philosophy and social criticism

Incontro con G. B. Shaw

Victoria Ocampo

Nel 1929, un amico comune mi diede una lettera di presentazione per Shaw. Dopo avergliela spedita però, lo stesso anno, durante un soggiorno di una settimana a Londra, mi arrivò da Hastings una lettera della signora Shaw che mi diceva: «Mi spiace dirle che sia io che mio marito abbiamo preso l’influenza e siamo molto ammalati. Abbiamo lasciato Londra ed è probabile che non ci torneremo per un po’. Potrebbe dirci fino a quando pensa di fermarsi in Inghilterra? Speriamo di incontrarla al ritorno. La prego di scriverci di nuovo», ecc. ecc. Il fatto è che quando lasciai Londra i signori Shaw non erano ancora tornati. Da quella volta, ad ogni mio viaggio in Inghilterra, tentavo di entrare in contatto con lui, senza mai riuscirci. Alla fine, nel giugno del 1939, appena prima della guerra e in momenti in cui la rivista Sur aveva appena pubblicato un saggio di Shaw, decisi di dare alla mia richiesta di udienza un tono matter of fact. Spiegai al grand’uomo che desideravo incontrarlo perché era mia intenzione scrivere un articolo per un quotidiano di Buenos Aires. Il grand’uomo nel frattempo doveva aver completamente dimenticato la lettera di presentazione inviata dieci anni prima. Per tutta risposta ricevetti una cartolina in cui, divertita e infastidita, lessi quanto segue: «Mr. G.B. Shaw si vede costretto a ricordare a chi scrive chiedendogli una interview da pubblicare che, dato che anche lui è un giornalista professionista, preferisce come è ovvio comunicare direttamente con il pubblico attraverso la stampa. Sarà un piacere, quando ne avrà tempo, rispondere a domande scritte, sempre che siano interessanti come notizie di attualità e possano trovare risposta in venti parole o meno; ma riceve visite personali solo a condizione che le sue parole non siano pubblicate».

Il mio primo impulso fu di scrivergli assicurandogli che nella mia vita avevo sfruttato qualche scrittore (quelli che si erano lasciati sfruttare, ma Shaw non rientrava in questa categoria) e che la letteratura mi aveva fatto perdere probabilmente quasi tanto denaro quanto gliene aveva fatto guadagnare a lui. Però, dopo aver riflettuto, decisi di lasciar perdere, di non rispondere e, di conseguenza, non incontrarlo. Aveva troppa voglia di essere insolente; sapevo che a Shaw piaceva molto l’insolenza, ma a me no. E non mi sarei lasciata trascinare per questo crinale.

Dopo tale incidente credetti di essere guarita dalla curiosità di conoscere Shaw di persona. Ma non era così. Infatti, quando nel 1946 lady Astor mi disse che voleva portarmi a prendere un te da lui, a Ayot Saint Lawrence, accettai, anche se con qualche titubanza. Lady Astor, che è molto generosa, voleva regalarmi una visita a casa di un suo vecchio amico. Durante l’ora di tragitto in automobile, sotto la pioggia, mentre i miei occhi avidi divoravano le verdi e umide praterie inglesi, la celebre Nancy non la smetteva di lodare le qualità della Christian Science, della quale era una fervente adepta. Quando arrivammo entrò nella casa di Shaw come se fosse la sua. Lui stava facendo la pennichella, o quanto meno riposando. Mi lasciarono sola nel tipico living room inglese con la sua bow-window, a guardare una statuetta di Troubetskoy e una lussuosa edizione di Los siete pilares de la sabidurìa, (I sette pilastri della saggezza, ndr) regalo di T.E. Lawrence al padrone di casa. Sentivo la voce e le risate di lady Astor mentre scherzava con Shaw. Finalmente entrarono insieme nella stanza dov’ero io. Shaw, molto fragile, magro nel suo tweed, con pantaloncini da giocatore di golf e grossi calzettoni di lana grigi che gli coprivano le deboli gambe, assomigliava a Shaw più di quanto mi aspettassi. Dietro le sue sopracciglia irsute e arruffate si nascondevano due occhi vispi e indagatori.

Lady Astor, con l’evidente proposito di farmi un piacere, non lasciava che la conversazione nascesse e si sviluppasse naturalmente. La dirigeva. Bombardava Shaw con domande le cui risposte – credeva lei – dovevano interessarmi particolarmente. Ma tutto ciò che Shaw le rispondeva già stava scritto sui suoi libri.

Lady Astor aveva incominciato avvisando Shaw che per la mia nazionalità, sesso e passione per le lettere bisogna considerarmi una specie di fenomeno. Questo non poteva commuovere minimamente l’autore di Man and superman, che nella sua vita doveva aver visto più di un vero fenomeno. Ma per gentilezza verso la sua mia finse di essere sorpreso.

Terminato l’esordio, lady Astor disse a Shaw che a me interessava soprattutto T. E. Lawrence, del quale sia lui che lei erano stati grandi amici:- T.E. era l’eterno adolescente – disse allora Shaw, citando se stesso. Per tutto il tempo ebbi l’impressione che si stesse citando dato che ripeteva, cosa molto naturale, quello che io avevo letto nei suoi libri, e lo ripeteva quasi testualmente.

Allora prese la parola lady Astor:

– Dai, lo sai bene G.B.S., che tua moglie era innamorata di T. E. e non di te- Confessalo, G.B.S.

Shaw rideva dietro la sua barba e le sue sopracciglia arruffate. Erano di quei giochetti tra vecchi amici che, per molto consumati che fossero, provocano sempre la stessa ilarità. La signora Shaw aveva amato molto Lawrence, con il quale aveva avuto una copiosa corrispondenza. Improvvisamente, come se il nome dell’autore di Los siete pilares de la sabidurîa le tornasse alla memoria, per non so quale associazione di idee, il cioccolato, disse Nancy Astor:

– A proposito (dopo mi resi conto che questo a proposito si riferiva alla passione di Lawrence per il cioccolato, che soleva mangiare in abbondanza a Cliveden), a proposito, devo verificare con la cuoca se la provvista di cioccolato non stia per terminare. Vado a dare un’occhiata in cucina. Nel frattempo racconta alla signora Ocampo come ti è capitato di scrivere la tua prima piece teatrale. Raccontaglielo, G.B.S.

Io avevo voglia di dire: «No, G.B.S. Non mi racconti nulla se non ne le va». Ma Shaw, docile come un cagnolino a cui è stato ordinato di camminare su due zampe e che sa che dopo la performance lo lasceranno in pace, aveva già cominciato a raccontare.

Un suo amico di gioventù trovava facilmente temi da sviluppare per commedie, ma quando si trattava di scrivere i dialoghi era una schiappa. A Shaw, invece, non servivano argomenti e si rese conto, aiutando il suo amico, che poteva passare giorni interi a scrivere dialoghi senza il minimo sforzo. L’amico allora gli propose di scrivere i dialoghi per una commedia. Disgraziatamente alla fine del primo atto, Shaw si rese conto che aveva esaurito tutti gli argomenti. Pregò quindi l’amico di inviargli una nuova trama per i due atti restanti: “Give me more plot”, gli scrisse. L’amico, indignato, gli rispose trattandolo da idiota e assicurandogli che mai più avrebbe collaborato con lui. Per quanto visto, Shaw non si lasciò scoraggiare dal fallimento. Questo fiasco lo lanciò nella sua carriera di drammaturgo.

Lady Astor continuava a rovistare nella dispensa (eravamo in epoca di razionamento). Non era ancora tornata quando Shaw terminò il suo racconto. Indicandomi la porta da dove era uscita mi disse: “Un grande cuore”. Dopo, solo un silenzio, di quelli difficile da rompere. Sentivo che non avevo nulla da dire a Shaw e la sua fragilità mi intimidiva. L’unica cosa che mi sarebbe piaciuto dirgli era in uno dei suo libri ed era ciò che lui diceva di se stesso. In quel momento questo pensiero sembrava più mio che suo. “sia che fossi nato pazzo o un po’ troppo saggio, il mio regno non era di questo mondo, solo in casa mia mi sentivo come nel regno dell’immaginazione, e a mio agio solo con i mighty dead (i grandi morti)” Anch’io solo in casa mia mi trovo nel regno della mia immaginazione. In questo regno i “grandi morti” non mi intimidivano e gli davo del tu. Ma in mezz’ora, o un’ora, cosa potevo dire a Shaw che potesse conquistarlo? Cosa poteva dirmi Shaw che non mi avesse ripetuto fino alla sazietà nei suoi libri? Eravamo seduti, uno di fronte all’altro, con un tavolo e un vassoio con il suo servizio da te, l’home-made cake (dolce fatto in casa, ndr) e le tazze tra i due. Io, invisibile per lui, a parte il corpo. Lui, troppo visibile per me, perché io vedevo in lui tutti gli Shaws sovrapposti che il suo lavoro mi aveva rivelato. Tuttavia non era il mighty dead a cui potevo dare del tu. Si era sistemato nella sua vecchiaia come in una altissima torre dalla quale si poteva solamente salutare con la mano i transeunti, come i sovrani dalle loro carrozze. Quando lady Astor ed io lo

salutammo ci accompagnò sino alla soglia della porta, e lì si fermò, mentre l’auto si allontanava. Mefistofele dai bianchi capelli e irsute sopracciglia. Lo guardai sicura che non l’avrei più rivisto; sicura di non averlo mai visto che non nei suoi libri; sicura di non avergli detto nulla dell’ammirazione che provato per lui; sicura di avergli stretto la mano, già ridotta ad ossa, come sulla banchina di una stazione mentre fischia il treno.

Shaw raccontava che una volta, un certo medico, dopo lunghe ricerche sul “suo interiore”, gli aveva rivelato che “nel corso degli anni aveva trasformato l’intera riserva di energia estratta dai suoi alimenti in genio puro”. Proprio quello che fanno tutti i grandi artisti. Ed è questo che ci danno di loro stessi: la parte migliore. Ma all’improvviso vorremmo avvicinarci al piatto e guardare cosa c’è dentro. Una curiosità che suole essere punita da piccoli o terribili delusioni.

Non ho avuto la possibilità di sentire piccole o tremende delusioni davanti al piatto di G.B.Shaw. Ma ora che è entrato nel circolo dei “mighty dead” so che sono a mio agio con lui e che posso dirgli senza timidezze quanto lo ammiro, persino dandogli del tu.

[traduzione di Marina Zenobio]

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