Il potere nascosto nell’antro del Ciclope
Bruno AccarinoColpiti e talvolta sedotti dai momenti più vistosi della trasformazione dello spazio sociale, negli ultimi anni abbiamo prestato attenzione soprattutto ai fenomeni di dispersione e di dissipazione: ne è venuto fuori il monitoraggio di un nomadismo in senso ampio, che raccoglie e sintetizza esperienze di biografia-bricolage, cioè di identità debole o assente, di allentamento dei vincoli familiari, di flessibilità economica e occupazionale. Qua e là abbiamo però potuto anche sospettare che l’apologia del nomadismo non fosse esente da venature conservatrici, per esempio quando si prefigura uno scenario futuro in cui i «nomadi di lusso» partecipano da protagonisti alle gozzoviglie della società dell’informazione, differenziandosi da nomadi intermedi anch’essi presenti al banchetto, ma sostanzialmente privi di possibilità di controllo e gestione, e naturalmente da quei nomadi il cui unico patrimonio è la precarietà dei nullatenenti. A dispetto della pirotecnica alternativa alla razionalità lineare moderna disegnata, tra gli altri, da Jacques Attali («il curvo, il complesso, l’oscuro, il torbido, il tourbillon, il dispersivo, il multiplo, l’ambiguo, il ridondante»), abbiamo intravisto le tracce inconfondibili, e relativamente facili da leggere, di un’ideologia californiana: adattarsi alle leggi tardo-capitalistiche per non perdere capacità di competizione nella società globale. Cito a caso un testo inglese che presenta la solita sequenza mozzafiato, ma ci lascia appiedati come prima: l’immagine dello spazio globale è «a placeless, distanceless, and borderless realm», «a complex mosaic of superimposed and interpenetrating nodes, levels, scales and morphologies». Definizioni come questa, purtroppo, non sono né di destra né di sinistra, di sicuro non è nella Silicon Valley che farebbero impressione. Forse si è parlato molto, nella scia di Foucault o di Deleuze e Guattari, di eterotopia e poco di atopia: che è invece un’area concettuale più promettente, se non altro perché il primo a essersi macchiato di atopia, secondo quanto suggerisce Platone nel Simposio, fu Socrate. Mancanza di luogo, ma anche stranezza, eccentricità, assurdità, paradossalità, anormalità: tutto questo, e altro ancora, rientra nell’atopia. Due esempi, che ricostruisco a partire da recenti contributi di Joseph Vogl e di Helmut Willke, basteranno a dare le coordinate. Se proviamo a recuperare da uno dei possibili punti di vista la differenza tra la politica e il politico, possiamo orientarci su un abbozzo di questo tipo: il politico significa una de-localizzazione di fondo e un momento arrischiato della statualità; la politica ricostituisce invece il corpo politico, in quanto topica e topologia, con l’articolazione, la localizzazione e l’assegnazione di un posto. Fin dall’inizio della politica moderna il politico vive sotto la minaccia di scomparire e persiste solo come antinomia, come confutazione delle leggi. Sia nella scena fondativa e nel contratto originario in quanto fonte di legittimità, sia nella Policey come tecnica di governo che genera un incessante rimando reciproco tra ordinamento giuridico e prassi di controllo, la politica è una costante repressione di quel politico che a ogni figura del corpo politico aggiungerebbe l’esigenza di uno sfiguramento e a ogni localizzazione politica una cancellazione del luogo. Come stanno allora le cose quando il politico viene localizzato nella sfera pubblica (Habermas) o nella decisione del rapporto amico/nemico (Schmitt)? E come stanno le cose con l’antinomia tra i processi autoregolativi di un’economia globale e la struttura rigida degli Stati nazionali? È lecito parlare di una scomparsa del politico? O anche: c’è un teatro che potrebbe rendere visibile la politica come azzeramento del politico? Dov’è che la politica realizza un imprigionamento del politico in cui sia ancora visibile l’istanza da esso rappresentata? Bene: un luogo esemplare dell’imprigionamento del politico è proprio nell’asilo politico stesso. Asilo è un termine greco con valenza privativa (da sylon) che significa il contrario dell’esser derubati, depredati o sequestrati: indica sicurezza e non-violabilità. Nell’antichità l’asilo come luogo di rifugio ha avuto un’impronta politica, giuridica e sociale molto particolare. Per i Greci «asilo» non era solo ogni santuario compresi gli accessori (altari, immagini degli dèi…), né solo il ricettacolo di tesori di Stato protetti dal nemico o, per eccellenza, il luogo al quale si dirigevano fuggiaschi, perseguitati, schiavi e criminali. Valeva anche l’inverso: chi violava questo luogo intoccabile si rendeva vulnerabile e commetteva un sacrilegio che le leggi, ma soprattutto gli dèi, punivano duramente. L’asilo non è quindi solo un luogo senza diritto, ma un luogo di annullamento del diritto: in linea di principio, non prelude ad abusi e ospita i giusti e gli ingiusti. È un luogo nel quale non si viene difesi per il tramite della legge, ma per legge si è protetti dalla legge, e nel quale tutte le differenze (cittadini, criminali, perseguitati) vengono superate. Proprio perciò è però un luogo di demarcazione che non ha nulla in comune con altri luoghi. Ciò che si raccoglieva nell’asilo non era un popolo, non erano individui con uno stigma etnico o giuridico, ma una sorta di massa deterritorializzata. L’asilo antico è anzitutto un luogo dove non è possibile alcuna appartenenza: è un non-luogo o un luogo di non-appartenenza, un luogo nel quale ci si trova non nonostante, ma proprio perché non si appartiene al luogo in cui ci si trova. Per il resto, la gente che vi si raccoglie è un plethos che è sempre al di fuori di un demos. L’asilo è un limite minaccioso della politica, del diritto e delle istituzioni. La leggenda della nascita di Roma ridisegna in modo emblematico il rapporto tra la politica e il politico. Eliminato Remo, Romolo va verso la fondazione della città non senza aver fondato sul campidoglio un asilo per deportati, apolidi, fuggiaschi e quant’altro. Come dice Livio: all’inizio della grande Roma, del suo diritto e delle sue istituzioni, c’è un luogo senza legge e un luogo di fuorilegge, una obscura atque humilis multitudo più simile alla canaglia che a un popolo, una turba sine discrimine: insieme con tutte le differenze che accompagnano una fondazione, entra nel processo anche un’indifferenziazione, un’assenza di discrimine. Qual è il rapporto tra una politica di fondazione, di localizzazione e di ordinamento e un politico legato alla indifferenziazione e alla atopicità di una massa de-territorializzata? Nel corpo politico è inscritta una demarcazione fondativa, il che vanifica la sua pretesa di universalità: ogni partecipazione diventa politica solo a prezzo di una fondamentale non-partecipazione, mentre il politico di una comunità si manifesta nell’interruzione dell’appartenenza. Al più tardi dal XIX secolo, il politico di questo asilo fu concepito come uno scandalo. Esso segna un confine o un limite esterno della politica e racchiude la tensione tra una massa disordinata e un popolo ordinato, tra localizzazione e de-localizzazione: in quanto non-luogo che accoglie l’indiscriminatamente uguale, è in un rapporto di ostilità con lo Stato. L’asilo scompare in un senso duplice: da un lato viene assorbito e sottoposto a uno spazio di vigenza della legge privo di lacune e smagliature, per un altro verso diventa un luogo di reclusione e disciplinamento. Da non-luogo di indifferenziazione esso diventa un luogo esemplare di discriminazione nel quale domina non tanto la legge, quanto la cura di quella complessa macchina gestionale, governamentale e amministrativa che è la Policey. La non casuale atopicità viene ridotta: i vuoti (le vacationes della legge) indiscriminati vengono sovrascritti dalla scrittura discriminante del diritto, mentre si trasforma in amministrazione disciplinare ciò che prima era un’enclave protettiva. Parafrasando le categorie messe a punto da Giorgio Agamben per l’homo sacer, si direbbe che l’asilo, come parte costitutiva della storia del sacro, diventa, da non-luogo, il luogo escluso di un’inclusione: è un luogo di esclusione perché in esso la garanzia dei diritti o dei diritti civili viene eccepita e sottoposta al caso dell’eccezione giuridica; ed è un luogo di inclusione perché nello stesso momento entrano in vigore gli ordinamenti amministrativi e polizieschi. La politica è una prassi di ripartizione, distribuzione e localizzazione, il politico è una dislocazione e una de-localizzazione in quanto produzione di spazi di non-appartenenza. La politica produce gente a posto, il politico produce spostati, ovvero gente che non ha una situazione o uno status (Zustand) e che quindi non è competente (zuständig). Il politico non fa altro che produrre incompetenze, impertinenze, sregolatezze, incongruenze. Nella scomparsa dell’asilo – o nella sua ritrascrizione impoverita nel diritto di asilo – si potrebbe allora riconoscere un indizio della scomparsa del politico: la garanzia di asilo apre un non-luogo all’interno della topografia della legge. La questione dell’asilo politico è diventata, al di là anche dei profughi e dei migranti, un asilo del politico: forse anche nel senso che appiattisce il politico su dimensioni di minorità infantile e innocua. La seconda traccia richiama alla mente il lavorio di Adorno e Horkheimer su Ulisse (quando si parla di spazio, c’è sempre di mezzo questo rompiscatole ubiquitario dell’identità occidentale), ma in un quadro interpretativo molto diverso, che presta più attenzione al ciclope che all’eroe. È possibile rappresentarsi un teorico della società come una tarda reincarnazione di Ulisse e ricavare molte indicazioni dalla sua ambivalente ricerca ricorsiva ora di patria, ora di lontananza, e dalle sue esperienze con il ciclope. La teoria della società somiglia oggi a un’odissea della ricerca di una localizzazione di luoghi percorribili per il sé. Entrambi i lati della comparazione sono poco chiari. Non è chiaro di quale sé si tratti e quali potrebbero essere, presupposta una radicale perdita di confini da parte della società, le sue caratteristiche costitutive. Un conto è che per Ulisse si tratti della sua differenza nei confronti di tutti gli altri (se vuole adattarsi a vivere nell’altrove), tutt’altro conto è che si tratti del sé della sua unità con i suoi compagni (se vuole ritrovare la via di casa), e tutt’altro conto ancora è se si tratti del sé dell’unità della differenza tra lui e il suo oikos (se vuole ritrovare la famiglia). Non è chiaro però neanche l’altro versante: data una radicale de-territorializzazione, quali sarebbero i luoghi percorribili? Si tratta di luoghi reali di confronto con gli uomini o di luoghi immaginari di confronto con gli dèi, o ancora di luoghi atopici e ibridi di confronto con se stesso? Per Ulisse l’Odissea significa la ricerca della sua anima nel senso di un rischiaramento di fondo attraverso la liberazione dell’anima da dipendenze di cui non è colpevole. Il rischiaramento omerico è una liberazione per la propria anima e non, come il rischiaramento o l’illuminismo moderno, dalla propria anima. Se facciamo equivalere il concetto omerico di anima a quello di sé, diventa chiaro che l’azione di rischiaramento dell’Odissea consiste nell’aiutare l’uomo eroico ad acquisire un sé riflesso, non nel liberarlo da un sé. Ebbene, in questa prospettiva colpisce la conseguenzialità con la quale Omero fa fallire il suo eroe nel suo progetto di rischiaramento. Alla fine Ulisse arretra spaventato di fronte al sacrificio del rischiaramento, la sua collera vince sulla sua ragione. Egli non riesce a ottenere il suo scopo non perché ciò sia impossibile, ma perché è meno razionale di quanto supponga: si ritrae dalle implicazioni piene della razionalità, perché questa decisione indebolirebbe il suo rabbioso desiderio di difendere ciò che crede di meritare. Nell’incontro con il ciclope, infatti, invece di sfruttare l’assenza del ciclope e di dileguarsi con il bottino rubato, Ulisse provoca il confronto, perché vuole scoprire se gli dèi facciano sul serio con la giustizia. Confidando nell’aiuto promesso da Atena, egli osa andare nell’antro e rimane deluso. I ciclopi non sanno che cosa sia l’ospitalità né hanno «timor di Dio», ma pretendono di essere superiori agli dèi; e non è con la paura che possono essere tenuti a freno. «Ma sei uno sciocco, o straniero, o vieni da ben lontano tu che pretendi di farmi temere e rispettare gli dèi»: così il ciclope. A questo punto Ulisse non può salvarsi, con gli altri suoi compagni, con l’aiuto degli dèi, ma solo con il suo coraggio: bisogna accecare il ciclope. Ulisse perde la fiducia nella saggezza e nella giustizia degli dèi e la ripone nella propria intelligenza in quanto istanza superiore della sua liberazione e del suo rischiaramento. Solo che ora, per conquistare la sua anima, si allontana dal vincolo che lo lega ai suoi compagni e si avventura in un viaggio individualistico e autoreferenziale. Tuttavia non resiste: fallisce proprio esigendo un libero volere che includa la libertà di cedere al proprio thymós, alla propria passionalità e alla propria collera, e di rivendicare una giustizia che solo gli dèi possono dare. Viene così ri-vincolato agli dèi, il che lo esclude dalla cerchia dei «rischiarati» o degli illuminati. Ulisse cerca una strada che lo porti fuori dagli accecamenti mitici e dalle capricciose irrazionalità divine. I ciclopi potrebbero essere dèi, ma anche mostri: sono monoculari come qualche dio, ma si pongono al di sopra degli dèi: «Ma non si danno pensiero di Zeus … i Ciclopi né dei numi beati, perché sono più forti». Chi sono in realtà? All’inizio Ulisse lascia aperte le due opzioni e non cede né alla divinizzazione né alla demonizzazione dei ciclopi: si chiede anzi «chi sono, se son violenti, selvaggi, senza giustizia, o amanti degli ospiti e han mente pia verso i numi». Ma, dopo che lui e i suoi uomini sono entrati nell’antro, senza essere invitati e già con il proposito di rubare, essi proiettano la loro inconfessata barbarie sui ciclopi, a cui non rimane che rivelarsi. Se la stessa domanda fosse posta in riferimento alle costellazioni post-nazionali, si potrebbe scoprire che esse sono nient’altro che «istituzioni immaginarie» (Cornelius Castoriadis) destinate a dissolversi nelle loro componenti, perché schiacciate tra le macine di un individualismo selvaggio ed una globalizzazione cieca di rabbia come Ulisse prima e il ciclope poi. I sistemi funzionali – l’economia, il sistema finanziario, l’edificio massmediatico, la scienza, il sistema sanitario – non possono che aderire alla monocularità dei ciclopi: lo spazio è per essi un continuum equidistante di opzioni equivalenti, chi ha un occhio solo trae le sue visioni dal luccichio di una virtualità de-territorializzata e smaterializzata. Tutti i sistemi funzionali fuggono, come nell’imminenza di un nuovo diluvio universale, da una terraferma della quale si sa che sta per andare a fondo, e cercano di salvarsi su un’arca che almeno promette di navigare nello spazio atopico. Per le vecchie società nazionali si può parlare di una missio nel senso dell’antica Roma: l’esonero temporaneo di un gladiatore da un combattimento perduto. Non devono più sine missione pugnare, combattere a oltranza. È nelle pieghe di questa rassegnazione che si inseriscono sistemi funzionali incapaci di leggere un futuro che non sia estensione lineare del presente. Decodificati i molti deficit di razionalità di Ulisse (e se avesse accecato il ciclope solo per non percepire la propria cecità?) e il double bind che in qualche modo lega il suo destino a quello di Polifemo, non si vede chi possa ereditare il testimone di quella razionalità «rischiarata» che in Omero trovava pur qualche esponente – la regina Arète, il cantore Demodoco, il porcaro Eumeo -, ma per la quale il mondo delle atopie non ha, letteralmente, spazio. [da il manifesto, 14 ottobre 2003] |