Il potere delle donne
Marco Dotti
Benedetta Craveri, Amanti e regine. Il potere delle donne, Adelphi, Milano 2005.
Nel suo Dizionario storico-critico, Pierre Bayle attribuisce a Jean Bodin qualità intellettuali incerte, ma indubbie doti di scaltrezza. «Uno degli uomini più abili che vi furono in Francia nel Sedicesimo secolo», scrive Bayle, prima di dilungarsi in una serie di minuziosi, e per certi versi inessenziali, particolari biografici. Giurista, uomo di corte, economista, giudice in processi per stregoneria, ma anche – presunto, a dire il vero – «ateo e libertino», difensore dell’autonomia di coscienza e al tempo stesso indagatore dei fenomeni di possessione diabolica, Bodin ci ha lasciato un’opera, e una vita, che rimangono, sotto molti aspetti, un mistero. Se nei libri della Repubblica, uno dei testi fondatori della sovranità dello Stato assoluto, pubblicato in francese nel 1576 (la versione latina è del 1786), Bodin si mostra anche nelle vesti di teorico della libertà e dei diritti naturali, nella Démonomanie des Sorciers, data alle stampe quattro anni dopo egli svela i tratti dell’inquisitore e dell’intollerante. Accusato, di volta in volta, di professare l’ateismo, il teismo, l’occultismo e la magia o di servirsi, in maniera alquanto disinvolta e sospetta, di fonti talmudiche che, forse, ne rivelavano una mal celata origine ebraica, Bodin passò un breve periodo in prigione, sospettato, ironia della sorte, proprio di stregoneria. Alcuni tra i suoi libri furono bruciati, altri posti all’indice, altri studiati senza remore, altri ancora divennero oggetto di stima nei circoli libertini, suscitando un certo entusiasmo anche in un lettore esigente come Gabriel Naudé, bibliotecario di Mazarino e consigliere di Cristina di Svezia, che diede un breve ragguaglio della demonologia bodiniana nella sua Apologie pour tous les grands hommes qui ont este accusez de magie.
Eppure, se davvero si volesse rilevare una costante nell’opera di Bodin, non sarebbe possibile trovarla altrove se non in quella inquietante misoginia che, a ben vedere, fu comune a gran parte degli intellettuali della sua epoca. Una misoginia, a dire il vero, unita al timore di vedere dissolvere dal basso, ossia da una famiglia non più incardinata sulla piena disponibilità della donna da parte del padre o del marito, l’edificio della nascente statualità. «Non c’è cosa pubblica», scrive Bodin, «se non c’è qualcosa di privato, non si può immaginare nulla di pubblico, se non c’è qualcosa di particolare», ecco perché «togliendo le parole “mio” e “tuo” si rovinano le fondamenta stesse di ogni repubblica», anche quando queste parole indicano che l’oggetto del possesso è il corpo di una donna. Come corollario di questo sistema di assolutismo proprietario in nuce, Bodin conclude che le donne dovrebbero essere, molto semplicemente, escluse dal dominio attivo della politica, andrebbero poste ai margini della vita civile, sociale e letteraria e, in ogni caso, «tenute lontane da tutte le magistrature, i luoghi di comando, i giudizi, le assemblee pubbliche e i consigli, perché si occupassero solo delle loro faccende donnesche e domestiche». In questo, come osserva Benedetta Craveri in apertura di Amanti e regine. Il potere delle donne, Bodin non faceva che richiamarsi ad un doppio retaggio culturale, quello greco-romano e quello giudaico, in gran parte ostile nei confronti delle donne, inaugurando, al tempo stesso, un periodo all’apparenza ancor più grigio di quello dei secoli precedenti. Poiché, a ben guardare, non sempre «consuetudini e leggi erano state così sfavorevoli al gentil sesso», tanto che lo stesso sistema feudale francese appariva al confronto meno oppressivo e intransigente.
Fino ad allora, infatti, alle donne erano concessi status e diritti sussidiari di una certa rilevanza come la facoltà di ereditare titoli e proprietà, la capacità di reggere la casa in assenza del capofamiglia, facendone le veci, o, nel caso delle popolane, la possibilità esercitare arti e mestieri, di organizzarsi e di istituire ordini. Nella Francia del sedicesimo secolo tutto questo venne spazzato via, assieme alle fondamenta del sistema feudale. Ma, nonostante tutto, il peggioramento delle condizioni sociali e giuridiche della donna coincise con una sua «prima, incontestabile, affermazione sul piano intellettuale». Così, sottolinea la Craveri, sul modello del De claribus mulieribus di Boccaccio, tradotto su richiesta di Anna di Bretagna, «nacque anche in Francia una tradizione letteraria, destinata a una lunga fortuna, centrata sull’elogio della femme forte e della femme savante». Letteratura encomiastica, di corte e di maniera, se vogliamo, ma fortemente indicativa di un nascente pubblico di lettrici, che, di lì a poco, avrebbe rivelato l’esistenza di un rinascimento tutto al femminile, fatto sì di ascoltatrici e fruitrici passive, ma anche di scrittrici consapevoli della loro specificità. A partire dal Tresor de la cité des dames, apparso nel 1497 a firma di Christine de Pisan, una schiera sempre crescente di letterate iniziò a condividere «un unico progetto, di cui ai contemporanei non sfuggiva l’intento: contestare il pressoché totale monopolio maschile della scrittura e prendere direttamente la parola per raccontare in modo più o meno velato di sé, dei propri gusti, dei propri sentimenti, delle proprie aspirazioni più profonde». Attraverso una serie di affascinanti ritratti e di rigorosi profili, Benedetta Craveri rende merito a questa letteratura di genere che, con una spietata consapevolezza, si muove seguendo vie marginali, usando la scaltrezza, l’intrigo, il doppio registro, il veleno e le armi della seduzione, se necessario, pur di evitare qualsiasi scontro frontale col sesso dominante, scontro da cui, con tutta evidenza, le donne sarebbero uscite perdenti. Ne nacque un potere sui generis, ma tanto più temibile per il nascente stato assoluto – e il timore di questa scossa, lo si è detto, viene indirettamente attestato dalle ambiguità giuridiche di Bodin – poiché basato su una dura necessità: trasformare la forza in debolezza e fare dell’inferiorità sociale la carta per accedere, in punta di piedi, nelle stanze, e tra i registri, del potere ufficiale.
[da il manifesto, 8 dicembre 2005]
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