre conferenza del gennaio 1919. Perché non c’è dubbio che il «demone della politica» sia costantemente presente in ogni pagina di Mario Tronti, dai suoi primi scritti apparentemente teorici fino ai lavori più recenti, pur dominati dalla disillusione e persino da una forma di «disperazione teorica». Non c’è infatti nessuna pagina di Tronti in cui la motivazione e gli obiettivi non siano – più o meno scopertamente – politici. Anche se la politica cui pensa Tronti è una «grande politica» che non ha nulla a che fare con il querulo battibecco che – nella quotidianità delle nostre democrazie d’inizio millennio – siamo soliti chiamare (fin troppo generosamente) «politica».

Anche di recente Tronti ha d’altronde rifiutato l’etichetta di «intellettuale», preferendo definire se stesso – più che come un pensatore politico – come un «politico pensante». La logica del suo percorso può essere in effetti considerata – ma probabilmente non è così eccezionale, almeno per ciò che concerne la filosofia politica – come l’esatto inverso rispetto a quella indicata nell’undicesima tesi su Feuerbach. «I filosofi hanno solo diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo», aveva scritto il giovane Marx. Per Tronti la scelta della riflessione teorica è invece in larga parte proprio la conseguenza dell’impossibilità politica della trasformazione. E se ne può trovare probabilmente una conferma rileggendo i suoi testi, che i curatori del Demone della politica organizzano in quattro sezioni, corrispondenti a quattro fasi di pensiero distinte: «Il punto di vista (1958-1967)», «Il politico e il movimento operaio (1968-1984)», «Realismo e trascendenza (1985-1998)», «Pensare il Novecento» (1999-2015). Si può forse discutere sulle scansioni individuate dai curatori, ma la periodizzazione che propongono rimane comunque la più calzante, anche perché consente di cogliere come la riflessione trontiana scaturisca – di volta in volta – da differenti istanze ‘politiche’, che sono dapprima la critica della linea del Pci (seppur da una posizione che non è mai davvero esterna) e il tentativo di ridefinirne dall’interno la strategia politica, e che poi diventano invece la ricerca di un varco nella crisi del socialismo reale capace di ricondurre a una nuova trascendenza politica.

 

In occasione dell’uscita del Demone della politica, martedì 6 marzo 2018 (ore 21.00), alla Casa della Cultura di Milano (Via Borgogna 3)Mario Tronti e Massimo Cacciari si confronteranno sui nodi di un percorso teorico e politico che ha attraversato l’Italia degli ultimi sessant’anni.

L’interpretazione della logica del percorso di Tronti è al centro da molti anni di discussioni intense, in cui il peso di Operai e capitale finisce quasi sempre col risultare teoricamente e politicamente soverchiante. Da decenni, chi rimprovera a Tronti il ruolo di «padre dell’operaismo italiano» considera infatti tutta la sua intera riflessione segnata da questo stigma indelebile e dalle conseguenze che ne sono derivate. Mentre chi si erge a custode della purezza del paradigma, non può perdonare il ‘tradimento’ teorico da parte del ‘fondatore’. Un simile dibattito – per quanto ripetitivo – è intellettualmente più che legittimo. Ma in questo modo si finisce inevitabilmente col rifiutare di confrontarsi davvero con Tronti, chiudendo ogni interpretazione all’interno di uno schema predefinito e risalente per molti versi al principio degli anni Settanta. Lo scopo dell’antologia è invece – come scrivono i curatori nell’Introduzione – «rileggere la traiettoria intellettuale di Tronti, dalla fine degli anni ’50 fino ai giorni nostri, restituendo profondità storica ai diversi passaggi che la scandiscono e rendendo nuovamente disponibili scritti quasi mai ripubblicati e quindi scarsamente fruibili». E l’ambizione è dunque «di offrire un’immagine quanto più completa possibile dell’itinerario dell’autore, segnalandone continuità e discontinuità, senza per questo pretendere una coerenza assoluta della traiettoria trontiana o, inversamente, sviluppare una critica serrata di ogni suo passaggio». La convinzione di Cavalleri, Filippini e Mascat è infatti che «lo ‘sguardo lungo’ sull’intero percorso sia condizione imprescindibile per valutarlo criticamente».

Il Demone della politica – ospitato nella collana «XX Secolo», diretta da Alberto De Bernardi e Carlo Galli – potrebbe riaprire la discussione su Tronti, o rimettere in circolazione le sue tesi più scomode, come quasi mezzo secolo fa avvenne per la celebre silloge di scritti schimittiani Le categorie del ‘politico’, curata da Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera. Anche per questo, ognuno si può accostare al volume dalla propria prospettiva, seguendo il filo di pensiero che ritiene più proficuo e stimolante.  Ma forse un modo per tornare oggi, con occhi diversi da quelli del passato, a leggere Tronti – e dunque lo stesso ‘giovane Tronti’ – può consistere nel ripartire dai suoi approdi più recenti, che sono anche approdi fortemente autocritici.

In una conferenza del giugno 2015, Tronti evocava alcuni appunti di Musil, nei quali l’autore dell’Uomo senza qualità parlava del progresso come di qualcosa di molto simile a sogno. «Tu sogni di stare a cavallo, il cavallo cammina, perché la bestia non si ferma mai. E allora il sogno diventa un incubo. Il Progresso ha senso solo se ha una fine. Se non ha una fine e, aggiungo io, se non gli dai una fine, diventa privo di senso. Per andare dove? Per fare che cosa? La vecchia domanda vuole una nuova risposta» (M. Tronti, In nuove terre, per antiche strade, Lectio tenuta in occasione dell’assemblea annuale del Centro di Riforma dello Stato, 11 giugno 2015). Proprio contestando l’immagine di quel progresso senza fine, destinato a tramutarsi in un incubo, Tronti rivendicava per sé la formula di «rivoluzionario conservatore»: una formula che era certamente una provocazione per respingere la qualifica di «riformista democratico», ma che era anche una vera dichiarazione programmatica, capace di riassumere un atteggiamento verso il mondo e, soprattutto, la logica del passaggio dalla critica di società alla critica di civiltà che segna il tratto più recente del percorso trontiano.

Quando si definisce «rivoluzionario conservatore», Tronti intende infatti enfatizzare la propria critica all’intera tradizione del movimento operaio.  Nelle pagine di Dello spirito libero, ha scritto per esempio, a proposito dell’Ottobre sovietico, che la rivoluzione «non era un evento escatologico» e che «non preparava una ricetta per la cucina dell’avvenire». Era piuttosto «un tentativo, disperato e riuscito, di trattenere un brutto presente invadente, fermare la guerra, trovare un rimedio alla fame dei contadini, una risposta alla fatica sfruttata degli operai». La sua sconfitta fu dovuta così all’aver ceduto alla logica della modernizzazione e non all’incapacità di tenere il ritmo dello sviluppo capitalistico. Il principale errore che Tronti oggi imputa a Marx e all’intero movimento è infatti di aver coltivato l’illusione di poter inseguire il capitale sul terreno della modernizzazione. «Il movimento operaio ha sbagliato quando ha seguito il Marx apologeta della borghesia, e ha individuato la strada quando ha seguito il Marx critico dell’economia politica». Perché come ha scritto: «Non si può essere più moderni del capitalismo» (M. Tronti, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Il Saggiatore, Milano, 2015).

La critica che oggi il «rivoluzionario conservatore» Tronti indirizza al movimento operaio e al marxismo è ovviamente anche un’autocritica, che coinvolge retrospettivamente la stagione operaista. «Il limite dell’operaismo», si legge sempre in Dello spirito libero, «è stato l’essere marxiano per eccesso», e «il dover essere sempre assolutamente moderni, in quella scuola di formazione radicalmente antagonista, è risultato alla fine un atto subalterno». E si tratta d’altronde di un’autocritica che Tronti ha già delineato da tempo. In Noi operaisti aveva suggerito infatti di riconoscere già nel corpo dell’operaismo degli Sessanta una sorta di ambivalenza genetica, definita dalla contestuale presenza di una tensione «escatologica» e di una vocazione «katecontica». «L’operaismo, mentre si esprimeva, prima metà Sessanta, aveva un segno escatologico: non si proponeva certo di concludere al meglio la storia della salvezza, ma, più modestamente, puntava a dare alle lotte operaie uno sbocco politico». Ma il suo merito politico, in chiave retrospettiva, appare ben diverso, perché «compare piuttosto in primo piano la sua funzione di opposizione attiva, consistita nel trattenere, nel ritardare quella deriva umanitario-filantropica della stessa figura dell’operaio di fabbrica, rimasta ormai l’ultima casamatta da conquistare per l’universalismo borghese» (M. Tronti, Noi operaisti, Derive Approdi, Roma, 2009). E in contrapposizione al «paradigma escatologico» di Negri, Tronti ha così evocato un «paradigma katecontico», che concepisce la storia in termini molto diversi da quelli del determinismo e della fascinazione industrialista di buona parte della tradizione socialista (e del marxismo): «Penso che noi non possiamo più dire o credere che ci sia un’idea lineare della storia, quindi che comunque sia dobbiamo andare avanti nello sviluppo poiché esso comporterà contraddizioni nuove. Credo che bisogna trattenere, non lasciar scorrere il fiume della storia. Bisogna rallentare l’accelerazione della modernità. Perché questo tempo più lento permette di ricomporre le nostre forze».

Naturalmente la distinzione tra un paradigma escatologico e un paradigma katecontico è il frutto della riflessione più recente di Tronti, e sarebbe ingenuo farne un uso disinvolto per rileggere la storia dell’operaismo. Ma è probabile che una traccia di quella divaricazione fosse già presente fin dagli anni Sessanta, e che proprio questa differenza prospettica abbia determinato nel tempo una svolta destinata ad allontanare percorsi accomunati dalle medesime origini. Forse le matrici dell’intera traiettoria di Tronti non vanno infatti rinvenute tanto nelle sue premesse teoriche (siano esse ricondotte a Galvano della Volpe e Colletti, oppure a Ugo Spirito, o magari, procedendo a ritroso, a Gentile ed Hegel), quanto in quel trauma politico e intellettuale che fu il 1956. Negli spunti autobiografici, Tronti ha d’altronde riconosciuto che quell’anno – con il XX Congresso del Pcus e la repressione della rivolta ungherese – ebbe davvero il significato di una rottura radicale. Ma, al di là delle conseguenze che ciò comportò nei rapporti con il Pci, forse dovremmo riconoscere che quel trauma indusse il giovane Tronti a prendere atto – ben più di quanto anche oggi sia forse disposto a concedere – del fallimento dell’esperimento rivoluzionario sovietico, o meglio della sua incapacità di superare, o modificare sostanzialmente, il modo di produzione capitalistico. Per questo, la ricerca trontiana – che proprio dal ’56 iniziò a prendere forma – può essere considerata come un tentativo ‘post-rivoluzionario’ (e ‘post-socialista’) di pensare la rivoluzione, o, meglio, come un tentativo di concepire il mutamento ‘rivoluzionario’ in termini diversi rispetto ai canoni fissati dal marxismo-leninismo (e, ovviamente, dalla versione che ne avevano fornito, in termini diversi, Stalin e Togliatti). In altre parole, si trattava per molti versi di ripensare la trasformazione rivoluzionaria non ‘oltre’, ma ‘dentro’ il capitalismo, di pensare la rottura dentro la continuità. E, forse, si trattava proprio della presa d’atto dell’impossibilità della rivoluzione, o almeno di una rivoluzione intesa nei termini che il marxismo aveva ereditato dalla tradizione giacobina settecentesca.

Lette in questa prospettiva, le diverse sequenze del pensiero di Tronti – ognuna delle quali segna evidentemente una rottura, talvolta anche radicale – possono essere interpretate come nuove soluzioni teorico-politiche, tutte interne però a una medesima visione delle dinamiche sociali. E forse – ma è ovvio che in questo caso si tratta di un’ipotesi da verificare – tutte quelle differenti sequenze possono essere considerate come filiazioni originate da una comune matrice katecontica, secondo la quale la rivoluzione non è un ‘andare oltre’ il capitalismo, o uno sviluppo delle sue potenzialità produttive a vantaggio dell’intera società, bensì un tentativo di ‘frenare’ lo sviluppo e le sue tensioni distruttive, e dunque un processo che va pensato ‘dentro’ lo sviluppo capitalistico, o meglio parallelamente ad esso. In questo modo si potrebbe in effetti interpretare persino la stagione operaista come un’operazione volta a riconoscere nella classe operaia la conseguenza dello sviluppo capitalismo, ma, al tempo stesso, il possibile Katechon, la forza in grado di frenare il capitale, di trattenerlo, di ‘civilizzarlo’.

Nel primo saggio di Tronti apparso sui «Quaderni rossi» si possono infatti trovare tanto le tracce dell’anima escatologica dell’operaismo (e dunque anche le premesse delle principali varianti del post-operaismo), quanto i segnali della prospettiva «katecontica». «Quando tutta la società viene ridotta a fabbrica, la fabbrica – in quanto tale – sembra sparire», scriveva infatti Tronti. E proprio per questo, avvertiva, nel processo di terziarizzazione restava indispensabile contrapporre fabbrica e società. ‘Vedere’ la fabbrica dal «punto di vista operaio», a dispetto della sua scomparsa, significava infatti riconoscere la classe operaia come soggetto conflittuale, capace di rompere l’apparentemente infrangibile nesso di produzione-riproduzione-scambio-consumo. Ed era indispensabile vedere i due momenti come contrapposti l’uno all’altro, perché solo nella fabbrica la classe operaia poteva conquistare quella forza che non poteva avere nella società, nella sfera dello scambio e del consumo. Ma la contrapposizione era per molti versi insolubile, nel senso che Tronti non sembrava pensare davvero, neppure in Operai e capitale, a un ‘superamento’ della società capitalistica. In un passo importante aveva scritto infatti che, nonostante il processo di socializzazione conducesse tendenzialmente il rapporto di produzione a coincidere con il rapporto sociale, non sarebbe mai venuto meno «uno scarto» sostanziale «tra il capitale come rapporto di produzione e il capitale come società capitalistica». E proprio per questo tra i due momenti sarebbe rimasta sempre una contraddizione sostanziale. «Anche quando fabbrica e società avranno raggiunto un perfetto grado di reciproca integrazione a livello economico, continueranno pur sempre politicamente a contrapporsi», aveva scritto. E così «uno dei punti più alti e maturi della lotta di classe» avrebbe visto lo «scontro frontale tra la fabbrica come classe operaia e la società come capitale». Certo sarebbe forzato sostenere che già negli anni Sessanta emergesse quella consapevole vocazione «katecontica» che oggi Tronti celebra nella classe operaia novecentesca. Ma è altrettanto evidente come il problema della ‘rivoluzione’ per Tronti si ponesse ‘dentro’ e non ‘oltre’ il capitalismo. E come la classe operaia, ben più che il becchino destinato a seppellire il capitale e a svilupparne l’intera potenzialità produttiva, apparisse come un antagonista capace di ‘frenare’ o ‘civilizzare’ la sua marcia.

Senza dubbio quella stagione teorica si esaurì per l’autore di Operai e capitale già sul finire degli anni Sessanta, ma probabilmente non tanto (o soltanto) per i motivi che Tronti suggerisce oggi, quando osserva che gli operai rappresentavano sì una parte, ma una parte «interna al capitale», e soprattutto molto più interna di quanto gli operaisti pensassero. Se una simile valutazione certo può essere oggi retrospettivamente sostenuta nell’interpretazione dell’operaismo, non fu probabilmente questa convinzione a spingere verso l’«autonomia del ‘politico’». Quella svolta scaturì invece proprio dal tentativo di rivedere lo schema della dicotomia tra fabbrica e società che aveva alimentato la «rivoluzione copernicana» di Operai e capitale. Sul finire degli anni Sessanta una parte dei vecchi esponenti dell’operaismo iniziò infatti a esplicitare in modo più marcato la vocazione «escatologica» anche perché abbandonò l’idea trontiana che le due dimensioni della fabbrica e dalla società fossero destinate a contrapporsi l’una all’altra senza possibile soluzione. Quella visione era politicamente destinata a ‘chiudere’ la lotta operaia nello spazio di una dimensione puramente ‘frenante’ dello sviluppo capitalistico, ossia ‘dentro’ lo sviluppo capitalistico, senza poter intraprendere la strada di un superamento del capitalismo. E proprio per imboccare questo sentiero, in molti – ma soprattutto Negri – presero a formulare, a partire dagli anni Settanta, l’ipotesi secondo cui la socializzazione della cooperazione produttiva era destinata a creare le condizioni per la dissoluzione tanto della «società civile», quanto, soprattutto, della sfera dello scambio mercantile. In questo modo la vocazione «escatologica» poteva dispiegarsi pienamente, e la «rivoluzione» poteva tornare a scorrere sui binari classici della tradizione otto e novecentesca, assumendo di nuovo le sembianze di un superamento del capitalismo. Nella propria svolta verso l’«autonomia del ‘politico’» invece Tronti non abbandonò l’idea che la contrapposizione tra fabbrica e società fosse insolubile. E non abbandonò neppure l’idea che la rivendicazione della classe operaia – intesa ancora come «rude razza pagana» – fosse «la leva materiale» di dissoluzione del sistema capitalistico, piantata nel suo stesso centro. Ma iniziò a nutrire la convinzione che l’antagonismo in fabbrica non fosse più sufficiente ad arginare le conseguenze del processo di riorganizzazione capitalistica. A suo avviso, nel determinare le sorti di quel conflitto tra fabbrica e società – che si trovava, dopo l’Autunno caldo, in una situazione di equilibrio instabile – diventavano centrali il ruolo dello Stato, il piano del livello istituzionale e l’organizzazione politica (dentro la mediazione istituzionale). E questa convinzione divenne sempre più netta, dal momento che Tronti riteneva che la ristrutturazione capitalistica potesse neutralizzare il potenziale della classe operaia partendo dall’esterno della fabbrica, ossia dalla riorganizzazione della società.

Se tutte le ricerche dedicate al «politico» negli anni Settanta procedevano da quella convinzione, la situazione sarebbe radicalmente mutata a partire dal decennio seguente. Le ipotesi degli anni Settanta erano nate infatti da uno sviluppo logico – forse da una forzatura – di quelle stesse premesse da cui era scaturita la «rivoluzione copernicana». Negli anni Settanta il «politico» era infatti per Tronti quel terreno articolato – in cui si sommavano il livello istituzionale e l’azione politica, lo Stato e il partito, l’apparato e il ceto politico – che, potenzialmente, poteva mostrarsi ‘autonomo’ rispetto al capitale e alla logica del suo sviluppo, e che dunque poteva essere utilizzato «da parte operaia». Ma la premessa dell’intero ragionamento – ossia l’esistenza di un equilibro tra fabbrica e società – doveva venire meno, modificando radicalmente lo scenario e dislocando dunque la ricerca di Tronti su un diverso terreno. Dal momento che il conflitto capitale-lavoro non risultava più in grado di innescare, sulla dinamica dello sviluppo, quegli stessi meccanismi che avevano operato negli anni Sessanta e Settanta, la classe non sembrava più capace di essere il ‘potere frenante’, dinanzi all’irrompere dell’«uomo-massa», al trionfo dell’homo democraticus. Per questo stesso motivo il ‘politico’ non poteva più essere come negli anni Settanta «lo stato più la classe politica». Ma diventata una prospettiva più ampia, che riconduceva alla spiritualità e alla teologia politica.

Nelle pagine di Dello spirito libero Tronti ha retrospettivamente chiarito i motivi di quella nuova tappa del suo percorso. «Il capitalismo», ha scritto, «ha fatto il deserto all’interno dell’uomo, ha reciso le radici dell’anima nella persona: questo è il motivo – culturale – di conflitto, una forma politica nuova di lotta, che nessuna delle poche forze anticapitalistiche rimaste agita». A fronte del trionfo dell’homo democraticus, la spiritualità – che «è fondamentalmente interiorità, è il mondo interiore dell’essere umano, declinato in forma duale, al femminile e al maschile, come due modi differenti di essere, complementari e conflittuali» – costituisce per Tronti l’unica forza culturale capace di far sapere che «c’è qualcosa di non misurabile, di non calcolabile, di non sottoponibile a ragione strumentale, infinito anche come indefinito, non dicibile in numeri, in leggi, in codici e soprattutto oggi in immagini». La spiritualità diventa allora davvero l’ultimo Katechon, l’«ultima e definitiva frontiera di resistenza all’aggressione del mondo di fuori», «il primo, più profondo, incisivo ed efficace punto culturale di attacco al suo attuale ordine di senso, al presente dominio democratico sulle coscienze». E si trova proprio in questa convinzione una spiegazione della logica che ha condotto Tronti dalla critica di società alla critica di civiltà, e cioè a un’indagine centrata sul livello antropologico che si indirizza – come dice nell’Abecedario, la lunga intervista realizzata da Carlo Formenti (e pubblicata da Derive Approdi) – «contro l’uomo creato dalla società del capitale».

L’ultimo, «scandaloso», frammento pubblicato nel Demone della politica – tratto da Dello spirito libero – suona al tempo stesso come una rivendicazione di fedeltà alla parzialità del «punto di vista», che Tronti ha conservato, e come una resa dinanzi al presente. Il «messaggio dell’imperatore», scrive Tronti in quel frammento, è rimasto impigliato nell’intrico dei palazzi della storia. Non sembra più in grado di raggiungere il suo destinatario e non trova più neppure il messaggero. «Se il messaggio sussurrato all’orecchio non trova il messaggero che lo porta con potenza, facendosi strada a forza tra la folla, non arriva, non fuoriesce dall’intrico dei palazzi. La grande, e per questo tragica, vicenda del Novecento, questo ci ha insegnato. Arriva, invece, fuoriesce senza sforzo, perché viene lasciato passare, solo il messaggero che non porta alcun messaggio. Questo ci ha insegnato la piccola vicenda, a modo di commedia, targata XXI secolo. Ecco, la profezia si è avverata: il mezzo è il messaggio. Il messaggero è l’annuncio. Passa e arriva, democraticamente, soltanto il nulla, mai un qualcosa. La catastrofe è che tutto rimanga com’è. Il nichilismo è che tutto venga approvato com’è».

La destinazione cui Tronti è approdato negli ultimi anni ha lasciato forse insoddisfatti molti dei suoi lettori. E anche l’ammonimento a tenere insieme il «pensare estremo» e l’«agire accorto», in nome di un realismo che comunque non si intende mai come disgiunto dalla rivendicazione di una radicalità teorica, ha spesso disorientato i suoi estimatori. Benché possano apparire dissonanti rispetto alle melodie del presente (e anche alle loro variazioni all’apparenza più estreme), gli enigmi che Tronti ci pone rimangono però ineludibili. E se davvero si vuol prendere sul serio la sfida del «tramonto» della politica, e se si intende attraversare il paesaggio «post-politico» (e «anti-politico») che segna l’alba di questo nuovo millennio, il sentiero da percorrere rimane con ogni probabilità proprio quello che Mario Tronti indica, pur con i molti interrogativi che le sue sollecitazioni lasciano irrisolti.

Ed è forse per questo che, alla conclusione del Demone della politica, vale la pena di tornare ad aprire le pagine della vecchia conferenza sulla Politica come professione, per rileggere le parole che – proprio nei giorni in cui si consumava l’effimera speranza della «rivoluzione in Occidente» – Weber rivolgeva alla platea dei suoi giovani ascoltatori, avvertendo che quella che si stava per aprire non era «la fioritura dell’estate», ma «una notte polare di gelida tenebra e di stenti»: «La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È certo del tutto esatto, e confermato da ogni esperienza storica, che non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile. Ma colui che può farlo deve essere un capo e non solo questo, ma anche – in un senso assai poco enfatico della parola – un eroe. Pure coloro che non sono né l’uno né l’altro devono altresì armarsi di quella fermezza interiore che permette di resistere al naufragio di tutte le speranze, già adesso, altrimenti non saranno in grado di realizzare anche solo ciò che oggi è possibile. Soltanto chi è sicuro di non cedere anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole offrirgli, soltanto chi è sicuro di poter dire di fronte a tutto questo: “Non importa, andiamo avanti”, soltanto quest’uomo ha la “vocazione” per la politica».

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