Il mondo fa naufragio
Bruno Accarino
La chiave di lettura unitaria la fornisce Hitler, ancora lui: è la maledizione dei tedeschi, lamenta negli ultimi giorni di guerra, quando tutto è già deciso, non avere mai abbastanza tempo. Nel delirio finale, ma certamente anche iniziale, del capo del nazismo viene cancellato il carattere duramente istituzionale del tempo storico: invece che dolorosamente e deludentemente diacronico, il rapporto tra tempo della vita e tempo del mondo viene forzato entro coordinate sincroniche, alla ricerca di una simultaneità in virtù della quale è intollerabile che vi sia un tempo altro da quello della vita.
Quel che Hitler voleva è veder coincidere l’esistenza storica del mondo con l’arco di vita di un singolo uomo: di un fenomeno come il sopravvivere – del mondo che sopravvive ai singoli o alle cose singole – gli sfuggiva ogni senso possibile. Ciò che lo riscaldava era l’idea della definitività politica, della vittoria come della sconfitta, ed è un’idea che spinge verso l’impossibile ricompattazione di tempo della vita e tempo del mondo. Desiderio di immortalità? Delirio di stampo napoleonico? Nemmeno: per Hitler la politica è un surrogato della vita, e la perdita del senso – di ogni senso – è ad essa connaturata come all’indifferenza del mondo nei confronti di quest’unica vita. Indifferente come il mondo è perfino la gloria postuma, anzi la gloria in quanto tale, che ha bisogno, come ben sapeva Napoleone, del supporto museale e monumentale dell’Hôtel des Invalides.
La scarsità e la morte
A metà degli anni ’80, finalmente deciso a pagare tutti i debiti contratti nei confronti del pensiero di Edmund Husserl (alla fine del decennio arriverà la resa dei conti con Heidegger), Hans Blumenberg radunò e potenziò, in una sua fenomenologia del tempo (Tempo della vita e tempo del mondo, Il Mulino, Bologna 1996), ipotesi di lavoro e frammenti di riflessione che si erano a lungo sedimentati nella sua opera. Non a caso si riaffaccia il Blumenberg studioso della svolta copernicana e storico en philosophe della scienza, e qui con interessi biologici oltre che fisico-astronomici. Il libro ruota, tra parti teoriche dirette e digressioni esemplificative e narrative, attorno a due esperienze originarie – ma originarie è dir poco: arcaiche in senso stretto, semmai – che irrompono quando il tempo del mondo si dà una fisionomia propria: la scarsità e la morte. La formula della prima è: non più tutto; la formula della seconda è: non più per sempre.
Le migliori risorse della scrittura di Blumenberg si mobilitano nel disegnare i tratti di un immaginario parco delle esperienze vissute all’interno del quale il tempo del mondo, facendo il suo ingresso rovinoso, revoca la struttura della ripetizione familiare e non traumatica di forme, figure, costellazioni. E’ come se a questo punto, accidentalmente o volontariamente, fosse indicata una strada sbagliata o fosse suggerito l’oltrepassamento dei confini del parco: la coscienza, posta di fronte al non-familiare o – come scrive Blumenberg altrove – al perturbante, non ha più strumenti per distinguere tra il mutamento di ciò che è dato e il cambiamento del proprio movimento e del proprio – il termine è molto husserliano – atteggiamento.
Sono io che sono cambiato al punto tale da dover soffrire del mondo o è il mondo che si è irrimediabilmente allontanato da me? Non è il mondo della vita a produrre il realismo, ma la destrutturazione a cui esso è sottoposto. Il mondo acquista un senso proprio e si dota dell’assolutismo della realtà – un tema carissimo a Blumenberg – proprio perché accade che un giorno la sua indifferenza venga scoperta e sopportata: accade cioè che gli uomini imparino a riassorbire le delusioni e a gestire realisticamente il rapporto tra esperienza e aspettativa. La realtà è arrivata dopo, non subito, e con quel tanto di patologico che accompagna ciò che arriva dopo. Basta infatti costruire la fictio del mondo della vita, come di una condizione comparabile al paradiso biblico, per capire che esso non poteva reggere: uno spazio che si può coprire a piedi, che è sempre visivamente padroneggiabile, che è fatto di percezioni e non di rappresentazioni, perché in esso manca ciò che è assente e ciò che è lontano e manca perciò la necessità della rappresentazione. Uno spazio nel quale non è dato imbattersi nell’inatteso e nell’impreveduto.
Venuta meno questa nicchia, quasi una ridotta militare dell’autodifesa esistenziale, il mondo ostenta la propria indifferenza – come si dice con il molto presente anche se qui mai citato Kolakowski di Presenza del mito (Il Mulino, Bologna 1992) – nei confronti della vita singola: o, con un termine tedesco più pesante e di matrice biblica, la propria mancanza di riguardi. E’ una noncuranza priva di tenerezza e di misericordia, forse vicina alla giustizia glacialmente imparziale di un Dio che non guarda in faccia a nessuno. Detto antropomorficamente, il mondo se ne frega.
E’ la strafottenza del mondo che inaugura la storia. A partire da questa cesura, storia è sempre storia della scarsità: e per eccellenza storia della scarsità di tempo, come Blumenberg rammenta richiamando il passo dell’Apocalisse giovannea sul diavolo che ha poco tempo. L’immagine del nemico si modella sulla sua fretta, sulla sua capacità di premere e di incalzare: e si fa prototipo di ogni angustia. La scarsità di tempo è la radice del male perché un essere che, come l’uomo, ha desideri infiniti, è però dotato di un tempo finito di vita. La brevità della vita umana, già fonte di interrogativi nel Kant filosofo della storia (perché dovremmo avere vincoli morali nei confronti dei posteri?), diventa un’ossessione. Solo la più corruttrice di tutte le tentazioni, quella di essere come dèi, poté preponderare sulla consapevolezza, già presente ad Adamo ed Eva, della morte come conseguenza del peccato. Ma dietro quella tentazione baluginava il successo supremo: la ricomposizione del tempo della vita e del tempo del mondo, l’identificazione definitiva dei due tempi.
La nonchalance che il tempo del mondo riserva ai miserabili affanni delle esistenze individuali può essere la premessa, come nella paranoia di Hitler, di allucinati tentativi di riappropriazione e di ricucitura. C’è una ferita perennemente aperta che ogni prospettiva apocalittica – non solo quella della comunità religiosa proto-cristiana – tenta di chiudere.
Un mondo che scappa, che si autonomizza, è un mondo che preesiste e sopravvive all’esistenza singola, e chi lo demonizza può pensare che l’unica soluzione sia il suo tramonto: propriamente, anzi, per stare alla metaforica del naufragio, il suo inabissarsi o il suo scomparire dall’orizzonte. Con la differenza che qui nessuno spettatore potrebbe assistere in modo esteticamente distanziato e disinteressato: si inabissa il mondo, non un vascello. Non ci sono superstiti. Ci vuole la classe di Montaigne per offrire una resistenza ironica e non esasperata – come ci viene ricordato in una pagina memorabile – all’imposizione del tempo cosmico attraverso la riforma gregoriana del calendario del 1582: il mio mondo è finito, la mia forma è svuotata: io appartengono al passato, a quegli anni nei quali contavamo diversamente, scrive Montaigne quando gli sbattono in faccia la cervellotica alterazione del ritmo della natura e del tempo della vita.
Esperienze di perdita
Presente ma inappariscente nel mondo della vita, il senso non è nominabile per via diretta: è quel quid del quale veniamo derubati quando a tirare le fila è il tempo del mondo. L’unica possibilità di approssimarsi a una definizione del senso è quella di pensarlo come un’esperienza della perdita o della privazione: non di qualcosa che avevamo tra le mani, ma di qualcosa che avremmo potuto avere se il tempo della vita avesse potuto resistere alle turbolenze del tempo del mondo.
E’ difficile dire dove risieda la forza magnetica di questo filosofo, ostico e altero, scettico e irritante, tirannico nell’imporre al lettore livelli di attenzione e di concentrazione d’altri tempi. Le miglia miglia lontano da ogni possibile topografia e tipologia dell’impegno intellettuale, avrebbe l’identikit perfetto della meteora da archiviare con poco rammarico e molto sollievo per la scampata fatica. Ma non ci si allontana dalla verità se si suggerisce che quella forza è tutta nella capacità di fare della fenomenologia del deficit di senso una rassegna dell’orrore, e senza mai alzare i toni.
A lui, e a pochissimi altri, si perdona un silenzio ostinato e raramente infranto sulla guerra, sulla democrazia, sulla libertà, e quel girovagare con troppa eleganza tra virtuosismi di filologia biblica ed esercizi di prolissità ermeneutica.
[da il manifesto, 17 novembre 1996]