philosophy and social criticism

Intellettuali senza popolo. Leggendo «Scrittori e massa» di Alberto Asor Rosa

"Alberto Asor Rosa"

di Damiano Palano

I giorni della «massa»

Il conformista non è forse il romanzo più importante di Alberto Moravia, ma le sue pagine restituiscono nitidamente la visione del rapporto fra individuo e società che contrassegna molti lavori dello scrittore romano. Dalla trama aggrovigliata del racconto emerge sicuramente un ritratto impietoso del ceto medio impiegatizio che si strinse attorno alla causa del fascismo.

Ma l’Italia degli anni del regime era solo il simbolo di una condizione più generale, perché Moravia concepì il romanzo come una sorta di indagine sul «conformismo», e cioè sulle radici di quel fenomeno – sociale, psicologico, culturale – che spinge il singolo verso la «massa». Secondo lo schema che strutturava il romanzo, Marcello Clerici, il protagonista, cercava infatti costantemente di negare a se stesso la ‘diversità’ in cui si era imbattuto in occasione di un episodio traumatico dell’infanzia. E proprio per negare questa ‘anormalità’, tentava di confondersi nella «massa» degli individui mediocri. Così, sebbene il sostegno al regime esemplificasse chiaramente in cosa consistesse, in termini politici, il conformismo di Marcello, per Moravia non si trattava di un fenomeno circoscritto all’esperienza autoritaria. Marcello infatti si lasciava andare a un «compiacimento quasi voluttuoso» in tutte le occasioni in cui scopriva di essere «eguale agli altri, eguale a tutti», e cioè anche quando riconosceva di essere un consumatore identico a tutti gli altri che compravano «le sigarette della stessa marca» e che avevano «gli stessi gesti suoi»[1]. E accettava con entusiasmo persino il disagio degli autobus gremiti di folla, perché proprio «dalla folla» gli giungeva «il sentimento confortante di una comunione multiforme», che andava «dal farsi pigiare dentro un autobus fino all’entusiasmo delle adunate politiche»[2]. In altre parole, schiacciato nella ressa o confuso tra gli spettatori osannanti delle «adunate oceaniche», Marcello Clerici poteva trovare la conferma che «la sua normalità» non era «né superficiale, né abborracciata razionalmente e volontariamente, ma legata a una condizione istintiva e quasi fisiologica»[3].

Nelle formule utilizzate da Moravia, così come nello schema ‘socio-psicologico’ (certo piuttosto rozzo) che orientava la sua interpretazione del «conformismo», si poteva riconoscere l’eco lontana delle pagine freudiane di Psicologia di massa e analisi dell’Io, e forse anche di Psicologia di massa del fascismo di Wilhelm Reich o di Fuga dalla libertà di Erich Fromm. Ma, al tempo stesso, nell’immagine della folla conformista che dipingeva lo scrittore romano era facile ritrovare più di qualche consonanza con la celebre visione di José Ortega y Gasset, se non altro perché anche il pensatore spagnolo scriveva che la massa «travolge tutto ciò che è diverso, singolare, individuale, qualificato e selezionato»[4]. La «massa» è d’altronde un grande soggetto novecentesco, da un certo punto di vista il vero protagonista del XX secolo, e Moravia non faceva altro che attingere a un ricchissimo patrimonio teorico, letterario e iconografico cresciuto a partire dalla metà dell’Ottocento. Come nelle pagine del Conformista, anche nella discussione teorica e nelle rappresentazioni artistiche precedenti si erano peraltro sovrapposte l’una sull’altra diverse immagini, non sempre connotate in senso politico. La «massa» e la «folla» erano infatti il simbolo della nuova condizione urbana, e cioè il simbolo di un’umanità fisicamente ‘ammassata’ nei quartieri delle nascenti metropoli. Ma erano anche la metafora di un nuovo stato psicologico, in cui i costumi della tradizione sembravano fare sempre meno presa, e in cui ciascun individuo diventava più volubile, più disponibile a seguire le mode, più indifeso dinanzi allo spettacolo delle merci. La «massa» era infine anche la «massa operaia», con tutto ciò che questo comportava nell’immaginario europeo fra Otto e Novecento: per un verso, una minaccia politica sempre sull’orlo di esplodere, e, per l’altro, una figura in cui andavano ad assommarsi tutte le insidie all’ordine sociale (l’alcolismo, il crimine, ecc.)[5].

È con queste polimorfiche sembianze che lo spettro della «massa» torna anche in una riflessione sui caratteri distintivi della letteratura italiana dell’ultimo trentennio proposta da Alberto Asor Rosa. Scrittori e massa. Saggio sulla letteratura italiana postmoderna – collocato in appendice alla nuova edizione di Scrittori e popolo – si propone infatti di ‘aggiornare’ l’interpretazione radicale fornita mezzo secolo fa, puntando proprio sulla centralità che, nell’immaginario e nella realtà sociale italiana dell’ultimo ventennio, ha conquistato la «massa»[6].

L’ipotesi che guida il saggio è esplicitata già dal titolo, in cui ad essere accostata agli scrittori – e a sostituire il «popolo» – è la «massa». Ed è difficile non riconoscere più di qualche affinità tra questo discorso e l’immagine che emerge dalle pagine di Dello spirito libero, l’ultimo libro di Mario Tronti, un intellettuale il cui cammino si intreccia da più di sessant’anni con quello di Asor Rosa. Una delle tesi al cuore del volume di Tronti è infatti che il grande protagonista del presente sia l’«uomo-massa democratico»: una figura che agli occhi del filosofo romano coincide con il «borghese-massa» e con l’homo democraticus «sbarcato sul nostro continente insieme agli eserciti alleati, e sotto le loro bombe»[7]. Ed è d’altronde proprio la vittoria dell’«uomo-massa democratico» che, secondo l’autore di Operai e capitale, avrebbe sancito, oltre alla sconfitta storica del movimento operaio, il tramonto della politica, la chiusura dell’orizzonte del pensabile, la nascita di una sorta di «totalitarismo democratico»[8].

Anche per Asor Rosa la protagonista è la «massa». Ma in questa sagoma – tanto evocativa quanto in fondo indefinita nei suoi contorni – lo storico della letteratura viene a ‘condensare’ processi in realtà ben differenti, non troppo diversamente da quanto faceva Moravia nel Conformista e da quanto, molti anni prima di lui, avevano fatto i primi osservatori della «massa» urbana.

Popolo e massa

La tesi da cui parte Asor Rosa in Scrittori e massa – un saggio che peraltro si propone solo come un primo tentativo critico, più che come un saggio coerente come era invece Scrittori e popolo – è che il «popolo» sia definitivamente tramontato. Con ciò intende dire che a essere tramontata è quella specifica raffigurazione del «popolo» che aveva a lungo nutrito l’ideologia populista italiana, dalla metà dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta del Novecento. E le motivazioni di questo tramonto vanno ricercate in due processi contestuali, che coinvolgono al tempo stesso il basso e l’alto della società italiana. «Nel corso dei cinque decenni che sono alle nostre spalle e costituiscono il terreno di germinazione della nostra differenza», scrive innanzitutto Asor Rosa, «si sono fortemente attenuate (fin quasi a scomparire?) le nitide stratificazioni sociali, che davano corpo ai movimenti contrappositivi e al tempo stesso alla spinta idealpolitica unitaria, che avevano caratterizzato l’identità di un popolo nel corso degli ultimi due secoli di storia europea» (SM 365). Più semplicemente, ciò significa che «borghesia produttiva, borghesia intellettuale, classe operaia, proletariato lavoratore hanno perso ciascuno i livelli di presenza e di potere posseduti in precedenza e soprattutto hanno smarrito in gran parte il senso della propria identità, che in passato nutrivano per sé e in relazione agli altri» (SM 365). In secondo luogo, ed è qui che il discorso coinvolge l’alto delle nostre società, «nel corso del medesimo periodo, in stretta correlazione ai fenomeni finora descritti, si è fortemente attenuato anche il ruolo giocato in precedenza dalle élites», e in particolare delle «élites intellettuali», le quali «son quelle che soffrono di più in presenza di un’asfissia generale del conflitto» (SM 365-366).

È proprio in un simile quadro che Asor Rosa riconosce i tratti della «massa», una formazione sociale per la cui descrizione si affida in particolare alle parole di Leopold von Wiese, autore sul finire degli anni Venti di un ambizioso Sistema di sociologia generale nel quale venivano classificate tutte le diverse forme di associazione umana[9]. Ma, al di là dei suoi riferimenti teorici, Asor Rosa identifica nel concetto di «massa» una «realtà umano-sociale in cui i caratteri umani e distintivi sono meno rilevanti, e più rilevanti invece quelli della comunanza e della sovrapposizione»; una situazione in cui, «a guardar bene, le differenze così marcate delle fasi precedenti non si vedono più o, se si vedono, appaiono assai più sfocate e marginali che in passato»; e nella quale infine «la tendenza generale dominante […] è quella di assoggettarsi al comando di un capo, quand’anche questo non significhi assoggettamento vero e proprio ad un sistema autoritario ma semplicemente un modo di vivere la cosiddetta democrazia del tutto passivamente» (SM 367). Il soggetto cui pensa Asor Rosa non pare dunque simile alla massa manipolata dai regimi autoritari e totalitari che hanno segnato il Novecento, ma è piuttosto la massa passiva e apatica, protagonista delle nostre democrazie mature:

La «massa» di cui io propongo che ci si occupi, è […] quella mediocre, che ha stabilito con il sistema democratico un compromesso, che consiste nell’accettare di viverci dentro, svuotandolo. In un certo senso, tale massa non ha neanche la forza (o il desiderio) di optare per un rovesciamento brutale del sistema, oppure, ammesso che nel subconscio vi pensi, si adatta a non farlo per quieto vivere e per timore delle conseguenze sopravvenienti (sebbene a dir la verità, segnali consistenti, di natura opposta, verso la riorganizzazione brutale e violenta della massa, comincino anch’essi a vedersi). I suoi capi si sono adattati a questa prospettiva, e la praticano con grande persuasione e impegno: ossia, accettando fino in fondo lo svuotamento del sistema e anzi promuovendolo con atti e con parole (SM 369).

Già al principio del nuovo millennio, nel suo saggio La guerra, Asor Rosa aveva scritto che «Popolo, Massa, Moltitudine sono tutti sinonimi di una folla d’individui forse non perfettamente omogenei ma sicuramente solidali con il potere, nella Germania di Hitler alla fine degli anni Trenta come negli Stati Uniti di Bush oggi»[10]. Oggi in Scrittori e massa torna, più approfondita, la medesima posizione, che in sostanza raffigura la «massa» nei termini di un soggetto che – pur essendo quasi strutturalmente ‘impolitico’ – diventa la base politica su cui si regge la democrazia ‘post-politica’ contemporanea. Nel discorso di Asor Rosa, si può però riconoscere anche un altro aspetto, che riguarda più che altro il processo di ‘massificazione’ culturale, ossia una dinamica di omogeneizzazione in cui ogni differenza – e anche quella tra cultura alta e cultura bassa – tende a svanire in una generale uniformità. Il «livello di massa» per lo storico della letteratura è infatti definito proprio da questa condizione: «quando ormai ci si sta dentro», scrive per esempio, «le ragioni di alto e basso sono perdute, e possono essere invocate a giudicare la realtà contemporanea solo in base ad un’assunzione individuale di responsabilità, che cozza contro le opinioni della grande maggioranza, anzi della quasi totalità, degli attuali utenti del pensiero, della politica e della cultura» (SM 370). Ed è a questa condizione che si riferiscono le considerazioni sulla produzione letteraria italiana dell’ultimo trentennio.

Per Asor Rosa la nuova condizione di «massa», nel momento in cui abbatte ogni distinzione fra alto e basso, dissolve tanto qualsiasi possibile «società letteraria», quanto – e qui il punto è cruciale – ogni rapporto con la «tradizione letteraria». Se infatti anche per tutti gli scrittori italiani degli anni Cinquanta e Sessanta – e soprattutto per quelli che Asor Rosa definisce «gli ultimi classici»: Fortini, Pasolini, Calvino – rimaneva fondamentale un rapporto con il passato, oggi i legami con la tradizione tendono a essere recisi. «La ‘novità’ oggi, nella grande maggioranza dei casi, consiste nel pensare il ‘nuovo’ sciolto da qualsiasi debito con il passato, mentre il vero ‘nuovo’, letterariamente parlando (forse anche scrivendo?), secondo i vecchi criteri, consiste sempre nel pagare il proprio debito al passato» (SM 371). Questi tratti generali si innestano però in un contesto in cui, rispetto al passato, sono proprio le forme del lavoro letterario a essere cambiate, perché oggi tende ad affermarsi «la sempre più stretta connessione tra produzione letteraria e mezzi di comunicazione di massa», perché spesso la produzione di libri è il frutto di un «lavoro comune» (testimoniato anche dallo spesso ridondante ricorso ai ringraziamenti da parte dei romanzieri), e perché il peso di considerazioni puramente commerciali da parte degli editori è molto più forte rispetto a mezzo secolo fa[11].

Nell’esaminare, seppur solo schematicamente, la produzione letteraria degli ultimi tre decenni, Asor Rosa ravvisa una cesura netta, tra un prima e un dopo, attorno al fatidico 1989, perché, secondo lo storico, è proprio in questa manciata di anni che si spezza ogni rapporto con la tradizione e che entra in scena – si potrebbe dire, giocando col vecchio lessico operaista – una nuova generazione di ‘scrittori massa’: scrittori, nati dopo il 1960, in cui la dimensione di massa riguarda tanto «gli orientamenti creativi», quanto le «condizioni generali dell’industria culturale» (SM 378). Costruendo una ‘mappa’ della narrativa italiana contemporanea, Asor Rosa rileva innanzitutto una proliferazione dei protagonisti del campo (circa 280-300 narratori, 50-60 poeti), e un simile affollamento – che rende impraticabile ogni ricerca esaustiva – sembra offrire una conferma della «polverizzazione delle tendenze e delle identità» (SM 379)[12]. Ma è probabilmente una tematica comune a definire meglio l’orizzonte in cui operano. Asor Rosa riconosce infatti la pressoché completa scomparsa della questione sociale e di quella politica, a tutto vantaggio della dimensione puramente individuale. Un simile ripiegamento non è ovviamente casuale per Asor Rosa, che anzi vi scorge un riflesso formidabile proprio della condizione di «massa»:

misurandosi con l’universo di massa – origine di tutto il processo – all’interno del quale le distinzioni tendono ad affievolirsi e a scomparire, lo scrittore di questo nostro ultimo tempo […] non può, allo scopo di affermare l’identità del proprio processo conoscitivo e rappresentativo, fare altro che coglierne i faticosi, spesso dolorosi processi di autoidentificazione da parte dei protagonisti e dei personaggi, in presenza di elementi di negazione diffusi ovunque, e sparsi come fattori di ottenebrazione sull’intero universo circostante. Ma la gabbia di ferro, che sta dietro le gesta di quei personaggi, resta invisibile, nessuno ne parla. Stando così le cose (se stanno così), si potrebbe dire che – a malo bonum – allo scopo di affrontare il magma che li circonda, i nostri scrittori raccontano fondamentalmente storie: non storie di Storia – come abbiamo finora cercato di dimostrare –, ma storie di storie. Storie di singoli individui – appunto – che non pretendono neanche di incarnare una (presunta) verità generale, ma incarnano, nei limiti complessi ma anche essenziali che stanno fra la vita e la morte, semplicemente se stesse (SM 385).

Nel quadro dipinto da Asor Rosa non mancano alcune eccezioni, tra cui i romanzi di Wu Ming (la cui attenzione alla politica non è d’altronde né episodica, né superficiale, ma addirittura fondativa) e Gomorra di Roberto Saviano, definito esplicitamente come «un unicum» (SM 403). Ma il dato dominante che sembra comunque emergere è – per semplificare – l’‘individualizzazione’ delle storie: un’individualizzazione per cui ciascuna ‘storia’ appare sempre irriducibile alla ‘Storia’, nel senso che le vicende personali dei protagonisti non appaiono mai in alcun modo figure riconducibili a una vicenda collettiva, e non assumono mai dunque la consistenza di metafore o simboli di un «destino comune». L’individualizzazione sembra inoltre riflettere pienamente la condizione di «atomismo individualistico» che contrassegna l’industria culturale, nella quale i singoli autori – privi di qualsiasi identità collettiva (e politica) – si trovano invariabilmente stretti nelle maglie delle logiche, puramente commerciali, del mercato editoriale. L’«atomismo individualistico», secondo Asor Rosa, non è però solo una conseguenza del potere che l’«industria culturale» esercita su romanzieri e (in misura minore) poeti. Al fondo della deriva individualistica della produzione letteraria italiana sta infatti una tendenza più generale, e in senso lato ‘politica’, che coincide con la scomparsa – dall’immaginario, più ancora che dalla realtà materiale – del conflitto.

L’analisi di Asor Rosa non può che essere considerata poco più che un’ipotesi di lavoro, che altre ricerche dovranno mettere alla prova con un esame più approfondito. Nonostante il carattere impressionistico del quadro proposto da Scrittori e massa, la traccia di interpretazione che il saggio delinea merita però di essere raccolta ed esaminata. E, soprattutto, vale la pena di tornare a rispolverare le ipotesi Scrittori e popolo per registrare i mutamenti intervenuti in cinquant’anni nella visione di Asor Rosa, e anche per cogliere – se ci sono – le linee di continuità. Alcuni anni fa, nella Prefazione storica al volume Le armi della critica, in cui erano ripubblicati alcuni scritti ‘militanti’ degli anni Sessanta, Asor Rosa confessava che, al centro della sua riflessione, stava «la persuasione che il conflitto costituisca ovunque e sempre la molla di una sana e dinamica dialettica sociale»: «dove non c’è conflitto», precisava, «la politica deperisce, e persino le attività intellettuali smarriscono la strada della ricerca, che è anch’essa più indubitabilmente che altrove – conflittuale»[13]. Ora in Scrittori e massa quella tesi generale viene ripresa, per portare alla luce la condizione della produzione letteraria contemporanea. «In letteratura, come in qualsiasi altra operazione storica umana», scrive infatti Asor Rosa, «non c’è disvelamento della verità senza conflitto», «se non c’è conflitto non c’è pensiero nuovo», e «se non c’è pensiero nuovo non c’è nuova rappresentazione» (SM 420)[14]. A dispetto di una simile celebrazione del conflitto – nella quale si può senza dubbio riconoscere un tratto di continuità, che lega la riflessione giovanile di Asor Rosa alle sue analisi più recenti – il quadro interpretativo che Scrittori e massa allestisce rischia invece di occultare ogni traccia di conflitto, reale o potenziale. E questo rischio emerge chiaramente proprio a proposito del ruolo assegnato alla «massa».

A ben guardare, nel discorso sviluppato da Asor Rosa la «massa» tende infatti individuare una serie di dimensioni ben differenti. Innanzitutto, la «massa» è un soggetto politico, o forse più propriamente ‘impolitico’, nel senso che appare come un insieme di «uomini massa», politicamente apatici, vittime della seduzione della democrazia dello spettacolo. In secondo luogo, la «condizione di massa» descrive un processo che investe la società nel suo insieme e che, dissolvendo le identità di gruppo e di classe, di fatto elimina qualsiasi distinzione tra alto e basso. In terzo luogo, la «massa» è il destinatario della produzione letteraria, che ha ormai gusti sempre più standardizzati e omologati, e che dunque appare sempre meno disposto a seguire percorsi artistici che non adottino formule molto simili alla narrativa di puro intrattenimento. In quarto luogo, la «massa» appare anche sotto le spoglie di una sorta di ‘massificazione’ del processo di produzione letteraria, perché il sempre più stretto assoggettamento degli autori alle logiche economiche degli editori dissolve quasi completamente l’autonomia creativa dello scrittore, il quale per questo si trova anche a sperimentare nuove forme ‘collaborative’ di composizione (tradizionalmente proprie della narrativa di genere, ma non di quella ‘alta’). Infine, la «massa» si ripresenta nel discorso di Asor Rosa anche sotto il profilo del contenuto ideologico della produzione narrativa, nel senso che la «massa» – o meglio di «uomini-massa», privi di identità collettive e rappresentativi dell’«uomo medio» – è anche la protagonista dei romanzi della nuova generazione di scrittori.

Il fatto che la «massa» diventi la protagonista della produzione narrativa non costituisce forse una novità così radicale, dal momento che – come osservava Walter Benjamin a proposito dei grandi romanzi popolari dell’Ottocento – anche la «folla» parigina, organizzandosi come «pubblico», pretendeva di «ritrovarsi nel romanzo contemporaneo, come i fondatori nei quadri del Medioevo»[15]. Ciò nondimeno, l’intuizione secondo cui proprio la «massa» sostituisce il vecchio «popolo», e secondo cui le singole storie individuali non appaiono in alcun modo riducibili alla Storia, fornisce probabilmente una chiave di lettura estremamente interessante e meritevole di approfondimenti, perché suggerisce davvero indicazioni preziose per decifrare le traiettorie del mutamento intervenuto nella cultura ‘progressista’ italiana. A dispetto di questi meriti, è però evidente che la «massa», nel discorso di Asor Rosa, non è solo la protagonista che, nella produzione narrativa, sostituisce il vecchio «popolo» della tradizione populista. L’operazione delineata in Scrittori e massa da questo punto di vista procede ben oltre il perimetro entro cui si era mosso mezzo secolo fa Scrittori e popolo, perché – come si è visto – la «massa» non è solo la sagoma che nutre un immaginario letterario, ma identifica anche una sorta di magmatica formazione sociale, una condizione ‘spirituale’, la realtà lavorativa ‘massificata’ degli scrittori contemporanei, oltre che in generale il pubblico apatico, distratto e rozzo della politica spettacolo occidentale (o più precisamente italiana). E proprio per questo, dunque, quando colloca al centro della scena lo spettro di una «massa» onnivora e onnipresente, Asor Rosa sembra compiere un’operazione davvero molto simile a quella che si poteva ravvisare nel Conformista moraviano, o nelle pagine dei vecchi studiosi della folla. In altri termini, se la «massa» appariva agli interpreti di fine Ottocento come una figura inquietante, nella quale potevano confluire fenomeni estremamente eterogenei (ma percepiti come minacciosi per l’equilibrio sociale e per la stessa civiltà europea), oggi nella proposta di Asor Rosa la «massa» viene a ‘condensare’ una serie di processi che attengono a piani ben distinti, e di cui però si finiscono col perdere i tratti specifici.

Se per questi motivi Scrittori e massa appare piuttosto lontano da Scrittori e popolo, fra i due lavori non manca però qualche elemento di continuità. Come si è visto, un aspetto che – almeno nella prospettiva generale – accomuna i due testi è senza dubbio il ruolo assegnato al conflitto, perché proprio come il giovane intellettuale operaista degli anni Sessanta, anche oggi Asor Rosa considera il conflitto come il motore del cambiamento, tanto sul piano politico, quanto sul terreno della ricerca letteraria. Ma il punto in cui forse va riconosciuta la più evidente continuità tra le posizioni di cinquant’anni fa e quelle di oggi è probabilmente un altro, che riguarda il ruolo dell’intellettuale e cioè la contrazione – se non addirittura la scomparsa – degli spazi di autonomia propri della dimensione culturale. Quando Asor Rosa si sofferma oggi, seppur in modo impressionistico, sulle trasformazioni dell’attività dello scrittore, sull’accelerazione dei ritmi di composizione dei romanzi, sull’integrazione sempre più stretta tra editoria e mondo della comunicazione, in fondo non fa infatti che riproporre l’idea secondo cui il circuito della produzione culturale è sempre più integrato nelle logiche della produzione capitalistica, e secondo cui dunque la società letteraria – che come tale si dissolve – perde del tutto la propria autonomia dalle logiche del mercato. Benché oggi in Scrittori e massa tali processi vengano presentati come un risultato del mutamento intervenuto nell’ultimo quarto di secolo, è difficile non ravvisare in questa posizione l’eco delle tesi radicali che Asor Rosa sosteneva più di mezzo secolo fa, all’inizio della propria avventura teorica, sulle pagine di «Quaderni rossi» e di «classe operaia», quando riconosceva che si era ormai definitivamente conclusa la stagione della «battaglia culturale». Ma se, per un verso, questa continuità può forse essere apprezzata come la conferma di una coerenza teorica, in realtà è possibile invece scorgere nelle tesi odierne i segnali di un ripiegamento tutt’altro che privo di insidie. Non tanto perché la tesi dell’integrazione della cultura nelle logiche della produzione capitalistica era allora funzionale all’affermazione di un soggetto conflittuale, che oggi appare invece del tutto assente. Quanto perché il paradossale ‘ritorno alle origini’ compiuto da Asor Rosa con Scrittori e massa finisce piuttosto col riprodurre – forse anche ingigantendoli – tutti quegli equivoci che contrassegnavano lo sguardo dell’operaismo degli anni Sessanta sulla politica e sulla cultura. E perché in questo modo Asor Rosa giunge al punto di dimenticare del tutto anche quelle preziose intuizioni cui, nel corso degli anni Settanta, erano approdati il suo lavoro di ripensamento critico delle ipotesi giovanili e la sua riflessione sul ruolo ‘politico’ (e sull’autonomia ‘politica’) degli intellettuali.

«A questo punto il concetto stesso di cultura non ha più senso»

Mezzo secolo fa, nelle pagine di Scrittori e popolo, buona parte della letteratura italiana, e in particolare quella connotata da una coloritura ‘progressista’, veniva esaminata – e per molti versi demolita – dalla critica di Asor Rosa. Quel modo di rileggere la storia letteraria ‘col martello’ costituiva in qualche modo uno sviluppo della «rivoluzione copernicana» che Mario Tronti aveva incominciato a svolgere con i saggi pubblicati sui «Quaderni rossi» e che avrebbe trovato un coronamento con la pubblicazione di Operai e capitale nel 1966. Prima ancora, già verso la fine degli anni Cinquanta, Tronti aveva iniziato a condurre una rilettura critica (che allora doveva risultare persino ‘eretica’) dei pilastri su cui si era eretta la cultura politica del Partito comunista. Tronti allora non solo puntava infatti a ritrovare nel Capitale di Marx la chiave per comprendere il neo-capitalismo, ma soprattutto sosteneva che fosse necessario superare l’interpretazione gramsciana del marxismo come «filosofia della prassi»: un’interpretazione che – secondo il giovane Tronti – aveva in realtà continuato a muoversi nella stessa traiettoria di Labriola, Croce e Gentile, e cioè dentro una logica in cui Marx era solo un modo per giungere a Hegel[16]. L’esigenza di «deideologizzazione» del marxismo, enunciata già dalla fine degli anni Cinquanta, trovò una prima declinazione già in La fabbrica e la società, il primo saggio pubblicato da Tronti sui «Quaderni rossi» nel 1962, nel quale si rintracciava nel Capitale la chiave per risolvere l’enigma dell’apparente ‘scomparsa’ della società nel processo di terziarizzazione. Era in quelle pagine che Tronti cominciava a enunciare la necessità di osservare lo sviluppo capitalistico dal «punto di vista operaio», e cioè di guardare la società dall’interno della produzione, dall’unico punto in cui la classe operaia, con il proprio rifiuto, poteva materialmente arrestare il processo di valorizzazione. «Si tratta di guardare distribuzione, scambio, consumo, dal punto di vista della produzione», e «dentro la produzione, guardare dal punto di vista del processo di valorizzazione il processo lavorativo, e dal punto di vista del processo lavorativo il processo di valorizzazione»[17].

Questa rivendicazione della parzialità operaia era destinata a produrre una serie di conseguenze radicali sul modo in cui erano state concepite l’organizzazione politica e la stessa prospettiva del socialismo. Ma un’implicazione cruciale riguardava anche il modo di intendere la coscienza di classe. E la rottura rispetto alla tradizione, da questo punto di vista, non consisteva semplicemente nella critica della classica impostazione marxista-leninista, secondo la quale era il partito rivoluzionario a dover portare ‘dall’esterno’ la coscienza alla classe. Il disaccordo derivava piuttosto nell’idea secondo cui la classe operaia non aveva alcun bisogno di una propria «ideologia», perché – come scriveva Tronti – «la sua esistenza come classe, cioè la sua presenza come realtà antagonistica all’intero sistema del capitalismo, la sua organizzazione in classe rivoluzionaria, non la lega al meccanismo di questo sviluppo, la rende indipendente da esso e ad esso contrapposta»[18]. E proprio sulla scorta di questa impostazione, in Operai e capitale, qualche anno più tardi, avrebbe scritto:

Come la classe operaia si emancipa politicamente dal popolo stesso nel momento in cui non si pone più come classe subalterna, così la scienza operaia rompe con l’eredità della cultura borghese nel momento in cui non assume più il punto di vista della società, ma quello della parte che vuole rovesciarla. A questo punto il concetto stesso di cultura non ha più senso, o assume un senso del tutto estraneo, per la parte operaia. La cultura infatti – come il diritto di cui parlava Marx – è sempre borghese: è sempre cioè il rapporto tra intellettuali e società, intellettuali e popolo, intellettuali e classe; è sempre per questa via mediazione dei contrasti e loro soluzione in altro[19].

 

L’affermazione del «punto di vista operaio» compiuta da Tronti nella prima metà degli anni Sessanta può essere retrospettivamente interpretata come l’atto di fondazione di quella che viene oggi spesso definita come Italian Theory[20]. Ma nella rivendicazione della parzialità operaia, e nell’idea secondo cui la classe operaia non aveva bisogno di alcuna ideologia, si possono rintracciare anche le basi di quell’operazione di storia critica della letteratura italiana che Asor Rosa avrebbe compiuto in Scrittori e popolo. Già sul terzo numero dei «Quaderni rossi», apparso nel 1963, Umberto Coldagelli e Gaspare De Caro – due allora giovani studiosi che, fin dagli anni Cinquanta, avevano intrapreso un percorso comune insieme ad Asor Rosa e Tronti, inizialmente all’interno della sezione comunista della Sapienza – applicarono la proposta del «punto di vista operaio» al campo della ricerca storica[21]. Nello schema che delineavano, la «rigorosa assunzione di un punto di vista operaio che sia di alternativa globale al sistema nel suo pieno sviluppo» costituiva il presupposto per una ricostruzione «del recente passato italiano – il giolittismo, la crisi della guerra e del dopoguerra, il fascismo, l’antifascismo, la ‘ricostruzione democratica’ – come fasi determinate dello sviluppo capitalistico in Italia»[22]. E ciò implicava soprattutto il rifiuto radicale di alcuni motivi consolidati della storiografia di sinistra, tra cui in special modo la convinzione – ripresa da Gramsci – secondo cui la classe operaia doveva assumere nella vicenda italiana un «ruolo nazionale», e secondo cui solo il suo ingresso sulla scena era in grado di risolvere i nodi cruciali ereditati dall’unificazione. Un simile «elevamento» al ruolo nazionale, secondo Coldagelli e De Caro era in realtà solo un riflesso storiografico «del tentativo storico di integrazione della forza-lavoro sociale dentro il processo di funzionamento del sistema capitalistico», un’integrazione che si realizzava, oltre che sul piano politico, «anche attraverso la diffusione di un giudizio determinato sulle vicende storiche dello sviluppo capitalistico»[23]. Se alla base delle interpretazioni dominanti nella storiografia di sinistra stava la convinzione che il capitalismo italiano fosse ‘arretrato’ e che solo l’azione delle forze «democratiche e popolari» potesse limitare le conseguenze più deleterie del ‘ritardo’ e dell’azione dei ‘monopoli’, Coldagelli e De Caro sottolineavano invece la necessità di riconoscere come le diverse tappe della storia italiana della prima metà del Novecento (e tra queste anche il fascismo) si inquadrassero pienamente nella logica di uno sviluppo capitalistico, destinato a giungere anche, nel secondo dopoguerra, a una piena integrazione delle organizzazioni del movimento operaio. Ma la rivendicazione più nota del «punto di vista operaio» doveva giungere proprio da alcuni articoli in cui Asor Rosa esplicitava nel modo forse più radicale le conseguenze che, sul terreno culturale, comportava la scoperta della ‘parzialità’.

Sul secondo numero dei «Quaderni rossi» – lo stesso in cui appariva l’editoriale di Tronti su La fabbrica e la società – Asor Rosa chiariva infatti in modo nitido la portata della rottura che la rivista intendeva operare, sia rispetto alla linea delle organizzazioni del movimento operaio, sia rispetto alle coordinate della politica culturale definite dal Pci. Il presupposto della ricerca dei «Quaderni rossi» era innanzitutto – secondo la sintesi proposta da Asor Rosa – la convinzione che la società italiana fosse ormai diventata una società pienamente capitalistica, e che proprio questa trasformazione assegnasse una indiscutibile centralità all’industria. I partiti operai non avevano invece compreso che il processo di sviluppo andava modificando profondamente la realtà italiana, e soprattutto non avevano in alcun modo riconosciuto il nuovo ruolo che in questo quadro la classe operaia assumeva, come «antagonista globale» al sistema capitalistico. Le trasformazioni del capitalismo e la centralità dell’industria richiedevano perciò una rottura, non solo politica ma anche teorica. Una rottura che certo doveva riportare a Marx, ma che doveva anche utilizzare Marx «come strumento d’interpretazione e di saggio della realtà del mondo capitalistico e delle lotte della classe operaia, in una prospettiva di trasformazione pratica»[24]. E ciò significava assumere il «punto di vista operaio» sulla realtà, rifiutando programmaticamente qualsiasi ipotesi fondata sulla «neutralità» dell’indagine. «La classe operaia», scriveva Asor Rosa, «rappresenta […] il luogo sociale dove l’alienazione che il capitalismo irradia da sé su tutta la società raggiunge il suo culmine, il maximum insuperabile», e proprio questa condizione consentiva «un maximum di conoscenza, una possibilità che nessun altro gruppo sociale ha di conoscere e giudicare se stesso e la società in cui vive»[25]. Anche la ricerca teorica – o quantomeno una ricerca teorica che intendesse svolgere una funzione effettivamente «rivoluzionaria» – doveva dunque necessariamente assumere il «punto di vista operaio». E proprio in questo senso Asor Rosa scriveva: «una cultura non potrà essere moderna (in tutta l’estesa gamma dei significati, appunto teorici e pratici, di conoscenza e di trasformazione, che la definizione comporta) se non sarà la cultura della classe operaia (ossia della classe che, nello stesso tempo, pone l’esigenza della più approfondita conoscenza e della più radicale trasformazione della società contemporanea)»[26].

Le indicazioni di metodo enunciate in quel primo intervento preludevano già chiaramente a un rifiuto delle ideologie contrassegnate dalle tematiche «populistiche, nazional-popolari, risorgimentalistiche, idealistico-marxiane, socioculturalistiche»[27], ma questi aspetti dovevano tornare in maniera ancora più energica qualche anno dopo, sulle pagine di «classe operaia». Il giornale nasceva d’altronde con l’obiettivo di un intervento politico diretto, in contrapposizione alla linea dei partiti di sinistra, e non solo dunque con l’ambizione di contribuire a un aggiornamento teorico che i «Quaderni rossi» e soprattutto Panzieri avevano considerato come del tutto compatibile con la conservazione di un rapporto con le grandi organizzazioni del movimento operaio. La convinzione attorno alla quale si era coagulato il gruppo (in realtà molto eterogeneo) che diede vita all’esperienza di «classe operaia» era infatti che fossero mature le condizioni per una rottura radicale[28]. E nella maturazione di quella scelta certo avevano giocato un peso sostanziale lo sciopero alla Fiat del luglio 1962 e la mobilitazione che in quei giorni ebbe come teatro Torino. Nella percezione dei giovani intellettuali-militanti dei «Qr», l’intensità della partecipazione operaia sembrava infatti confermare non solo l’idea che la classe operaia della Fiat si fosse risvegliata dopo il lungo sonno degli anni Cinquanta, ma soprattutto che essa esprimesse ormai un potenziale conflittuale radicale. «Ho ancora negli occhi», scriveva allora il giovane Asor Rosa, testimone diretto delle mobilitazioni torinesi (con parole che più tardi sarebbero state lette come la prima testimonianza dell’estetica estremista degli anni seguenti), «la visione di quella folla immensa, riunita ormai intorno a un odio, ad una contrapposizione elementare, che nessuna richiesta di ordine salariale o strettamente contrattuale potrebbe spiegare ed esaurire»[29]. La valutazione di Asor Rosa, e con lui degli altri membri della futura «classe operaia», era che il «potenziale rivoluzionario» emerso nel corso delle mobilitazioni torinesi non fosse un episodio isolato, e testimoniasse invece sia che gli operai Fiat non sarebbero «tornati indietro», sia, soprattutto, che non potevano essere «riassorbiti»[30].

Dopo una gestazione durata più di un anno (e in seguito alla lacerazione con il gruppo di Panzieri), la nascita di «classe operaia» configurava proprio il riflesso della volontà di convogliare in una nuova linea teorica e operativa la «carica rivoluzionaria» manifestatasi nel luglio 1962. Il taglio ancora più marcatamente militante della rivista – che si definiva nella testata come «mensile politico degli operai in lotta» – emergeva d’altronde anche negli interventi dedicati a temi di critica culturale, come quelli di Asor Rosa. In un celebre articolo del 1964, Elogio della negazione, il giovane studioso di letteratura applicava infatti le ipotesi trontiane sull’estensione della fabbrica anche alla dimensione culturale, giungendo a riconoscere come la logica della produzione capitalistica coinvolgesse persino il lavoro degli intellettuali. L’«integrazione», secondo quanto sosteneva allora Asor Rosa, non riguardava soltanto le organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio, ma anche la produzione culturale, nel senso che il neo-capitalismo era ormai in grado di assorbire dentro la sua logica qualsiasi discorso, e dunque anche posizioni radicalmente critiche. «La realtà è che la borghesia ha raggiunto una forza tale da accogliere tutte le possibili istanze, – dico tutte – purché si accontentino di restare istanze ideali e culturali», tanto che ormai, scriveva, «la cultura di opposizione è, tout court, la Cultura, ossia la cultura borghese, la cultura del sistema capitalistico»[31].

Riconoscere che nessuna forma di produzione sfuggiva ormai «alla legge di alienazione e d’integrazione» produceva però, secondo Asor Rosa, due conseguenze decisive. Innanzitutto era necessario prendere atto che la «battaglia culturale», cui il Pci di Togliatti aveva assegnato un fondamentale ruolo strategico, era ormai conclusa, dal momento che la «Cultura» appariva pienamente integrata nella logica del neo-capitalismo: «tutta legata strettamente a strutture oggettive, del meccanismo capitalistico, cui aderisce con la stessa spontaneità e naturalezza di pelle su carne e di carne su osso, si presenta essa stessa, non più necessariamente mediata attraverso il livello ideologico, della società capitalistica»[32]. Ma, in secondo luogo, era indispensabile anche liberarsi dell’idea che si dovesse aspirare, o contribuire a costruire, una «cultura operaia», perché una simile aspirazione non avrebbe fatto altro che perpetuare l’equivoco secondo cui la classe operaia rappresentava «dentro il sistema capitalistico una tensione universalistica più universale (cioè più generalizzante) di quella espressa dalla borghesia»: un equivoco in cui, cioè, la cultura diventa «espressione di questa tendenza generica della classe operaia, un modo per essa di farsi più vicina e rispondente all’ideale di una vita più umana da parte dell’Uomo»[33]. L’unica via per Asor Rosa rimaneva invece quella di una critica della «Cultura», intesa come critica di qualsiasi pretesa ‘generalizzante’, a partire dalla parzialità del «punto di vista operaio». Il punto di partenza era perciò proprio il riconoscimento che «la classe operaia pone nella lotta anticapitalistica esattamente la presenza e l’esigenza della propria drastica e irriducibile particolarità», e dunque «il suo essere estranea ed altra rispetto al sistema, il suo manifestarsi come contraddizione permanente e fondamentale rispetto al capitalismo»[34].

Il «punto di vista operaio», avrebbe chiarito Asor Rosa in termini ancora più espliciti alcuni mesi dopo, «rappresenta la drastica negazione del principio che esista una scienza in generale, come non esiste un interesse generale della società». Tanto che andava rovesciata la logica tradizionale del lavoro intellettuale: una logica per cui «un prodotto della cultura e dell’ideologia ha sempre in sé la tendenza implicita a porsi come verità universale», in una visione in cui, implicitamente, «la validità universale della cultura non è poi altro che l’espressione (e la funzione) d’un interesse generale sociale», ossia «l’interesse della società capitalistica»[35]. Al contrario, «il punto di vista operaio» risultava «esente da valori», dal momento che non partecipava «di quella tendenza universalistica culturale, di cui i valori rappresentano l’agglutinamento concettuale, la concrezione storica ed assoluta insieme»[36]. E proprio per la radicale avversione a ogni prospettiva che facesse ricorso al piano dei valori, Asor Rosa poteva indirizzare una critica spietata a Vittorio Rieser e ai «Quaderni rossi» dopo la morte di Raniero Panzieri, accusati di adottare acriticamente non solo gli strumenti della sociologia, ma anche la distinzione weberiana fra il piano della ricerca scientifica e quello delle scelte di valore[37].

Asor Rosa – e qui si nascondeva certo un’ambiguità di non poco conto – non giungeva però a negare la legittimità di una ricerca teorica in senso «rivoluzionario», perché in realtà indicava l’obiettivo di «ricondurre ogni ricerca intellettuale al significato o alle funzioni della particolarità e dell’autonomia operaia»: un obiettivo che significava per il giovane storico della letteratura «porre la necessità di una spietata autodistruzione critica da parte di tutte le discipline culturali borghesi»[38]. In altre parole, se per un verso l’assunzione del «punto di vista operaio» doveva dissolvere «la possibilità di mantenere in piedi l’unità intellettuale e spirituale della cultura», per l’altro lasciava però in piedi – come attività intellettuale legittima – «la critica dell’ideologia»[39]. E proprio la prospettiva della «critica dell’ideologia» doveva aprire uno spazio per un diverso utilizzo delle discipline culturali. «Se io strappo alle discipline culturali la loro testa di valori, e se le riduco a delle semplici tecniche, da usare con il massimo disprezzo secondo le opportunità che di volta in volta si presentano, si vedrà che qualcosa di buono può ancora uscirne fuori»[40]. Questo percorso non poteva portare a «un perfezionamento disciplinare o culturale», ma poteva comunque offrire qualche utilità, almeno nel caso in cui si fosse pienamente consapevoli che «gli strumenti specifici dell’indagine» dovevano essere «fatti funzionare non per se stessi, ma contro se stessi»[41].

Del discorso di Asor Rosa non potevano certo passare inosservati sia il tono, che forse si richiamava più alle avanguardie artistiche dei primi del Novecento che alla tradizione del movimento operaio, sia la radicalità, in questi termini largamente sconosciuta al dibattito italiano. D’altro canto, la stessa rivendicazione della ‘parzialità’ operaia doveva scontrarsi frontalmente con l’intero patrimonio della cultura progressista italiana: non soltanto dunque con il patrimonio condiviso dagli intellettuali più fedeli alle linee di politica culturale del Pci, ma anche con la visione di quegli intellettuali che – pur appartenendo al campo della sinistra italiana, come Italo Calvino – guardavano con interesse alle sperimentazioni delle avanguardie e che riflettevano sulle trasformazioni che l’avvento del «neo-capitalismo» produceva sul lavoro letterario. In un articolo pubblicato sulla rivista «Il menabò» nel 1964, lo stesso anno in cui iniziava le pubblicazioni «classe operaia», Calvino delineava per esempio anche una critica alla visione dell’«antitesi operaia» che i «Quaderni rossi» avevano iniziato a formulare[42]. E se negli ultimi decenni Calvino è diventato per Asor Rosa l’«ultimo dei classici», allora per il giovane militante operaista il discorso dell’autore del Visconte dimezzato e del Barone rampante costituiva soltanto l’ennesima esemplificazione dell’ideologia dell’«integrazione»[43].

La lunga strada del populismo letterario italiano

Le conseguenze ‘scandalose’ che derivavano dall’adozione del «punto di vista operaio» dovevano però emergere ancora più chiaramente da Scrittori e popolo, nelle cui pagine venivano frontalmente attaccati molti intellettuali che erano stati – ed erano ancora – veri e propri pilastri ‘culturali’ della sinistra italiana. Già nell’Introduzione Asor Rosa chiariva come Scrittori e popolo fosse, al di là dei risultati, il tentativo di «applicare a un importantissimo aspetto della letteratura otto-novecentesco quella critica di parte operaia», che costituiva «l’obiettivo ultimo della nostra ricerca presente»[44]. «Critica operaia» significava in quel caso osservare nel suo sviluppo storico quell’atteggiamento letterario in cui «l’esigenza di un rapporto con il popolo» diventava «scelta ideologica», con la conseguenza di «una nozione precisa e consapevole dei compiti assegnati allo scrittore nel quadro di un ceto dirigente nazionale» (SP 4). Quando parlava di «populismo» naturalmente Asor Rosa non intendeva quell’impasto di demagogia, cesarismo, xenofobia e ‘anti-politica’ cui oggi, non solo in Italia, ci si riferisce generalmente con questa espressione. Il populismo cui Asor Rosa dedicava la propria indagine era una visione, ravvisabile alla base del discorso letterario, che assegnava al popolo una «valutazione positiva, sotto il profilo ideologico oppure storico-sociale oppure etico» (SP 19). Nelle diverse versioni, il popolo offriva dunque un modello positivo, in senso etico o politico, da contrapporre alle classi dirigenti rappresentate come ‘corrotte’. Inoltre, in queste raffigurazioni il popolo si saldava stabilmente con la nazione, diventando il perno di un discorso letterario tutto incentrato sulla prospettiva di un autentico «progresso». Asor Rosa poteva così ritrovare le tracce remote di questa impostazione già in Gioberti (in cui intravedeva addirittura un’anticipazione del «blocco storico» gramsciano), e naturalmente in Mazzini, in cui emergevano in modo nitido sia «l’atteggiamento antioperaio», sia l’obiettivo di ricondurre il ‘particolarismo’ delle rivendicazioni operaie dentro la figura universale delle «Patria». «Il popolo», nella variante mazziniana, svolgeva infatti «la funzione precipua di riassorbire le eventuali spinte particolaristiche ed eversive dei ceti subalterni in uno sviluppo generale della società, a cui tutte le classi, affratellate, devono partecipare» (SP 34). Proprio in virtù di questo obiettivo, il populismo di Mazzini doveva inoltre caricarsi immediatamente di una funzione pedagogica, perché diventava necessario contrapporre all’egoismo operaio «il disinteresse, la generosità, l’idealismo del popolo» (SP 34). E un simile modello sarebbe stato in seguito adottato da quanti avrebbero visto il popolo «come interprete e simbolo di un complesso di idealità e di valori, per i quali esso deve lottare nel tentativo di compiere per intero la propria missione spirituale sulla terra», e che per questo si sarebbero assunti il compito pedagogico di «allevare nel popolo tutti i germi della sua spontanea generosità» e «di preparare le classi dominanti ad una considerazione più attenta dei problemi popolari» (SP 35).

Nel grande affresco dipinto da Asor Rosa, si collocavano ovviamente anche – con una posizione specifica – i cattolici liberali, e in questo senso lo stesso Manzoni diventava in qualche misura il padre di quella «rappresentazione compiaciuta (e magari affettuosa) della subordinazione popolare» e della «tendenza a considerare un bene (dello spirito) tutto ciò che appartiene al suo essere inferiore sulla terra» (SP 40). Ma nel disegno di Scrittori e popolo quasi tutti grandi i romanzieri e poeti italiani della seconda metà dell’Ottocento e dei primi anni del XX secolo risultavano portatori di frammenti dell’ideologia populista in formazione, perché Asor Rosa faceva rientrare in questa genealogia autori molto diversi: fra gli altri, Ippolito Nievo, il Carducci cantore della «plebe vile» disposta a morire per la propria libertà, il De Amicis di Cuore, l’anarchico Pietro Gori, Alfredo Oriani, Giovanni Pascoli ed Enrico Corradini. A questo disegno generale si sottraeva l’eccezione rilevante di Verga e del verismo, i quali però anticipavano l’interesse per il regionalismo e la dimensione locale che avrebbe poi contrassegnato molta della letteratura populista della prima metà del Novecento. Una letteratura di cui Asor Rosa riconosceva i primi passi nella formazione della «retorica strapaesana» – delineata già negli anni Venti soprattutto da Curzio Malaparte e dalla rivista «Il Selvaggio» di Mino Maccari – che «combatte l’Italia falsamente europea con i miti della Italia veramente provinciale» (SP 85).

Proprio quando l’indagine si dirigeva verso la «retorica strapaesana» doveva però emergere uno degli aspetti più provocatori dell’analisi di Scrittori e popolo. Asor Rosa non mostrava semplicemente che alcuni tra i più importanti romanzieri avvicinatisi durante la Resistenza al Partito comunista – e tra questi soprattutto Vasco Pratolini ed Elio Vittorini – in gioventù avevano sostenuto energicamente il regime, ma soprattutto chiariva che molti dei motivi al centro della loro produzione resistenziale e post-resistenziale si erano delineati negli anni Trenta, proprio in riviste espressione dell’intellighenzia fascista come «Il Selvaggio», «Il Bargello» e «L’Universale». Il discorso di Asor Rosa, d’altronde, doveva risultare ‘scandaloso’ non tanto perché riportava alla luce un passato che i protagonisti probabilmente preferivano dimenticare, quanto perché riconosceva una sostanziale continuità nel percorso che li aveva condotti dall’«antiborghesismo» degli anni del regime fino all’adesione al comunismo. «Dentro il fascismo di sinistra e durante il ventennio», scriveva infatti Asor Rosa, si era elaborato in questi scrittori «un vivo interesse per una problematica sociale e popolare», e in seguito «il mito della giustizia sociale e l’esaltazione del popolo lavoratore contrapposti magari moralisticamente alla corruzione borghese» avrebbero trovato uno sviluppo pienamente coerente prima passando «dal nazionalismo orianesco al rivoluzionarismo fascista», e approdando infine – in una successiva metamorfosi – a una «soluzione democratica» (SP 109). «Il comunismo», per questi intellettuali, sarebbe apparso infatti, a un certo punto del loro percorso, «la corretta applicazione e il pratico inveramento di una serie di esigenze culturali e sociali, che nessun movimento precedente, anche quando le aveva poste, era stato capace di soddisfare» (SP 109). Ma ovviamente, nella loro prospettiva, una «reale visione di classe» – e cioè, per Asor Rosa, la parzialità del «punto di vista operaio» – non si sarebbe mai affacciata, tanto che il populismo avrebbe così continuato a rimanere soltanto «il modo tipico di porsi dei letterati e della ‘cultura’ di fronte alla società» (SP 109).

Naturalmente tutta l’analisi retrospettiva della letteratura italiana fra Otto e Novecento condotta da Asor Rosa preludeva alla rilettura della produzione del secondo dopoguerra, e non era dunque casuale che il capitolo più lungo di Scrittori e popolo fosse intitolato La Resistenza e il gramscianesimo: apogeo e crisi del populismo. Era infatti in corrispondenza con la Resistenza e la fine della guerra che la tendenza populista, lentamente maturata nel corso dei decenni precedenti, trovava il proprio sbocco. «Quella che era stata fino allora una proposta di tendenza, chiusa quasi sempre entro i confini di ristretti gruppi intellettuali», scriveva Asor Rosa, «diviene, e resta per un certo periodo, la proposta dominante nell’ambito del dibattito ideologico nazionale» (SP 124). Pur essendo il populismo resistenziale e post-resistenziale «il più consapevole, il più ‘organizzato’, al livello ideologico e politico, di tutta la nostra storia letteraria», non sarebbe però mai riuscito «a presentarsi allo stato puro, superando contraddizioni interne di scelte stilistiche, tematiche, sentimentali e di gusto» (SP 125). E anzi, con l’eccezione della produzione cinematografica, «la presenza massiccia di ragioni ideologiche assai forti e nello stesso tempo assai confuse e velleitarie, produsse come conseguenza l’incapacità di creare una grande, matura cultura popolare» (SP 125). I limiti del populismo che Asor Rosa sottolineava così impietosamente affondavano le radici in una visione che si estrinsecava nell’indignazione, democratica e umanitaria, per le condizioni delle classi subalterne, in un atteggiamento generale che sfociava dunque nella denuncia per l’arretratezza socio-economica dell’Italia, e infine nell’appello all’unità di tutte le forze popolari all’interno di un comune fronte progressista. E in una prospettiva del genere naturalmente la classe operaia – cui Asor Rosa e gli operaisti guardavano come «leva materiale» di critica del sistema – giocava un ruolo del tutto secondario, perché figurava nel «popolo» accanto ad altri strati sociali, con i quali doveva necessariamente collaborare (anche mettendo in secondo piano le proprie richieste ‘particolari’).

I bersagli principali di Asor Rosa non potevano che essere Pratolini e Vittorini, oltre che Cesare Pavese. Uomini e no di Vittorini era per esempio definito come «un’opera profondamente sbagliata», «un ibrido, approssimativo connubio di progressismo e di avanguardismo, di esclusivo, chiuso spirito borghese e di moralistiche aperture verso il popolo», il frutto della «pretesa di imporre al mondo come soluzione dei suoi problemi un atteggiamento intellettuale, che sa di tradizione e di casta» (SP 133). Di Pavese Asor Rosa apprezzava invece la consapevolezza dei rischi dell’«andare verso il popolo», ma giungeva alla conclusione che neppure l’autore di La luna e i falò, e soprattutto di Paesi tuoi e del Compagno, era stato immune dal contagio del progressismo. «Si rifiuta il misticismo dell’‘andata al popolo’», notava, «ma gli si sostituisce il misticismo di una apparentemente spontanea identificazione intellettuale con il popolo, fondata viceversa sul convincimento altamente ideologizzato che il compito della cultura è già di per sé una funzione sociale» (SP 138). Ma, soprattutto, le preoccupazioni principali di Pavese sembravano rimanere «di natura autobiografica e intimistica», col risultato che il popolo appariva «mediazione ideologica, camuffata di vesti sociali, fra la soggettività preminente dello scrittore e l’insieme di miti, che costituiscono la sua cultura: in altri termini: un ipotetico, salutare istrumento, destinato a colmare in qualche modo il solco fra l’individuo e la realtà, strappando l’uno ai suoi mali più inveterati e profondi, assegnando all’altra un senso e una prospettiva» (SP 138-139). Era però probabilmente a Pratolini – uno scrittore che peraltro Asor Rosa conosceva in modo molto approfondito, dal momento che aveva dedicato alla sua produzione la tesi di laurea e la prima monografia[45]  – che veniva riservata l’analisi più tagliente. Al Pratolini del Quartiere e di Cronache di poveri amanti, Asor Rosa riconosceva la capacità di «interpretare ed esprimere con fervida sincerità quell’esigenza umanitaria, che il movimento intellettuale della Resistenza portava con sé come carattere distintivo fondamentale» (SP 148), ma la valutazione cambiava decisamente quando l’analisi si spostava sulla parabola successiva del romanziere fiorentino, destinata ad approdare a Metello. D’altronde, libri come Cronache di poveri amanti, come Uomini e no, come Cristo si è fermato a Eboli, erano intesi come il frutto più maturo di una riflessione avviata negli anni del regime e giunta a maturazione nel periodo della Resistenza.

Già poco dopo il 1945 prese infatti a delinearsi un ripiegamento, di cui la produzione matura di Pratolini era testimonianza, ma le cui radici erano riconducibili – oltre che nell’esaurimento di una stagione di forte mobilitazione – nelle scelte culturali operate dal Pci. L’allineamento alle coordinate dello ždanovismo, che richiamava gli intellettuali comunisti all’impegno realista e intimava al tempo stesso un netto rifiuto dello sperimentalismo borghese, era infatti destinato a modificare la fisionomia del populismo italiano, il quale rimaneva l’orientamento di fondo, ma che perdeva alcuni dei suoi tratti originari. «Lo ždanovismo», sintetizzava infatti Asor Rosa, «strappa al populismo italiano le sue ambizioni europee, ne esalta i caratteri nazional-provinciali, recide i legami di gusto e formali tra le esperienze nostrane e quelle straniere, subordina rigidamente la ricerca ad un fine utilitario, propagandistico più che politico, sostituisce al riformismo talvolta generoso degli intellettuali il riformismo gretto e settario dei burocrati» (SP 165). Combinato con la lettura di Gramsci avviata in questo periodo, lo ždanovismo contribuiva inoltre a favorire l’«accentuazione dentro il movimento progressista di una serie di particolarismi locali e provinciali» (SP 176), e dunque col portare a compimento una tendenza che alcuni degli scrittori populisti considerati da Asor Rosa avevano in fondo iniziato a coltivare per l’influenza della retorica di Malaparte e di «Strapaese». A differenza della tradizione regionalistica, e dello stesso precedente verista, il populismo post-resistenziale tendeva comunque a perdere qualsiasi carattere di originalità, giungendo persino all’«adesione involontaria ma evidentissima, ad un complesso di valori arcaici, pre-storici, che quel popolo coltiva» (SP 177). In sostanza, se in questa letteratura non mancava un elemento di denuncia delle condizioni in cui vivono le classi popolari, osservava Asor Rosa, emergeva soprattutto «quell’aspetto esclusivamente intellettualistico di ‘andata al popolo’, che poggia a sua volta sulla base irrazionale di una confidente ammirazione verso tutto ciò che negli strati inferiori della società è genuino, puro, istintivo, incorrotto: il mito del ‘buon selvaggio’ italiano, capace di sbrigarsela in ogni occasione, senza rinunciare al sentimento e al buon cuore, trova in questo periodo innumerevoli cultori» (SP 177-178) Nelle versioni più ottimistiche, il mito del ‘buon selvaggio’, senza venir meno, assumeva invece i contorni del Partito comunista e del Movimento operaio, «anch’essi contraddistinti da sentimento e buon cuore, fatti insomma ad immagine e somiglianza del popolo, che dovrebbero redimere e salvare» (SP 178). Proprio di questa nuova versione del populismo – «impasto di folklore, impegno democratico, spirito comunale, velleità intellettualistiche di evasione e prospettive politiche progressiste» (SP 178) – risultava espressione paradigmatica la parabola compiuta da Pratolini con Le ragazze di San Frediano e Metello, oltre che da buona parte della produzione narrativa degli anni Cinquanta. Ma si trattava ormai di opere che, a giudizio di Asor Rosa, segnavano lo «svuotamento» del populismo, e che preludevano cioè alla crisi di quell’ideologia.

La crisi del populismo non scaturiva però da un consapevole ripensamento, e non rispondeva neppure alle sollecitazioni di una critica letteraria che invece, appariva solidamente posizionata a salvaguardia del «gramscianesimo». La crisi di una tradizione dalle radici così profonde nasceva invece proprio dal cambiamento della società italiana, e cioè dalla trasformazione prodotta dal neo-capitalismo post-bellico, che i «Quaderni rossi» avevano salutato come l’affermazione della centralità dell’industria nell’organizzazione sociale e in cui avevano riconosciuto il presupposto per abbandonare la vecchia polemica progressista sull’‘arretratezza’ socio-economica della Penisola. «Dalle maglie spezzate dell’equivoco populista», poteva infatti manifestarsi «nella sua nuda ed impressionante autonomia l’entità reale di massa della classe operaia» (SP 203). E ciò significava anche che la letteratura populista emergeva chiaramente ormai come una letteratura che si rivolgeva «ai piccolo-borghesi contemporanei, facilmente manovrabili e influenzabili da un discorso che faccia sentimentalmente appello a temi come ‘la lotta per la vita’, la miseria, la solidarietà, l’amicizia» (SP 203). Ma da tutto questo la classe operaia – e qui il discorso di Asor Rosa era inequivocabile – rimaneva totalmente estranea. «Il populismo non la tocca», scriveva, «perché essa vive quotidianamente nel rifiuto delle piccole speranze e dei prudenti traguardi, che son poi quelli del riformismo popolare di ogni tempo» (SP 203).

La conclusione cui approdava Asor Rosa non riguardava però solo il destino del populismo italiano, perché implicava un giudizio politico e artistico su ciò che questa tendenza aveva rappresentato nello sviluppo della storia letteraria italiana. La prima enorme responsabilità era ovviamente collocata a livello politico, e un simile giudizio scaturiva linearmente dalle stesse premesse del discorso, ossia dall’assunzione della centralità del «punto di vista operaio». Rappresentare il popolo, all’interno della tendenza populista, aveva infatti significato soprattutto «sposarne il tendenziale immobilismo, l’eterogeneità dei fattori sociali che lo compongono, la nostalgia del passato, che in esso cova sempre su di un fondo di ambigue simpatie, volta a volta progressiste o reazionarie» (SP 215). Ben più sorprendente era forse la seconda responsabilità che veniva addossata al populismo, considerato colpevole di avere ostacolato lo sviluppo di una «letteratura grande-borghese» (SP 222). E, così, poteva concludere la ricostruzione polemica di Scrittori e popolo osservando che letteratura italiana aveva annoverato «soltanto quattro o cinque nomi di grandi scrittori borghesi (Verga, Svevo, Montale, Gadda e in parte Pirandello)», ciò doveva essere imputato all’egemonia dei populisti, e al fatto che, dopo aver affermato la necessità di superare alcune tendenze formaliste sorte nei primi decenni del secolo, «finirono per fare di ogni erba un fascio, accomunando nella condanna  decadentismo e avanguardismo, astrattismo e cubismo» (SP 222).

La valutazione era sorprendente perché, se da un lato Asor Rosa (rivendicando la necessità di adottare il «punto di vista di operaio») elevava l’impegno militante a criterio di base anche della critica culturale, per l’altro considerava l’enfasi assegnata all’«impegno» politico e civile da parte della cultura progressista come uno dei fattori principali che avevano impedito in Italia lo sviluppo dell’inventiva artistica e lo sperimentalismo, componenti che avevano invece contraddistinto la letteratura europea della prima metà del Novecento. In realtà si trattava di una convinzione che avrebbe indirizzato il lavoro di ricerca condotto da Asor Rosa sulla letteratura europea. Buona parte della sua attenzione si sarebbe rivolta infatti, nella seconda metà degli anni Sessanta, alla grande letteratura «borghese» di inizio secolo, e in particolare a Thomas Mann, figura paradigmatica dell’«ambiguità borghese»[46]. Ma anche quando il suo sguardo si sarebbe rivolto a quegli scrittori che – come Babel’ e Majakovski – avevano consapevolmente collocato la loro produzione artistica dentro un processo rivoluzionario, assumendo un ruolo esplicitamente militante, Asor Rosa non avrebbe rinunciato alla convinzione secondo cui, ai fini degli esiti artistici, l’impegno politico non è affatto determinante, ed è anzi probabilmente del tutto irrilevante[47].

Ambiguità dell’intellettuale

Mettendo a confronto le tesi di Scrittori e popolo con le valutazioni delineate mezzo secolo dopo in Scrittori e massa, non può non apparire in modo evidente una radicale inversione a proposito del ruolo della tradizione. Se infatti il «rispetto della tradizione» era per la tendenza populista un vincolo formidabile che distoglieva «dal tentare strade nuove e inusitate» (SP 216), ora, come si è visto, la fine della «tradizione letteraria» è considerata come uno dei tratti caratteristici dell’era della «massa», e dunque della stagione degli ‘scrittori massa’ contemporanei[48]. Naturalmente il modo con cui oggi Asor Rosa intende la «tradizione» è molto diverso da quello cui si rivolgeva causticamente in Scrittori e popolo, e in questo senso la distinzione che formula tra la ricerca del «nuovo» che contrassegnava le avanguardie novecentesche e il «nuovismo» della letteratura contemporanea coglie senz’altro un aspetto reale di una percezione del processo storico che tende a schiacciarsi, e a uniformarsi, nell’omogeneità del presente. D’altronde, non si tratta certo dell’unica modificazione intervenuta nel corso del tempo all’interno della visione dello storico. Perché in effetti, già poco dopo la pubblicazione di Scrittori e popolo, Asor Rosa iniziò a riconsiderare criticamente un elemento non marginale della propria posizione. Un elemento che non aveva a che vedere con le reazioni polemiche degli scrittori e degli intellettuali che erano stati inseriti nella genealogia del populismo italiano, ma che riguardava invece proprio il «punto di vista operaio»[49]. E si trattava peraltro di un elemento che aveva più di qualche connessione con l’analisi proposta oggi in Scrittori e massa.

Nell’impostazione che Asor Rosa aveva delineato nei suoi articoli più militanti – come soprattutto Fine della battaglia culturale ed Elogio della negazione – era facile intravedere un’insidia tutt’altro che marginale. Un’insidia che chiamava in causa il nodo cruciale rappresentato dal ruolo dell’intellettuale, un nodo ben noto al marxismo, ma che la visione proposta da Asor Rosa indirizzava verso un esito senza dubbio rilevante. Come si è visto, la premessa del discorso di Asor Rosa – ma in realtà di tutto l’operaismo degli anni Sessanta – era la convinzione che l’Italia fosse ormai diventata un paese pienamente capitalistico, dominato dagli imperativi dell’industria. Una simile condizione investiva evidentemente soprattutto la classe operaia, ma Asor Rosa non aveva mancato di ricordare anche che l’industrializzazione – o, meglio, la penetrazione della logica della produzione capitalistica in tutto lo spettro sociale – toccava da vicino lo stesso lavoro intellettuale, e proprio in questo senso aveva scritto che nessuna produzione culturale poteva ormai sfuggire «alla legge di alienazione e integrazione». Il discorso sulle trasformazioni del lavoro intellettuale rimaneva però del tutto marginale non solo nelle argomentazioni di Asor Rosa ma, in generale, in tutte le analisi dei «Quaderni rossi» e di «classe operaia», i quali dedicavano piuttosto un’attenzione non del tutto marginale ai «tecnici» utilizzati all’interno dell’industria. A un certo punto della riflessione operaista, doveva così fatalmente emergere (o riemergere) la questione di quale fosse il ruolo degli intellettuali-militanti.

L’operaismo degli anni Sessanta – e in particolare quello che era nato dalla «rivoluzione copernicana» di Tronti – aveva messo radicalmente in questione la visione del rapporto tra partito e classe canonizzata dalla tradizione leninista. E, in questo modo, aveva implicitamente abbandonato anche l’idea del ruolo rivestito dagli intellettuali che a quella concezione risultava strettamente legata. Nella classica visione leninista, l’intellettuale, all’interno del partito rivoluzionario, assume infatti un profilo specifico, in quanto – pur non essendo espressione della classe operaia, ma provenendo anzi dalla borghesia – ricopre un ruolo di «avanguardia» in virtù della sua preparazione teorica: proprio la preparazione teorica (ossia la conoscenza del marxismo e il corretto utilizzo dei suoi strumenti analitici) consente infatti all’intellettuale di poter ‘vedere’ i compiti ‘strategici’ della classe, e dunque di correggere la tendenza spontanea della classe operaia a dirigersi verso il ‘tradeunionismo’. In termini schematici – che ovviamente richiederebbero più di quale precisazione – è dunque il partito, guidato dagli intellettuali marxisti, a dover portare al proletariato, ‘dall’esterno’, la coscienza del proprio ruolo e dei propri compiti effettivamente rivoluzionari. Nella riformulazione operaista, questa impostazione veniva invece quasi completamente rovesciata. «La classe», come avrebbe scritto Tronti, «è solo strategia», e con ciò intendeva dire che la strategia di lungo periodo si trovava «materialmente incorporata nei movimenti di classe della massa sociale operaia»[50]. Al contrario, all’organizzazione politica spettava il momento della tattica, e cioè il compito di tradurre in «forma pratica» le indicazioni provenienti dalla strategia: in questo modo, la «coscienza di classe» cessava dunque di essere identificata con il livello di conoscenza maturato dalla classe nel corso del suo sviluppo storico-politico, per diventare semplicemente l’insieme delle indicazioni tattiche dell’organizzazione, o anche l’insieme delle valutazioni e delle proposte provenienti dal partito. «Se la classe è strategia», scriveva ancora Tronti, «la coscienza di classe è […] il momento della tattica, il momento dell’organizzazione, il momento del partito»[51]. Una simile impostazione ovviamente apriva una porta da cui poteva rientrare un’impostazione leninista (o neo-leninista), che in effetti sarebbe più volte ricomparsa nelle successive stagioni dell’operaismo e del post-operaismo. Ma, soprattutto, lasciava sostanzialmente inesplorata la questione del ruolo specifico giocato dagli intellettuali, e cioè del ruolo effettivo che questi ultimi giocavano all’interno dell’organizzazione.

Nel caso in cui gli intellettuali fossero stati considerati come forza lavoro intellettuale inglobata dentro le dinamiche del sistema capitalistico, avrebbero potuto essere intesi come parte della classe operaia (intesa in un senso allargato), e dunque come elementi che andavano a incidere sulla strategia. Ma non era certo questa la posizione prevalente che emergeva nell’operaismo degli anni Sessanta. Il riferimento centrale di tutto il discorso operaista di quel periodo rimaneva infatti sempre l’operaio di fabbrica, ma proprio per questo la questione del ruolo dell’intellettuale diventava una sorta di enigma. Perché, in linea teorica, l’assunzione del «punto di vista operaio» avrebbe implicato la negazione di qualsiasi ruolo per l’intellettuale esterno alla classe. E le posizioni esplicitate da Asor Rosa in Elogio della negazione e Fine della battaglia culturale andavano proprio in questa direzione: l’idea che la classe operaia fosse estranea a qualsiasi discorso sui valori e sulla cultura, insieme alla convinzione che essa non avesse alcuna necessità di ideologie, ossia di teorie che ‘spiegassero’ la sua condizione (perché il rifiuto radicale dell’organizzazione capitalistica del lavoro nasceva dal fatto, e non dalla coscienza, dell’alienazione), sembrava escludere del tutto non solo la necessità di una battaglia culturale, ma anche la stessa ipotesi che potesse davvero esistere una «cultura operaia». L’adozione di un’espressione come «scienza operaia», al posto di «cultura operaia», rifletteva d’altronde proprio una simile concezione. E forse l’idea di una «scienza operaia» appariva meno problematica per indicare la  «conricerca» teorizzata e sperimentata da Romano Alquati, ossia una ricerca in cui il ‘ricercatore-militante’ ricostruiva insieme ai lavoratori la geometria della fabbrica dal «punto di vista operaio», per poter realizzare un intervento diretto più efficace all’interno del processo produttivo. Ma l’immagine della «scienza operaia» doveva invece risultare ben poco efficace a proposito di attività di raffinata critica della cultura come quelle che conduceva lo stesso Asor Rosa.

In altri termini, a dispetto della rivendicazione della centralità del «punto di vista operaio», e a dispetto del rifiuto della «cultura» e dei suoi valori universali, in nome della parzialità della «scienza operaia», era evidente – persino clamorosamente evidente – che la battaglia condotta dagli operaisti tornava, almeno in una certa misura, a essere anche una «battaglia culturale» (seppur finalizzata ad affermare la centralità del conflitto di fabbrica). E, pertanto, quel ruolo intellettuale che teoricamente era stato assorbito dal «punto di vista operaio», doveva puntualmente riemergere nell’attività politica e culturale. D’altronde, dal momento che l’operaismo era un’operazione di revisione teorico-politica compiuta da intellettuali radicali, e non da operai di fabbrica, la negazione del ruolo dell’intellettuale – proclamata sul piano retorico con ben precise finalità polemiche e politiche – non poteva essere condotta fino alle sue più radicali conseguenze. E proprio questa ambiguità – di cui i protagonisti dell’operaismo erano d’altronde ben consapevoli – doveva in qualche modo indurre a una rapida revisione anche teorica.

Quando alla metà degli anni Settanta Asor Rosa raccoglieva in volume buona parte degli scritti della sua fase operaista, riconosceva d’altronde che il punto più critico dell’intera operazione avviata con «Quaderni rossi» e giunta sino a «Contropiano» era rappresentato proprio dal nodo della funzione specifica svolta dall’intellettuale all’interno della configurazione della «scienza operaia». La prima risposta – testimoniata dall’esperienza di «classe operaia» – era consistita in sostanza in un rinvio del problema e dunque nella trasformazione dell’intellettuale in militante politico: «smettiamo di fare cultura, facciamo politica, cioè usciamo decisamente dalla cultura, cancelliamo per ora (almeno) il problema della funzione intellettuale, salvo tornarvi quando la politica avesse risolto tutto». Ma, osservava retrospettivamente Asor Rosa, si trattava di «una risposta parziale e sostanzialmente evasiva», perché lasciava senza soluzione il problema principale: «come uscire dalla cultura per fare politica, restando intellettuali?». E questo problema «non poteva risolversi, continuando a muoversi entro la questione dei rapporti fra cultura come sistema di valori e classe operaia come antagonista del sistema»[52]. Una soluzione differente – secondo Asor Rosa – poteva giungere invece solo dal riconoscimento del rapporto «non naturale», ma «politico», fra intellettuali e classe operaia. «Non c’era niente, cioè, che giustificasse oggettivamente tale rapporto, che lo rendesse necessario ed ineluttabile», ed era invece indispensabile prendere atto che si trattava di un rapporto fondato su «qualcosa di soggettivo, anzi di altamente soggettivo, che lo rendeva utile e praticabile per ambedue i contraenti», ossia sulla politica: una politica «intesa non come attività sostitutiva dell’insieme delle funzioni intellettuali in quanto tali né come prodotto spontaneo dei movimenti di classe operaia, ma come sfera di attività autonoma e creativa volta alla trasformazione complessiva del reale sociale»[53].

Questa progressiva revisione teorica doveva scandire la vicenda di «Contropiano», nel periodo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, e doveva anche preludere all’ingresso di una componente del vecchio operaismo all’interno del Pci. Ma quella modificazione non poteva non implicare anche un deciso mutamento a proposito della collocazione del ruolo dell’intellettuale[54]. In altre parole, l’intellettuale non era più considerato – o almeno non era più considerato prevalentemente – come lavoratore intellettuale, inserito nel complessivo processo della produzione capitalistica. L’intellettuale tornava infatti a essere un intellettuale-politico, ossia una componente del ceto politico che contribuiva – grazie alla propria autonomia, alla propria creatività, alla propria competenza tecnica – alla costruzione di una «tattica», anche se un simile lavoro di esplicitazione della «tattica» trovava ora una collocazione prevalente sul terreno «politico» (e non più sul piano della lotta di fabbrica), e se per questo doveva fatalmente avere come principale referente l’organizzazione politica, il partito. In questo senso – ed era lo stesso Asor Rosa a sottolineare l’importanza del passaggio – l’«intellettuale come pensatore», ben distinto dall’«intellettuale come lavoratore»[55], assumeva le vesti di un «tecnico della conoscenza», capace di fornire un contributo «ai progetti di trasformazione sociale»[56]. E nel contesto del periodo, questo significava sostanzialmente fornire un contributo tecnico ai progetti di un Partito comunista che puntava a diventare forza di governo e che per questo doveva abbandonare il piano del dibattito ideologico per conquistare gli strumenti ‘scientifici’ necessari all’esercizio del potere[57].

Una simile revisione teorica – che per molti versi procedeva parallelamente alla scoperta trontiana dell’«autonomia del politico», come d’altronde la critica articolata in Scrittori e popolo aveva rappresentato una sorta di corollario alla «rivoluzione copernicana» di Operai e capitale – doveva condurre naturalmente a introdurre non poche variazioni rispetto al quadro procedente. E alcune di queste non potevano non investire anche l’interpretazione della vicenda culturale italiana fra Otto e Novecento che era stata al cuore di Scrittori e popolo. I termini di questa revisione dovevano apparire chiaramente, per esempio, nel famoso volume dedicato alla Cultura della Storia d’Italia dell’editrice Einaudi, apparso alla metà degli anni Settanta. Se infatti Asor Rosa tornava su temi che aveva già affrontato nel libro di dieci anni prima, ora – nel clima del «compromesso storico» e nella fiduciosa attesa che il Pci diventasse davvero forza di governo – molte valutazioni espresse nella Cultura apparivano quantomeno meno polemiche, rispetto a quelle di dieci anni prima, e non soltanto per il taglio meno ‘militante’ che il lavoro dell’Einaudi per molti versi richiedeva. Una sostanziale modificazione era per esempio ravvisabile a proposito di Gramsci. Nonostante Asor Rosa riproponesse la lettura critica del pensatore sardo svolta da Tronti[58], valorizzava però la riflessione sugli intellettuali, in cui per molti versi poteva trovare una convergenza con la propria visione dell’«intellettuale pensatore» operante all’interno dell’organizzazione politica. «La scoperta di Gramsci», sintetizzava per esempio, «è che anche la politica è attività intellettuale», e che «anche i politici sono intellettuali»; e precisava inoltre, a proposito proprio degli intellettuali: «la loro attività passa, per essere vitale, attraverso la politica; è parte integrante del Principe, alla cui riedizione concorrono e come politici e come specialisti»[59].

A dispetto di un simile mutamento, la valutazione delle sorti del populismo letterario non era però molto diversa da quella fornita dieci anni prima, e ancora una volta Asor Rosa trovava le testimonianze più evidenti della sua «crisi» nella produzione letteraria di Cassola e Pasolini, oltre che nei romanzi di Giorgio Bassani e Giovanni Testori, o nella traiettoria seguita dal cinema di Luchino Visconti. Ma forse ancora più rilevanti del mutamento intervenuto nelle linee interpretative della storia letteraria italiana erano le conseguenze che derivavano dal riconoscimento dell’ambiguità della figura dell’intellettuale. Perché è probabilmente è proprio a questo livello che vanno individuate, al tempo stesso, sia le premesse del discorso sviluppato da Asor Rosa nei decenni successivi, sia una serie di preziose intuizioni che invece vengono pressoché totalmente abbandonate.

Lavoro e pensiero

Quando Asor Rosa distingueva tra l’«intellettuale come pensatore» e l’«intellettuale come lavoratore» compiva senza dubbio, oltre che un’autocritica, anche un’operazione di chiarificazione intellettuale assolutamente opportuna. Proprio una simile distinzione avrebbe potuto consentire, in parallelo a un’analisi della trasformazione del lavoro intellettuale, anche una riflessione volta a inquadrare il ruolo dell’intellettuale all’interno di quell’indagine sull’«autonomia del politico» che Tronti aveva indicato come necessaria negli anni Settanta (e che in realtà rimase per molti versi inesplorata). La distinzione tra l’«intellettuale come pensatore» e l’«intellettuale come lavoratore» poteva infatti chiarire una serie di equivoci che contrassegnavano la discussione sulla trasformazione del lavoro intellettuale, sulla sua «degradazione» e sulla sua «integrazione» all’interno del processo di produzione capitalistico, condotta in quegli anni (anche sulle pagine di «Contropiano»)[60]. Le proteste studentesche della fine degli anni Sessanta avevano d’altronde stimolato una discussione tutt’altro che episodica sulle specificità della «forza lavoro intellettuale», e in particolare l’estensione delle mobilitazioni anche a settori tradizionalmente estranei al conflitto, come i tecnici e gli impiegati, indusse a sviluppare molte delle ipotesi ancora solo accennate da Tronti negli anni Sessanta[61]. Non mancarono inoltre analisi centrate più specificamente sul profilo sociale e ideologico degli intellettuali italiani, in cui si impegnarono in particolare riviste come «La Critica Sociologica» e «Ideologie»[62]. Il tema però non poteva non essere approfondito anche all’interno del dibattito operaista (o, forse più propriamente, all’interno di quel filone di pensiero che, rivedendo molte delle ipotesi formulate negli anni Sessanta, stava già assumendo i contorni del ‘post-operaismo’). Studiando gli studenti universitari torinesi, Romano Alquati aveva per esempio iniziato a ricostruire le sequenze di formazione di un nuovo «proletariato intellettuale»[63], ma la questione della «proletarizzazione» dell’intellettuale aveva anche sollecitato riflessioni relative al suo ruolo politico e, più in generale, al significato ‘politico’ delle funzioni svolte dall’intellettuale.

Un gruppo di giovani studiosi e militanti, al principio degli anni Settanta, era per esempio tornato a utilizzare l’idea trontiana del «punto di vista operaio», adattandola a un quadro in cui la proletarizzazione del lavoro sanciva di fatto non solo l’inclusione dell’intellettuale all’interno della classe operaia, ma soprattutto la scomparsa della stessa figura dell’intellettuale, almeno per come era stato tradizionalmente concepito[64]. Pur cogliendo senza dubbio la realtà di una tendenza, molte delle ipotesi che allora sottolineavano le conseguenze della «proletarizzazione» del lavoro intellettuale finivano però col compiere un’operazione opposta rispetto a quella suggerita da Asor Rosa. E proprio per questo si trovavano non solo a rilevare la riduzione degli spazi di autonomia del lavoro intellettuale, ma anche a trarre da una simile premessa la conseguenza di una sostanziale negazione dell’autonomia politica della funzione intellettuale[65]. La distinzione tra l’«intellettuale come pensatore» e l’«intellettuale come lavoratore» era invece particolarmente utile perché consentiva di distinguere due funzioni non necessariamente assimilabili. Nella successiva ricerca di Asor Rosa, il riconoscimento della distinzione dei due piani venne però di fatto a legittimare lo spostamento dell’analisi solo sul primo dei due terreni, e cioè sull’analisi dell’intellettuale come «pensatore». E proprio per questo, a partire da allora, il problema della trasformazione del lavoro intellettuale sostanzialmente sparì dall’analisi di Asor Rosa. Anzi, quando nel 1977 prese forma concreta un movimento che, per quanto ambiguamente, era un riflesso (anche se non solo) della «proletarizzazione» dei ceti medi, Asor Rosa lo considerò come un fenomeno di regressione culturale e politica, come la manifestazione di una «seconda società» nichilista volta alla distruzione della prima, se non addirittura come una reviviscenza del diciannovismo protofascista[66].

Naturalmente sarebbe eccessivo sottoscrivere interamente quelle letture che intravedono nel «Settantasette», nella composizione di quel movimento e nel suo profilo ideologico, un’anticipazione dei futuri confitti post-fordisti e dunque una prima comparsa sulla scena politica dell’«intellettuale massa», protagonista dell’odierno «capitalismo cognitivo»[67]. A ben guardare, infatti, nel movimento del «Settantasette» confluirono anche componenti politiche e ideologiche che avevano radici molto più profonde, e che affondavano quantomeno nelle dinamiche del «maggio strisciante» e nelle caratteristiche proprie del sistema politico italiano della «Prima Repubblica»[68]. Nonostante le necessarie cautele, è però difficilmente contestabile che, dalle mobilitazioni innescate dal progetto di riforma universitaria dell’allora ministro Malfatti, provenissero segnali che il Pci, impegnato nell’esperimento del «compromesso storico», non poteva accogliere, e che la teoria delle «due società» di Asor Rosa finiva col rimuovere. «La teoria delle due società», come scrisse quasi vent’anni fa Marco Bascetta, «contribuì grandemente a impedire che gli innumerevoli segni della trasformazione venissero decifrati per tempo», e in particolare «Asor Rosa, nel rispondere negativamente alla domanda se per caso il perno dello sfruttamento si fosse spostato dalla classe operaia ad altri ceti, e se lo scontro politico principale fosse diventato quello tra emarginazione e socializzazione, tra produttività e improduttività, si precludeva ogni possibilità di prendere in esame le profonde trasformazioni che stavano attraversando tutte queste polarità»[69]. Al di là di ogni considerazione sulle implicazioni politiche delle valutazioni allora espresse da Asor Rosa, non è certo difficile riconoscere in Scrittori e massa l’esito di lungo periodo di quell’atteggiamento. Mentre politicamente intendeva il «Settantasette» come il frutto amaro della polverizzazione sociale, e dunque come l’espressione di ceti marginali, ben lontani dal «centro» della produzione (occupato ovviamente dalla classe operaia di fabbrica), dal punto di vista teorico Asor Rosa rinunciava davvero a investigare quel processo di «proletarizzazione» del lavoro intellettuale che pure i suoi saggi giovanili nei «ruggenti» anni Sessanta avevano collocato al cuore di una riflessione sul ruolo della «cultura» e sulla fine della «battaglia culturale»[70].

Asor Rosa non ha mancato di riconoscere come l’ipotesi su cui aveva puntato fra gli anni Settanta e Ottanta si sia rivelata come del tutto inefficace dinanzi al mutamento radicale degli equilibri politici. In altre parole, se negli anni Settanta Asor Rosa aveva sostenuto la necessità per l’intellettuale di prestare al «moderno Principe» gli strumenti ‘tecnici’ delle proprie conoscenze, la rapida trasformazione intervenuta nelle stesse modalità dell’azione politica, oltre che nel clima generale, mostrò l’irrilevanza sostanziale di quel tipo di intellettuale ‘tecnico’, che per molti versi adeguava le indicazioni gramsciane alla realtà delle democrazie avanzate. L’esperienza di «Laboratorio politico», in cui Asor Rosa investì non poche energie insieme allo stesso Tronti, fu da questo punto di vista particolarmente significativa. E l’autore di Scrittori e popolo, nella riflessione condotta in La sinistra alla prova, ha individuato nel fallimento di quell’esperienza proprio il segnale di una cesura netta, fra una stagione in cui gli intellettuali avevano un ruolo politico nella discussione tattica e strategica e una fase in cui, a partire più o meno dagli anni Ottanta, all’intellettuale iniziò a essere richiesto solo un impegno del tutto accessorio, e in cui le conoscenze specialistiche divorziavano definitivamente dall’ambizione di conquistare una visione complessiva delle dinamiche sociali:

i contributi richiesti e appetiti riguardano singoli segmenti e punti della linea; nessuno chiede e nessuno dà suggerimenti di tipo critico; no c’è mai stata una discussione di tipo intellettuale che rimetta in causa il senso complessivo della linea (ma poche, a dir la verità, anche di tipo politico). La nuova generazione d’intellettuali di sinistra è fatta (generalmente) d’individui leggeri, flessibili, in perenne movimento tra una situazione e l’altra, con competenze circoscritte, con scarsi interessi d’insieme e nessuna predisposizione critica[71]

Se certo una simile valutazione ha più di qualche fondamento (non solo a proposito della vicenda italiana), la tesi della ‘morte dell’intellettuale’ travolto dalla «civiltà montante» dell’omologazione – una tesi su cui Asor Rosa è tornato più volte negli ultimi anni, e di cui Scrittori e massa svolge per molti verso le conseguenze sul terreno della produzione letteraria – rischia però di distorcere il quadro interpretativo, pregiudicando gli esiti dell’analisi dedicata alle concrete trasformazioni del lavoro intellettuale. Un esito di questa impostazione è d’altronde evidente proprio nel tipo di discorso che sviluppa Scrittori e massa, non solo perché nell’analisi manca una ricostruzione che non sia solo vagamente accennata delle trasformazioni intervenute nei processi della produzione editoriale, ma forse soprattutto perché Asor Rosa, mentre assegna il centro della scena allo spettro multiforme della «massa», di fatto fonde insieme varie dimensioni: dimensioni che, come si è visto, comprendono la «massificazione» del pubblico (e cioè la massificazione del destinatario dell’oggetto culturale), la «massificazione» dei meccanismi produttivi interno all’«industria culturale», e infine un processo più generale, di carattere ‘ideologico, in virtù del quale – una volta venute meno le vecchie ideologie populiste e le ultime vestigia del progressismo – gli scrittori tendono a collocare al cuore dei loro romanzi proprio quegli «uomini-massa» che riflettono le specificità di una nuova condizione sociale, culturale e politica segnata dall’indistinzione tra ‘alto’ e ‘basso’ e dalla generale mediocrità. Per quanto tra tali fenomeni possano senz’altro esistere connessioni, è piuttosto evidente che l’identificazione tra il processo di massificazione che trasforma lo scrittore in una sorta di ‘scrittore massa’ e la dinamica culturale che occulta il conflitto ed eleva la «massa» indistinta a protagonista letteraria rimane puramente impressionistica. E soprattutto è evidente come una simile sovrapposizione – per quanto suggestiva – torni a confondere proprio quei due piani che negli anni Settanta Asor Rosa invitava a tenere ben separati l’uno dall’altro. Se infatti in Intellettuali e classe operaia, sottolineava con forza la necessità di distinguere l’«intellettuale come pensatore» e l’«intellettuale come lavoratore», oggi in Scrittori e massa queste due dimensioni vengono di fatto a rifluire nell’immagine di una «massa» (e di una massificazione) che inghiotte tutto. Un’immagine che di fatto presuppone una connessione deterministica tra i mutamenti del lavoro e il venir meno di qualsiasi autonomia, o addirittura di qualsiasi ruolo, per la produzione culturale, perché fa scaturire dalla «marea montante» dell’omologazione tanto la modificazione del panorama sociale, con la scomparsa della classe operaia e della borghesia, quanto l’eliminazione di qualsiasi autonomia per l’attività intellettuale[72]. E sebbene l’immagine di una «massificazione» generalizzata – relativa sia alle modalità di produzione, sia ai contenuti della produzione – non sia certo priva di efficacia, è però piuttosto scontato che sarebbe indispensabile un’indagine ben più approfondita, che quantomeno dimostri la tesi del venir meno di qualsiasi autonomia per la produzione culturale (e non soltanto dell’irrilevanza politica di tale autonomia).

Naturalmente sarebbe improprio, e forse persino ingeneroso, rimproverare ad Asor Rosa di non compiere in Scrittori e massa una approfondita analisi del mutamento delle condizioni della produzione culturale e degli effetti che hanno i processi di «proletarizzazione» e «degradazione» del lavoro intellettuale sulla letteratura italiana degli ultimi decenni. Nel momento in cui, ormai più di dieci anni fa, si accomiatò dall’insegnamento universitario, Asor Rosa confessò d’altronde, con un memorabile colpo di teatro, di sentirsi ormai come i vecchi dinosauri incamminati verso l’estinzione, come uno degli ultimi superstiti di una specie destinata a scomparire, e cioè quella della specie degli intellettuali impegnati politicamente[73]. E così è quasi inevitabile che nella tesi della ‘morte dell’intellettuale’ ci sia anche una componente autobiografica, che spinge a guardare al «mondo di ieri» (e a ciò che appare irrimediabilmente scomparso) ben più che al «mondo di oggi», o al «mondo di domani». Ciò nondimeno, le ipotesi articolate in Scrittori e massa possono essere considerate – con i loro meriti, e anche con le loro carenze – come uno stimolo a riflettere sulla odierna condizione intellettuale e anche sul profilo ideologico degli intellettuali italiani dell’ultimo ventennio. E, in vista di questo lavoro, forse mostra ancora più di qualche utilità la vecchia distinzione tra l’«intellettuale come lavoratore» e l’«intellettuale come pensatore» formulata da Asor Rosa quarant’anni fa.

Sotto il primo profilo – e cioè a proposito dell’analisi dell’«intellettuale come lavoratore» – è chiaro infatti che un serio lavoro di ricerca dovrebbe concentrarsi sulle modalità in cui si svolge oggi il lavoro del romanziere (e, più in generale, la produzione di cultura) sui meccanismi di selezione, sulle connessioni con il mondo della comunicazione, ma anche in generale sull’organizzazione del lavoro editoriale, sui vincoli organizzativi ed economici all’interno dei quali si muovono i soggetti che entrano nel ciclo della produzione editoriale. Le molte domande che in Scrittori e massa rimangono solo accennate andrebbero così quantomeno riprese nel quadro di una ricerca che davvero volesse ricostruire le trasformazioni intervenute in quel «lavoro culturale» fissato più di mezzo secolo fa dalla folgorante satira di Luciano Bianciardi[74]. In realtà, negli ultimi anni un lavoro di questo genere è stato però quantomeno avviato, all’interno per esempio della riflessione dedicata al «lavoro autonomo di seconda generazione», all’emergere dei freelance come protagonisti delle economie post-fordiste o anche sulla fisionomia del «Quinto Stato», proposta per esempio da Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli[75]. È invece sul secondo versante – sull’analisi dell’«intellettuale come pensatore» – che sarebbe necessario più di qualche approfondimento. Ma non solo per fornire una valutazione della scena letteraria e intellettuale dell’Italia della Seconda Repubblica, analoga a quelle che sono state proposte negli ultimi anni (e che per esempio ha delineato sommariamente anche «alfabeta 2» nella sua stentata esperienza)[76], o per cercare di decifrare le traiettorie del mutamento radicale intervenuto nella cultura ‘progressista’ italiana (e forse a questo proposito le tesi di Scrittori e popolo tornerebbero ad avere qualche utilità). Ma per chiedersi se davvero la ‘morte dell’intellettuale’, o la nascita di una sorta di nuovo ‘scrittore-massa’, implichi di necessità anche l’eliminazione di quel ruolo ‘politico’ (e dunque di quell’autonomia) di cui l’intellettuale «come pensatore» era dotato secondo Asor Rosa l’intellettuale novecentesco. Ed è d’altronde proprio a questo proposito che il discorso di Scrittori e massa può apparire indicativo di un certo modo di guardare alle trasformazioni del lavoro intellettuale, nel quale la politica e la sua autonomia svaniscono.

A ben vedere, infatti, quando eleva a protagonista del presente una «massa» mediocre, e quando riconosce l’epilogo della vicenda dell’intellettuale, Asor Rosa torna a riprendere un motivo che non solo contrassegnava la sua riflessione giovanile sulla «fine della battaglia culturale», ma per molti versi accomuna anche molte delle indagini condotte nell’ultimo trentennio all’interno di quel magmatico filone che, con molta approssimazione, si può etichettare come «post-operaismo». Sebbene le implicazioni siano notevolmente diverse, la tesi secondo cui le trasformazioni del lavoro produrrebbero l’estinzione dell’intellettuale, nella sua formulazione classica,  è condivisa infatti anche da quasi tutti quei teorici che – a partire dal famoso Frammento sulle macchine dei Grundrisse – hanno puntato con forza sull’idea secondo cui il lavoro intellettuale e cognitivo diventerebbe ‘egemone’ nel capitalismo contemporaneo. Secondo queste analisi – le cui prime tappe furono segnate dalle indagini sul «lavoro immateriale» e sulla nascita del cosiddetto «intellettuale massa» – la conseguenza non è naturalmente, come invece per Asor Rosa, la nascita di una massa mediocre e manovrabile, bensì la genesi di una moltitudine dai tratti in parte misteriosi, comunque ricca di potenzialità. Anche per queste tesi – come nel discorso di Scrittori e massa – ciò che sembra dissolversi è però proprio lo spazio autonomo in cui l’intellettuale giocava il suo ruolo politico. Così, se la «massa» di Asor Rosa inghiotte ogni velleità di autonomia politica nutrita dagli intellettuali, la «moltitudine» – nelle pur differenti declinazioni che ne hanno dato per esempio Negri e Virno – non ha alcun bisogno di ‘avanguardie’ esterne, di intellettuali che forniscano ‘rappresentazioni’ e che sviluppino progetti. Perché la funzione intellettuale è tutta interna alla cooperazione produttiva, dentro cui prende forma e vita il corpo multiforme della moltitudine[77].

Benché molte di queste riflessioni abbiano avuto più di qualche sporadico merito nell’orientare la discussione sulle trasformazioni del lavoro, è piuttosto evidente che, quando salutano l’estinzione dell’intellettuale, esse tendono a riferirsi – per utilizzare la distinzione di Asor Rosa – all’intellettuale come «lavoratore» e non specificamente all’intellettuale come «pensatore». Ciò nondimeno, quasi senza eccezioni fanno discendere da un’analisi relativa alla trasformazione del lavoro intellettuale una serie di conseguenze che investono direttamente non tanto la figura dell’intellettuale novecentesco, quanto la funzione che esso ha svolto. In altre parole, dalle analisi che riconoscono il carattere cooperativo di buona parte del lavoro «immateriale» e «cognitivo» contemporaneo tende a scaturire la tesi ben più radicale secondo cui non viene meno tanto il lavoro dell’intellettuale – inteso come singolo individuo – quanto la stessa ‘funzione’ intellettuale, ossia quella funzione elaborazione di cultura, di orizzonti simbolici, di immaginari, che davvero gli intellettuali nell’ultimo secolo hanno svolto, ma che certo non nasce con l’intellettuale novecentesco., e che non si riduce alla sua esperienza Anche perché giungere davvero alle conseguenze più radicali della tesi che sostiene la scomparsa della funzione intellettuale implicherebbe revocare in dubbio la stessa natura dell’essere umano come «animale simbolico. Ed è evidente che si tratta di una conclusione che nessuno – neppure chi appare più incline alle suggestioni della «fine della Storia» – si sente in grado realmente di trarre.

Più che insistere sull’idea della ‘morte dell’intellettuale’ – magari ricorrendo a previsioni suggestive come quelle di Sohn-Rethel sulla fine della separazione tra lavoro manale e lavoro intellettuale – forse diventa invece importante interrogarsi su ciò che diventa oggi la ‘funzione’ intellettuale, mentre lo statuto e il ruolo dell’intellettuale novecentesco si dissolvono. E da questo punto di vista alcune indicazioni utili giungono dalla produzione narrativa e dalla stessa auto-riflessione del gruppo Wu-Ming, il quale – fin dall’inizio della propria attività, e cioè sin dal momento in cui iniziò a firmarsi con lo pseudonimo Luther Blisset – prese atto del mutamento del lavoro intellettuale e dunque del carattere sempre più ‘cooperativo’ della stessa attività di scrittura, pur senza rinunciare a elaborare non solo trame romanzesche, ma – insieme a queste trame – un intero immaginario, dai tratti dichiaratamente e consapevolmente politici. Naturalmente gli esiti artistici dell’operazione compiuta da Wu Ming possono non piacere, così come si può ritenere la loro proposta teorico-politica indadeguata alla realtà dei tempi, ma il punto che qui si vuole sottolineare è che il collettivo di scrittori bolognese ha collocato alla base della propria attività la necessità di svolgere una funzione intellettuale ‘dopo’ l’intellettuale, ossia in un quadro in cui l’intellettuale novecentesco ha perso irrimediabilmente la propria aura, in cui il lavoro intellettuale è davvero cooperativo, e in cui i vincoli in cui si trovano a operare i lavoratori «immateriali» sono abissalmente distanti (e ben più stringenti) rispetto a quelli dell’«industria culturale» di cui i fondatori della Scuola di Francoforte lamentavano la presa soffocante[78]. Ed è proprio per questa serie di motivi che l’attività di questo gruppo di scrittori – al di là dell’esito artistico cui giunge – può essere considerata come un’esemplificazione dello spazio di autonomia politica di cui ancora oggi gode una funzione intellettuale forse non più riconducibile al vecchio intellettuale novecentesco, ma non per questo necessariamente meno significativa[79].

Il nodo che affiora da molte delle discussioni intorno alla ‘morte dell’intellettuale’, e che lo stesso Asor Rosa ripropone più o meno esplicitamente nelle pagine di Scrittori e massa, non riguarda d’altronde la dimensione strettamente artistica della produzione letteraria, perché coinvolge una questione squisitamente politica, che nella storia dell’operaismo italiano è emersa carsicamente, senza mai trovare davvero una soluzione. Al fondo di tutta questa discussione si trova infatti proprio la vecchia questione dell’«autonomia del politico» che Tronti aveva posto al centro negli anni Settanta, ma che – per molti motivi – venne allora circoscritta all’interno di un perimetro che ne faceva smarrire la complessità. Se negli anni Settanta, per motivi comprensibili, l’«autonomia del politico» venne soprattutto intesa come l’autonomia dello Stato dai meccanismi dell’accumulazione di capitale e come l’autonomia dell’organizzazione dalla ‘spontaneità’ dei comportamenti conflittuali della classe operaia, dentro quell’espressione si trovava anche un’altra idea, che concerneva l’autonomia del ceto politico e, più in generale, l’autonomia relativa dell’intellettuale come «pensatore» e come ceto politico. Le intuizioni emerse in quel periodo – grazie anche alle proposte di Asor Rosa – finirono però ben presto schiacciate da una discussione in cui le emergenze dovevano cancellare le sfumature. Per un verso Asor Rosa, come è si visto, si volse verso una legittimazione dell’intellettuale in quanto ‘tecnico’, e in quanto «consigliere del Principe», mentre, per un altro, l’autonomia politica dell’intellettuale venne pressoché totalmente occultata dentro la dicotomia tra «composizione tecnica» e «composizione politica» canonizzata dal post-operaismo[80]. Nel quadro di questa dicotomia, ogni dimensione ‘culturale’ veniva sostanzialmente cancellata all’interno di uno schema che – quantomeno nelle versioni più deterministe – tendeva a considerare l’emergenza di un soggetto conflittuale come l’esito di una nuova configurazione tecnica del processo produttivo. Così veniva di fatto esclusa l’ipotesi che le identità ‘culturali’ potessero influire sull’attivazione di conflitti (e, dunque, sull’assetto della composizione di classe). E, soprattutto, veniva rimosso lo stesso spazio in cui poteva affiorare l’«autonomia del politico»: non tanto però l’«autonomia del politico» di cui parlava Tronti negli Settanta, quanto semmai quella di cui l’autore di Operai e capitale scrive oggi, almeno nel momento in cui evoca la centralità del «mito fondativo»[81]. Un’autonomia, cioè, che coinvolge principalmente la dimensione simbolica del ‘politico’, la dimensione delle identità collettive (e dunque quella sfera cui per esempio allude la riflessione di Ernesto Laclau sul populismo)[82].

Naturalmente una simile indagine sul ‘politico’ e la sua autonomia è tutt’altro che priva di insidie, anche perché si tratta evidentemente di un terreno dal quale è sempre facile scivolare nel puro volontarismo, dimenticando anche di confrontarsi con le basi materiali del potere. Ma è forse solo esplorando questo terreno che si può riconoscere l’autonomia ‘politica’ della funzione intellettuale procedendo oltre la configurazione novecentesca dell’intellettuale. Ed è forse solo inoltrandosi in questo territorio che – oltrepassando la sagoma inquietante di una massa onnivora e onnipresente – si può arrivare a scorgere il profilo di una sorta di «Principe postmoderno».

Note

[1] A. Moravia, Il conformista (1951), Bompiani, Milano, 1990, p. 69.

[2] Ibi, p. 81.

[3] «Solo dalla ‘fusione’ con la folla sembrava allora giungere per lui la conferma del fatto che era «una cosa sola con la società e il popolo», che non era «un solitario, un anormale, un pazzo», ma «uno di loro, un fratello, un cittadino, un camerata» (ibi, 70).

[4] J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse (1930), Se, Milano, 2001, p 53.

[5] Cfr. S. Barrows, Distorting mirrors. Visions of the Crowd in Late Nineteenth-Century France, Yale University Press, New Haven – London, 1981; R.A. Nye, The Origins of Crowd Psychology. Gustave Le Bon and the Crisis of Mass Democracy in the Third Republic, Sage, London – Beverly Hills, 1975; e J. Van Ginneken, Crowd, psychology, and politics. 1871-1899, Cambridge University Press, Cambridge – New York, 1992. Sul dibattito italiano, rinvio invece a D. Palano, Il potere della moltitudine. L’invenzione dell’inconscio collettivo nella teoria politica e nelle scienze sociali italiane tra Otto e Novecento, Vita e Pensiero, Milano, 2002. Ma, per una sintetica ricostruzione della metamorfosi della «massa», cfr. anche D. Palano, Pensare la folla. Appunti per la ricostruzione di un itinerario terminologico e concettuale (2005), in Id., Volti della paura. Figure del disordine all’alba dell’era biopolitica, Mimesis, Milano, 2010, pp. 31-85.

[6] A. Asor Rosa, Scrittori e massa. Saggio sulla letteratura italiana postmoderna, in Id., Scrittori e popolo (1965) – Scrittori e massa (2015), Einaudi, Torino, 2015, pp. 355-422 (questo testo sarà citato d’ora in avanti con la sigla SM, seguita dal numero di pagina cui rimanda il riferimento).

[7] M. Tronti, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, il Saggiatore, Milano, 2015, p. 184. In un passaggio chiave in cui si sofferma sulla «condizione antropologica del tempo», Tronti scrive per esempio che i protagonisti del presente sono «la massa e gli individui-massa che la compongono», individui «più manovrabili e manovrati nelle pluraliste istituzioni democratiche che nelle dittature di un solo Capo o nelle religioni di un solo Dio», «perché tutti decidono di pensare allo stesso modo» (ibi, p. 51).

[8] Ibi, p. 206.

[9] Cfr. L. von Wiese, Sistema di sociologia generale, Utet, Torino, 1968, specie pp. 667-717.

[10] A. Asor Rosa, La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana, Einaudi, Torino, 2002, p. 235.

[11] Tanto che, traendo le conseguenze di queste premesse, Asor Rosa nota: «Paradossalmente, cinquant’anni fa, tutti noi, creatori e critici, avevamo più libertà di essere quel che eravamo. Oggi tutti noi, creatori e critici, siamo meno liberi. Ma quel tanto di libertà di cui riusciamo a disporre, ci serve per essere più liberi di quanto eravamo allora, quando, un po’ follemente, pensavamo di esserlo (o poter esserlo) senza limiti» (SM 377).

[12] In realtà Asor Rosa distingue un primo di gruppo di scrittori, nati fra il 1960 e il 1969, e un secondo gruppo di autori, nati a partire dagli anni Settanta (la cui produzione avrebbe caratteri ancora poco definiti).

[13] A. Asor Rosa, Prefazione storica, in Id., Le armi della critica. Scritti e saggi degli anni ruggenti (1960-1970), Einaudi, Torino, 2011, p. LXVII.

[14] Ma il «nuovo» cui allude Asor Rosa, non coincide con il «nuovismo», proprio perché instaura un rapporto con la tradizione e col passato, che invece il «nuovismo», tutto risolto nel presente, rimuove interamente. In questo senso scrive: «Non c’è conflitto, se la contrapposizione e la sfida al nuovo (la sfida del nuovo) non s’innestano sulla consapevolezza più elevata e complessa possibile di quanto, nel merito, è stato compiuto nei decenni (nei secoli…) passati. Come mai? Ma perché è un illusione, destinata a svanire tragicamente – o più spesso comicamente – in tutti i campi, che il presente basti a se stesso. Le «storie di storie» possono essere centomila – su questo non c’è dubbio – e possono per giunta – questo lo riconosco – essere tutte diverse fra loro, ma non essercene neanche una che intacchi poco più dell’ingannevole superficie del magma. Il conflitto prevede una lunga educazione e uno sguardo in grado di sfuggire in tutte le direzioni al presente: non solo al presente storico, ma al presente in tutti i sensi – in tutti i sensi, ma soprattutto come assenza di controllo orizzontale di tutti gli altri attraverso la parola. Solo ciò che è ‘fuori misura’, solo ciò che è ‘smisurato’, può pretendere di generare letteratura – grande letteratura (I. Calvino)» (SM 421).

[15] W. Benjamin, Baudelaire e Parigi, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino, 1966, p. 97.

[16] Cfr. in particolare M. Tronti, Alcune questioni intorno al marxismo di Gramsci, in Studi gramsciani, Editori Riuniti, Roma, 1958, pp. 305-321, Id., Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi. Gramsci e Labriola, in A. Caracciolo – G. Scalia (a cura di), La città futura. Saggi sulla figura e il pensiero di Antonio Gramsci, Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 69-92 (I edizione 1959).

[17] M. Tronti, La fabbrica e la società (1962), in Id., Operai e capitale, Einaudi, Torino, 1971, p. 54. (I ed. 1966).

[18] M. Tronti, Marx ieri e oggi (1962), in Id., Operai e capitale, cit., p. 34.

[19] M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino, 1971, p. 245 (II edizione).

[20] Cfr. R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino, 2010, specie pp. 206-212, e A. Negri, La differenza italiana, Nottetempo, Roma, 2005, ma anche D. Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, Il Mulino, Bologna, 2012, D. Gentili – E. Stimilli (a cura di), Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, Derive Approdi, Roma, 2015, e A. Toscano – L. Chiesa (eds.), The Italian Difference. Between Nihilism and Biopolitics, Re.Press, Victoria – Australia, 2009.

[21] Asor Rosa ha ricostruito in diverse occasioni il percorso comune compiuto con Coldagelli, De Caro e Tronti, a partire dagli anni Cinquanta. Cfr. per esempio le testimonianze riportate in G. Borio – F. Pozzi – G. Roggero (a cura di), Gli operaisti, Derive Approdi, Roma, 2005, pp. 55-62, e G. Trotta – F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta da «Quaderni rossi» a «classe operaia», Derive Approdi, Roma, 2008. Forse il più completo scritto dedicato a questa fase, quasi una sorta auto-biografia sul periodo della formazione, è però A. Asor Rosa, Prefazione storica, cit. A proposito del ruolo giocato da Tronti, lo storico della letteratura ha invece osservato, in una recente intervista: «Vorrei sottolineare la grande importanza che in questo ambito hanno avuto il pensiero, la riflessione, il contatto umano di Mario Tronti. Io, tutto sommato, potrei essere definito un trontiano critico: critico, del resto, non diversamente da come mi sono atteggiato nei confronti di tutte quelle posizioni che hanno incontrato il mio consenso (l’adesione senza la critica è priva di senso, per me» (A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di S. Fiori, Laterza, Roma – Bari, 2009, p. 17).

[22] U. Coldagelli – G. De Caro, Alcune ipotesi di ricerca marxista sulla storia contemporanea, in «Quaderni rossi», 1953, n. 3, p. 103.

[23] Ibidem. Uno sviluppo di questa impostazione si poteva trovare, almeno in parte, in G. De Caro, Saggio introduttivo, in P. Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Einaudi, Torino, 1964, pp. VII-XXVI.

[24] A. Asor Rosa, Il punto di vista operaio e la cultura socialista, in «Quaderni rossi», 1962, n. 2, p. 123. A differenza di altri saggi dello stesso periodo, questo scritto, in cui pure sono esplicitati molti dei presupposti della ricerca di Asor Rosa (oltre del ‘gruppo romano’ dei «Quaderni rossi»), non fu compreso in Id., Intellettuali e classe operaia. Saggi sulle forme di uno storico conflitto e di una possibile alleanza, La Nuova Italia, Firenze, 1973, come d’altronde non appare in Id., Le armi della critica, cit.

[25] A. Asor Rosa, Il punto di vista operaio e la cultura socialista, cit., p. 126.

[26] Ibidem.

[27] Ibi, p. 127.

[28] Per una ricostruzione di questo passaggio (e delle implicazioni che comportava), cfr. S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta. Introduzione a Raniero Panzieri, Dedalo, Bari, 1977, F. Schenone, Fare l’inchiesta: i «Quaderni rossi», in  «Classe», XI (1980), n. 17, pp. 173-220, G. Trotta – F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta da «Quaderni rossi» a «classe operaia», Derive Approdi, Roma, 2008, e il testo di S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (2002), Alegre, Roma, 2008.

[29] A. Asor Rosa, Tre giorni a Torino (7, 8 e 9 luglio 1962), in «Cronache dei Quaderni rossi», settembre 1962, p. 87.

[30] Ibidem.

[31] a.a.r. [A. Asor Rosa], Fine della battaglia culturale, in «classe operaia», 1964, n. 2, p. 17.

[32] Ibi, p. 18.

[33] Ibidem.

[34] Ibidem.

[35] a.a.r. [A. Asor Rosa], Quattro note di politica culturale, in «classe operaia», 1965, n. 3, p. 39.

[36] Ibidem.

[37] Cfr. ibi, pp. 37-39. In questo caso, Asor Rosa prendeva di mira l’esposizione del lavoro della rivista proposta da V. Rieser, I «Quaderni rossi», in «Rendiconti», 1965, n. 10, pp. 270-288. Il riferimento alla dimensione valoriale era infatti tutt’altro che secondario nell’impostazione dell’inchiesta operaia, per come essa era per esempio presentata in Id., Informazioni, valori e comportamenti operai, in «Quaderni rossi», 1965, n. 5, pp. 77-106. Ma per una collocazione di questa ipotesi dentro il percorso di Rieser, rinvio a D. Palano¸ L’inchiesta prima di tutto: Vittorio Rieser, in «Tysm», 24 maggio 2015 [www.tysm.org].

[38] a.a.r. [A. Asor Rosa], Fine della battaglia culturale, cit., p. 18.

[39] a.a.r. [A. Asor Rosa], Quattro note di politica culturale, cit., p. 39.

[40] Ibi, p. 40.

[41] Ibi, 40.

[42] In quel contesto scriveva allora  che «la spinta razionalizzatrice è la vocazione naturale della classe operaia», mentre «la spinta catastrofica è la vocazione naturale del sistema abbandonato alla sua cieca ‘forza delle cose’», tanto che proprio nella classe operaia «la spinta razionalizzatrice può conglobare la spinta catastrofica, trasformandola in pressione d’antitesi costruttiva» (I. Calvino, L’antitesi operaia (1964), in Id., Una pietra sopra, Mondadori, Milano, 1995, p. 136).

[43] Asor Rosa non avrebbe mancato di attirare l’attenzione su L’antitesi operaia, indice non solo della rivisitazione della dialettica compiuta da Calvino, ma anche del fatto che la convivenza nel suo pensiero di «profondo scetticismo conoscitivo» e «prudente ottimismo della volontà» si traduceva comunque nel sostegno alla conservazione dello stato presente: «Sono affermazioni le quali, provano ad abundantiam come non sia opportuno discutere di ‘razionalizzazione’ del sistema, senza entrare direttamente sul terreno politico» (A. Asor Rosa, Il carciofo della dialettica, in Id., Intellettuali e classe operaia, cit., p. 146).

[44] A. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Savelli, Roma, 1965, ora ripubblicato con il titolo Scrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista in Italia, in Id., Scrittori e popolo (1965) – Scrittori e massa (2015), Einaudi, Torino, 2015, p. 6 (le citazioni sono tratte da quest’ultima edizione, che sarà indicata d’ora in avanti con la sigla SP).

[45] Cfr. A. Asor Rosa, Vasco Pratolini, Edizioni Moderne, Roma, 1958.

[46] Cfr. A. Asor Rosa, Thomas Mann o dell’ambiguità borghese, in «Contropiano», 1968, n. 2-3, ora in Id., Le armi della critica, cit., pp. 186-307.

[47] E proprio in questo senso, nel fatidico 1968, avrebbe scritto: «Per fare della buona letteratura il socialismo non è stato essenziale. Per fare la rivoluzione non saranno essenziali gli scrittori. La lotta di classe – quando è lotta di classe, e non protesta populistica, agitazione contadina, ammirazione sensibilistica per la vergine forza delle masse – passa per una strada diversa da questa. E la poesia non può starle dietro. Perché la poesia, quella grande, parla una lingua, in cui le cose – le dure cose della lotta e della fatica quotidiana – hanno già assunto il valore esclusivo di un simbolo, di una gigantesca metafora del mondo: e il prezzo, spesso tragico, della sua grandezza, è che ciò che essa dice esce dalla prassi, per non più rientrarvi» (A. Asor Rosa, Majakovski e la «letteratura sovietica», in «Contropiano», 1968, n. 1, ora in A. Asor Rosa, Le armi della critica, cit., p. 92).

[48] Questo mutamento di posizione emerge in modo molto chiaro anche in A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, Einaudi, Torino, 2009, III.

[49] Le critiche non mancarono: in proposito cfr. la Prefazione alla seconda edizione (del 1966) a Scrittori e popolo (in SP 8-15), e A. Asor Rosa, Quattro note di politica culturale, cit., oltre che alcune annotazioni in Scrittori e massa (357-362).

[50] M. Tronti, Operai e capitale, cit., p. 257.

[51] Ibi, p. 258.

[52] A. Asor Rosa, Intellettuali e classe operaia, cit., p. 9.

[53] Ibi, p. 10.

[54] Per ricostruire correttamente l’itinerario, probabilmente devono essere tenuti in conto alcuni saggi, tra cui in particolare: A. Asor Rosa, Per una ripresa del lavoro teorico e dell’iniziativa politica, in «Angelus Novus», 1966, n. 9-10, pp. 31-52, poi in Id., Intellettuali e classe operaia, cit., pp. 95-125, Id., Note sul tema: intellettuali, coscienza di classe, partito (1971), in Id., Intellettuali e classe operaia, cit., pp. 497-588, e Id., Intellettuali e classe operaia nella teoria e nella prassi del movimento operaio italiano, in G. Paolini – W. Vitali (a cura di), Pci, classe operaia e movimento studentesco, Guaraldi, Rimini – Firenze, 1977, pp. 55-96

[55] A. Asor Rosa, Intellettuali e classe operaia, cit., p. 30.

[56] Ibi, p. 31.

[57] Asor Rosa d’altronde lo esplicitava: «Finché […] il Pci si presentava come un partito d’opposizione, come un partito destinato all’opposizione, restava necessariamente equivoco il margine che esso era costretto a lasciare aperto fra ideologia e scienza […]; e agli intellettuali si poteva da parte sua continuare a chiedere un appoggio dall’esterno, un far blocco con tutti gli strumenti della cultura intorno ad una posizione sostanzialmente subordinata, anche se certo non sterile. Ma una volta che l’ipoteca sul mutamento del sociale fosse stata messa da un punto di vista dominante capace di realizzare dall’alto il processo d’impossessamento del potere […] non cambiava radicalmente il rapporto interno al partito fra scienza e ideologia? Non doveva richiedere il partito agli intellettuali quote sempre minori d’ideologia? non dovevano sempre più ampiamente rivolgersi gli intellettuali a questo partito capace d’impostare quella radicale riconversione e riqualificazione della divisione sociale del lavoro, dalla quale loro stessi, e insieme con loro le loro capacità cognitive e i loro ruoli, sarebbero usciti alla lontana profondamente trasformati e rimodellati?» (ibi, pp. 24-25).

[58] Cfr. A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia. X. Dalla Grande Guerra al ‘68, Einaudi, Torino, 1975, pp. 1557-1558.

[59] ibi, pp. 1565-1566).

[60] Cfr. per esempio M. Tafuri, Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico, in «Contropiano», 1970, n. 2, pp. 241-281, e Id., Progetto e utopia. Architettura e sviluppo capitalistico, Laterza, Bari, 1973.

[61] Tra queste riflessioni, si possono ricordare per esempio i testi di G. Scalia, La forza-lavoro intellettuale, in «Classe e Stato», 1965, n. 4, F. Ciafaloni, Le corporazioni della scienza e la lotta nelle università, in «Quaderni piacentini», 1968, n. 34, Centro K. Marx (Pisa), Sviluppo capitalistico e forza-lavoro intellettuale, Jaca Book, Milano, 1969, A. Casiccia, Il salariato intellettuale e l’industria della cultura, in «Nuovo Impegno», 1969, n. 16, G.C. Ferretti, L’autocritica dell’intellettuale, Marsilio, Padova, 1970

[62] Cfr. V. Cogliati, Cultura e intellettuali nella nuova sinistra, in «La critica sociologica», 1975, nn. 33-34, pp. 54-65, S. Piccone Stella, Rapporto sugli intellettuali italiani: le condizioni di lavoro, in «La critica sociologica», 1969, n. 10, pp. 18-73, Id., A che punto è il discorso sull’intellettuale come salariato, in «La critica sociologica», 1970, n. 12, pp. 152-156, Id., Intellettuali e capitale nella società italiana del dopoguerra, De Donato, Bari, 1972, R. Luperini, Gli intellettuali di sinistra e l’ideologia della ricostruzione (I-II), in «Ideologie», 1969, n. 8, e 1971, n. 15, e M. Sabbatini, Sul blocco corporativo degli intellettuali di sinistra, in «Ideologie», 1969, n. 7.

[63] R. Alquati, Per un’analisi della composizione di classe degli studenti. Introduzione a «Sindacati e Partito», in «Aut aut», 1976, n. 154, pp. 7-15.

[64] «La assunzione del punto di vista operaio per la pratica teorica (e per la pratica di produzione di significati)», si leggeva nella Prima pagina del volume collettivo Cultura lavoro intellettuale e lotta di classe, «non è più un fatto interno ad uno svolgimento ideale», e così la «lotta di classe», cessando di essere «un oggetto di conoscenza», poteva diventare «il soggetto della conoscenza» (Prima pagina, in R. Alonge et al., Cultura lavoro intellettuale e lotta di classe, Guida, Napoli, 1973, p. 5).

[65] E questo talvolta produceva esiti paradossali, come per esempio nel caso del ragionamento di Paolo Bertetto, il quale – peraltro accostando, con più di qualche forzatura, il Tronti di Operai e capitale al Lukáks di Storia e coscienza di classe – giungeva a una conclusione sostanzialmente neo-leninista, in cui scriveva «starà al partito inserire in modo sempre più organico l’intellettuale nel lavoro politico diretto, nella militanza, per distruggerlo come figura sociale divisa e privilegiata e ricostruirlo dentro il progetto comunista con un ruolo ben preciso, assolutamente necessario, anche se non di direzione politica, ma di esecuzione di compiti utili, e subordinati» (P. Bertetto, Letteratura ideologia e progetto rivoluzionario, in R. Alonge et al., Cultura lavoro intellettuale e lotta di classe, cit., p. 133).

[66] Le parole d’ordine del movimento, scrisse Asor Rosa in un celebre editoriale, puntavano «sulla saldatura tra i diversi settori dell’emarginazione e sulla trasformazione della scuola, dell’Università e degli studenti in uno di essi, particolarmente privilegiato ed esplosivo», «il complesso di questi settori si stacca dal resto della società e gli si contrappone» (A. Asor Rosa, Le due società, in Id., Le due società. Ipotesi sulla crisi italiana, Einaudi, Torino, 1977, p. 64).

[67] Cfr. per esempio, M. Bascetta et al., Millenovecentosettantasette, Manifestolibri, Roma, 1997, M. Grispigni, Il Settantasette, il Saggiatore, Milano, 1997, F. Berardi (Bifo), Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione, Ombre corte, Verona, 1997 (II edizione).

[68] Per collocare il «Settantasette» in questo quadro, rimane ancora importante il lavoro di S. Tarrow, Democrazia e disordine, Laterza, Roma – Bari, 1990.

[69] M. Bascetta, Dalle «due società» alla società duale, in M. Bascetta et al., Millenovecentosettantasette, cit., p. 64.

[70] Ancora di recente, Asor Rosa ha peraltro difeso la propria teoria delle «due società»: «La teoria delle due società – da una parte gli operai occupati, dall’altra i giovani, senza occupazione e senza prospettive, fuori e contro il ‘sistema dei partiti’ – cercò già allora di dare una spiegazione razionale, non demonizzante, di questa tragica opposizione. Però trovavo sbagliato continuare a interrogarsi in modo sterile sul rapporto tra violenza e repressione. Non vedevo sbocchi proficui. Eco ammoniva: innanzitutto, capire. E io gli ricordavo che la cultura non viene prima della politica, ma bisognava sforzarsi di farle marciare insieme» (A. Asor Rosa, Il grande silenzio, cit., pp. 71-72).

[71] A. Asor Rosa, La sinistra alla prova. Considerazione sul ventennio 1976-1996, Einaudi, Torino, 1996.

[72] Alcuni anni fa, chiarendo quali siano le componenti della «civiltà montante», ha osservato: «Il primo elemento è rappresentato dalla crescente e smisurata diffusione degli strumenti di informazione, che mettono in rapida comunicazione segmenti anche molto distanti dell’universo umano. Per la prima volta nella storia, e non senza forme di resistenza anche sanguinose, si determinano nel mondo forme sempre più omogenee del vivere e del pensare. Questo processo di omogeneizzazione universale non sarebbe possibile se non si verificasse contemporaneamente un processo analogo nell’economia e negli assetti industriali. L’omologazione intellettuale viaggia sui binari dell’omologazione economica e sociale, che tende ad azzerare le colossali differenze che ancor pochi decenni fa caratterizzavano i diversi comparti mondiali. Tutto ciò incide sulle condizioni di vita di miliardi di persone, che tendono a muoversi in una direzione sostanzialmente identica, pur nella perdurante diversità dei sistemi politici. […] Qui interviene il terzo elemento, fondamentale: fondamentale: l’avanzare sulla scena d’una enorme e indistinta massa di persone, una moltitudine che viene dopo la fine dei grandi conflitti sociali otto-novecenteschi» (A. Asor Rosa, Il grande silenzio, cit., p. 97).

[73] Il testo del commiato è ora raccolto, con il titolo Cinquantadue, in A. Asor Rosa, Letteratura italiana. La storia, i classici, l’identità nazionale, Carocci, Roma 2014, pp. 223-234.

[74] Per una recente analisi che si sofferma sulle intuizioni e sui limiti della riflessione di Bianciardi sul lavoro culturale, cfr. I. Bussoni – N. Martino, Verso una nuova etica del lavoro culturale: da Bianciardi alla bohème e ritorno, in «Effimera» [http://effimera.org/verso-una-nuova-etica-del-lavoro-culturale-da-bianciardi-alla-boheme-e-ritorno-di-nicolas-martino-e-ilaria-bussoni»]. Ma interessanti sono anche i due testi di G. Allegri, Luciano Bianciardi: Il lavoro culturale dai quartari al Quinto Stato [http://www.ilquintostato.org/bianciardi-il-lavoro-culturale-dai-quartari-al-quinto-stato], e R. Ciccarelli, Luciano Bianciardi: epifanie del Quinto Stato [http://www.ilquintostato.org/bianciardi-quinto-stato].

[75] Cfr. per esempio i materiali raccolti nel fascicolo curato da D. Gentili e M. Nicoli, Intellettuali di se stessi. Lavoro intellettuale in epoca neoliberale, «aut aut», 2015, n. 365, ma anche G. Allegri – R. Ciccarelli, Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro. Precari, autonomi, free lance per una nuova società, Ponte Alle Grazie, Firenze, 2013. Su questo testo, rinvio alle osservazioni che ho svolto in Che cosa è il Quinto Stato. Leggendo un libro di Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli, in «Tysm», vol. 6, n. 10, dicembre 2013 [http://tysm.org/10474].

[76] Non casualmente il primo numero di «alfabeta 2» era dedicato al tema Intellettuali senza. Ma un contributo in questa direzione è giunto, per esempio, anche da M. Panarari, L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip, Einaudi, Torino, 2011, e da F. Colombo, Il Paese leggero. Gli italiani e i media tra contestazione e riflusso (1967-1994), Laterza, Roma – Bari, 2012.

[77] Vent’anni fa Negri per esempio si chiedeva: «Può ancora essere riconosciuta una funzione indipendente dell’intellettuale rispetto alla società? È ancora immaginabile una posizione separata per l’intellettuale all’interno della divisione del lavoro e della sua organizzazione?». E la risposta che forniva era nettamente negativa. «Il fatto», precisava inoltre, «è che nella società della comunicazione in cui viviamo il lavoro intellettuale è diventato un lavoro come un altro. L’intellettuale non è più separato dall’esistente, ma vi è inserito nella maniera più intima e profonda. Il suo lavoro è ciò che costituisce la realtà, bisogna essere intellettuali per produrre, per comunicare, per vivere». Cfr. T. Negri, Cos’è diventato l’intellettuale, in Id., L’inverno è finito. Scritti sulla trasformazione negata (1989-1995), a cura di B. Caccia, Castelvecchi, Roma, 1996, pp. 85-86. In modo differente, Virno collocava invece uno snodo cruciale nell’appropriazione dell’«Intelletto» da parte del processo produttivo: «il Lavoro ha assorbito i tratti distintivi dell’agire politico»; «tale annessione è stata resa possibile dalla combutta tra la produzione contemporanea e un Intelletto divenuto pubblico, irrotto cioè nel mondo delle apparenze»; infine, «a provocare l’eclisse dell’Azione è proprio la simbiosi del Lavoro con il general intellect, o ‘sapere sociale generale’». Cfr. P. Virno, Virtuosismo e rivoluzione. La teoria politica dell’esodo (1993), in Id., Mondanità. L’idea di «mondo» tra esperienza sensibile e sfera pubblica, Manifestolibri, Roma, 1994, p. 90.

[78] Una lettura di questo tipo del lavoro di Wu Ming è svolta da Y. Citton, Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra (2010), Alegre, Roma, 2013.

[79] Un discorso inevitabilmente differente potrebbe essere svolto per la produzione cinematografica, e in questa direzione si muovono per esempio A. Simoncini, Governare lo sguardo. Potere, arte, cinema tra primo Novecento e ultimo capitalismo, Aracne, Roma, 2013, e il numero monografico Gli spettri del capitale. Cinema e pensiero critico, della rivista «Il Ponte», 2014, n.11-12.

[80] Per una ricostruzione della teoria della «composizione di classe» (e delle sue differenti declinazioni), rimando a D. Palano, Nel cervello della crisi. La «storia militante» di Sergio Bologna tra passato e presente, in A. Simoncini (a cura di),  Dal pensiero critico. Pensare la politica, pensare il capitalismo, Mimesis, Milano, 2015, pp. 333-357, Id., Lenin a Pechino? Leggendo «Utopie letali» di Carlo Formenti, in «Tysm», giugno 2014 [www.tysm.org].

[81] Cfr. M. Tronti, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, il Saggiatore, Milano, 2015, p. 82. Su questo testo mi permetto di rinviare a D. Palano, L’ultimo lampo del Novecento. Appunti di lettura intorno a «Dello spirito libero» di Mario Tronti, in «Tysm», vol. 28, 2 ottobre 2015 [http://tysm.org/mario-tronti]. Di recente, la necessità di rimettere al centro l’«autonomia del politico» è stata argomentata, con sollecitazioni interessanti, anche da C. Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, Egea, Milano, 2011, e Id., Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna, Jaca Book, Milano, 2013.

[82] Cfr. E. Laclau, On Populist Reason, Verso, London, 2005. Sui limiti dell’o questo problema mi sono soffermato per esempio in Il principe populista. La sfida di Ernesto Laclau alla teoria democratica, in M. Baldassari – D. Melegari (a cura di), Il popolo che manca. La teoria radicale di Ernesto Laclau, Ombre corte, Verona, pp. 241-261.

[cite]

TYSM REVIEW
PHILOSOPHY AND SOCIAL CRITICISM
VOL. 28, ISSUE NO. 28 SEPTEMBER 2015
ISSN: 2037-0857
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