philosophy and social criticism

L’eccedenza dello sguardo. Per una filosofia dell’immagine. A partire da Lo sguardo e l’evento di Marco Dinoi.

Alessandro Simoncini

Premessa (nel tempo presente)

Individui isolati, umiliati, arrabbiati, impauriti si aggirano tra le macerie che il capitalismo finanziario va producendo, ridisegnando i lineamenti di un desertico reale globale nel quale in tanti navighiamo a vista. “Non è un paese per giovani, l’Italia. Non è nemmeno un paese per vecchi”[1]. Sotto i colpi della crisi entrambi rischiano di essere travolti e di interiorizzare, nel risentimento e nella rabbia, la tonalità emotiva che domina tanto la nostra piccola periferia quanto le aree centrali della società globale: una rancorosa paura di cadere che si sfoga su marginali e migranti derubricati a nuove classi pericolose e “vite di scarto”[2]. Nel frattempo l’etica d’impresa continua a dominare la scena e, dinamicamente alleata allo stato, plasma ormai l’intera società. Ben oltre la ristretta cerchia dei manager, si diffonde tutto un sadismo della concretezza secondo cui, in nome del principio d’interesse, “la soddisfazione per ogni vittoria è inseparabile da quella (in fondo omicida) per la sconfitta (e in fondo per la morte) dell’avversario[3]. Lo aveva intuito con preveggenza Michel Foucault, che già nel 1979 aveva avvisato: per la razionalità neoliberale “la vita dell’individuo, nel suo rapporto con la proprietà, la famiglia, il matrimonio, l’assicurazione, il rapporto alla pensione ecc. diventa come una specie di impresa permanente e multipla”[4]. Così la società civile si struttura come il campo di una continua competizione tra aziende, certo, ma anche tra imprenditori di se stessi, tra individui privati che si percepiscono come homini oeconomici. Allora prevale una logica per cui ogni cosa va conquistata privatamente sul mercato liberando la propria tensione acquisitiva, poiché appare scontato che “tutto appartiene allo scambio economico” e “nulla è comune”[5]. Intanto, dopo trent’anni di neoliberalismo, giovani e vecchi – per l’impresa si è ormai vecchi a 40 anni – vivono sotto lo spettro incombente della disoccupazione e di una quotidiana realtà fatta di sottoccupazione e precarizzazione. A corollario sta il beffardo cinismo di chi dirige l’ufficio “Risorse Umane” delle imprese.

In risposta a ciò – e in simbiosi con ciò – riemergono nel tempo nuovo logiche di matrice fascista che evocano lo spettro identitario della purezza nazionale ed etnica. Lo dimostrano da ultimo le leggi varate nel luglio del 2009 dal governo Berlusconi, vera e propria avanguardia del nuovo razzismo “democratico” europeo ed esito della lunga marcia sicuritaria che dall’ “apologia dell’ordine pubblico” di Luciano Violante, e dal primo “pacchetto sicurezza” del governo D’Alema, ha condotto alla generalizzazione del paradigma della sicurezza come normale tecnica di governo (dai decreti di emergenza, sul piano nazionale, alle ordinanze amministrative dei sindaci-sceriffo su quello locale) e al dilagare delle politiche repressive e del razzismo leghista[6]. L’ultimo varco all’interno del quale si è agevolmente incuneata l’onda razzista e forcaiola della destra italiana è stato aperto proprio da Walter Veltroni. Subito dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani avvenuto il 30 ottobre 2007, in un clima dominato dall’isteria collettiva e dalla insistente richiesta di leggi eccezionali, il sindaco diessino di Roma convocò i cronisti sull’onda dell’emotività e dichiarò testualmente che era “necessario assumere iniziative straordinarie e d’urgenza sul piano legislativo in materia di sicurezza” e che, “prima dell’ingresso della Romania nell’Ue, Roma era la città più sicura del mondo”[7]. In questo senso, prestandosi agevolmente a rilanciare la ventennale logica di costruzione delle nuove classi pericolose, l’omicidio Reggiani può essere considerato “il delitto che ha innescato un’intera catena di leggi semirazziali, che ha giustificato e legittimato nel cuore di tanti bravi cittadini la pulsione alla discriminazione e al linciaggio”[8].

In un simile quadro di produzione ed annullamento del nemico interno, un contesto di portata europea, le passioni tristi che si annidano nel ventre molle delle nostre “democrazie”, plasmano ormai – dall’interno di una grande crisi – quello “scontro dentro le civiltà” che, intimamente attivo dentro ciascuno di noi, rischia di favorire il trionfo definitivo dell’aggressività autoprotettiva sulle capacità empatiche delle donne e degli uomini[9]. E ciò nell’ambito stesso dei processi con cui costituiamo eticamente le nostre soggettività come forme di vita emotive ed immaginative che sempre più spesso non ci permettono più di vivere con gli altri, ma ci pongono immediatamente contro gli altri[10]. Una piccola borghesia che teme la proletarizzazione e rischia di perdere ciò che la definisce come tale (“il sur del suo salario e del suo tempo, il tempo del loisir) e un proletariato orfano dell’idea di classe – in via di progressiva inclusione nel corpo di una massa compatta nazionale che sempre più spesso tende a farsi folla e pubblico impaurito – sono quotidianamente lavorate ai fianchi da un discorso mediatico tanto egemone quanto ipocrita: quello secondo cui “sarebbero in fondo i più deboli e i più sfruttati (i nostri poveri operai) a soffrire la presenza dei più deboli e dei più sfruttati (gli immigrati)[11].

Le politiche dei diversi governi, poi (con l’Italia a far di nuovo da laboratorio), non paiono certo voler fronteggiare la crisi ma semmai approfittarne per perpetuare il vecchio sistema, elargendo ricche prebende ai responsabili del crack e, caso mai, elemosine ai poveri. Delirio sicuritario, nuove leggi razziali, erosione della sicurezza sociale, limitazione dei diritti di libertà, slittamento della democrazia rappresentativa verso le sabbie mobili di un ripugnante populismo autoritario sembrano trionfare sull’incapacità di rilanciare le vecchie strategie di salvezza sistemica che rispondevano al nome di Welfare State. Strategie non più declinabili secondo la logica del “Welfare in un solo paese”, che ancora sembra dominare un contesto nel quale gli stati nazionali europei – ora ossessionati dallo spettro della bancarotta  – sembrano soggetti ad un grottesco rifiorire dell’ideale nazionalistico e quindi del tutto incapaci di rilanciare l’idea di una “rifondazione” dell’Unione Europea[12]. “Cattivo ritorno della politica” quello che, davanti a tanti occhi addomesticabili (e per tanti versi già addomesticati), mette in scena un “nuovo Leviatano per molti versi casuale, ansimante e sbilenco […], zoppicante, ma pericoloso”, foriero tanto di discriminazione, disuguaglianza e conflitti quanto di inefficacia e spettacolare volgarità[13].

Dalle sedi centrali di elaborazione degli organigrammi imperiali (o forse sarebbe meglio iniziare a dire neo-multipolari), giungono però in apparente controtendenza precisi ragguagli obamiani:  tassare cautamente i super-ricchi per finanziare istruzione e sanità per tutti[14].  Non è ovviamente un caso che l’attuale  presidente si sia insediato alla Casa bianca intercettando una grande mobilitazione di massa, che a sua volta poggia su molti decenni di lotte dei movimenti afroamericani, latinos, pacifisti, di classe, femministi, gay ed altri[15]. E non sarebbe casuale che il suo operato mirasse realmente a recuperare almeno parzialmente un'”idea razionale di piano” utile a “sanare i momenti di cattiva sorte del capitalismo” (sembra consigliarlo, ad esempio, un liberale come John Rawls nella sua recente rilettura del pensiero marxiano)[16]. Per questa via neo-regolativa la nuova amministrazione statunitense potrebbe puntare davvero a riconfigurare nei fatti l’operato delle élite che hanno gestito gli apparati governamentali del fallimentare ciclo neoliberale della globalizzazione finanziaria.

Si tratta di un ciclo economico e governamentali, iniziato con la rivoluzione conservatrice delle reaganomics, che dopo la crisi della New Economy del 2000 ha toccato il suo apice, e l’avvio del suo prevedibile declino, con la risposta imperiale fornita allo spettacolare, drammatico evento che per qualche tempo ha catturato lo sguardo dei più, senza significativi margini di sottrazione possibile: gli attentati alle Twin Towers. È solo grazie all’attivazione di un sapiente apparato di captazione mediatica dell’attenzione e del consenso dei cittadini-spettatori – e al conseguente montaggio di un pervasivo regime di visibilità – che la risposta di guerra alla crisi è potuta decollare con tutto il suo generoso corollario di keynesismo militare. Oggi, con la grande crisi globale, ci accorgiamo bene del fiato corto del cosiddetto War on terrorism, talmente corto da condurre all’assai probabile fine del progetto imperiale statunitense avviato con la prima guerra del Golfo nel 1990-91[17].

E tuttavia il nuovo ciclo di guerre in medio oriente ha prodotto “giochi di verità” capaci di orientare potentemente l’immaginario collettivo e di depositare discorsi, concetti, enunciati, immagini in quel ricchissimo archivio dei saperi che sempre i poteri setacciano nel momento del bisogno. Anche per questo è importante leggere Lo sguardo e l’evento, il libro che Marco Dinoi ci ha lasciato prima della sua prematura scomparsa. Con un approccio tanto esteticamente raffinato quanto radicale sul piano teorico-politico, il volume infatti si interroga proprio sul modo in cui lo sguardo dei viventi è stato catturato da quell’evento (metafora e sintesi di un intero modo di produzione della soggettività spettatoriale eteronoma), nell’intento di gettare nuova luce sulla capacità e sull’incapacità di vedere che ha caratterizzato – e caratterizza – i processi di soggettivazione attivati da individui assai passivi rispetto al sistema delle immagini.

L’indagine di Dinoi verte sul modo in cui la mediasfera contemporanea ha contribuito a costituire nella tarda modernità occidentale lo sguardo di singolarità individualizzate funzionali ai dispositivi di potere e di sapere che si sono imposti durante la lunga marcia del neoliberalismo. Ma c’è dell’altro, poiché lo scopo principale del volume è quello di cartografare i fuochi di resistenza – forse le vere e proprie “strategie di resistenza” – con cui il cinema contemporaneo ha risposto alla sfida lanciata da quel connubio tra media e potere che ha tentato di governare ed imbrigliare, di forgiare e di condurre, i margini di libertà sempre presenti negli occhi di chi guarda[18]. “Il cinema più importante, in altre parole, suscita e mette in movimento uno sguardo indocile”: è questa la convinzione che spinge la ricerca di Dinoi tanto sul versante dell’assoggettamento quanto su quello della soggettivazione[19].

Governare lo sguardo

Travolti da un diluvio e proprio per ciò “naufraghi in un mare d’immagini”: così appaiono a Dinoi gli spettatori contemporanei[20]. L’azione del loro libero sguardo appare guidata da quella funzione tecnico-sociale che per Serge Daney la televisione mira ad adempiere grazie ad immagini assolutamente trasparenti – prive cioè di ogni fuori-campo – e ad “un visivo senza limiti che ci proietta in un reale senza altrove”, insomma in un eterno presente[21]. Il fine è quello di produrre il consenso dei soggetti non solo rispetto alle merci-immagini che consumano, ma anche verso il feticcio che queste finiscono per incarnare entro un ordine simbolico addomesticato. Sarà per questo che tutti guardano la televisione senza affatto rispettarla. Essa, infatti, è sì “tutto ciò che esiste di realista”, “dice la verità e informa in modo assoluto”, ma al contempo costituisce “l’inquinamento vero del nostro ossigeno mentale”[22]. E siccome non si può smettere di respirare, il modo più sensato di opporsi è di riconoscere nitidamente che “l’unico mondo di cui essa non cessa di darci notizie […] è il mondo visto dal potere”[23].  Di questo ambito del reale la televisione è “una quotazione in borsa divenuta liturgia”[24]. Dunque, se la guarderemo senza rispettarla – ci dicono Daney e Dinoi – sarà per attingere informazioni sul modo in cui il potere vede il mondo, interrogando con disincanto le immagini “che rappresentano il potere e che «lavorano» per lui”[25]. Con l’ovvia consapevolezza che nella loro assoluta trasparenza “tutto sembra disponibile” ma “nulla è direttamente maneggiabile”, “tutto è visibile” ma “nulla forse è veramente visto”, tutto sembra raggiungibile ma “nessun altro luogo è veramente raggiunto”[26].

A Dinoi non interessa tanto indagare la struttura profonda delle immagini – o se si vuole la loro costituzione ontologica -, quanto il modo in cui queste funzionano nel loro esercizio quotidiano di costruzione di un immaginario collettivo privo di fuori campo. Con un approccio che ricorda quello foucaultiano della Microfisica del potere, Dinoi si propone di gettar luce sul modo in cui, con il proprio pervasivo incedere, il dipositivo mediatico e ottico-visuale – questa macchina governamentale che Gilles Deleuze definiva “tecnica immediatamente socializzata” – produce e mette in circolazione immagini che assoggettano materialmente lo sguardo dei viventi[27]. Nella saturazione visiva dell’esperienza mediatizzata, spinto ad un’attenzione incostante, mobile e indifferente ai contenuti, il soggetto riempie i suoi occhi ma sperimenta una “mancanza di sguardo”[28]. Gli occhi dello spettatore sono soggetti ad un'”economia politica della percezione” in virtù della quale, pur continuando a sussistere la realtà esterna al sistema dei media, “la percezione della realtà […] tende a coincidere con quella totalizzante dello schermo”[29]. Lo sguardo del soggetto coincide così con quello dell’obiettivo e, incapace di distanza (di relazione con la complessità del reale), si identifica facilmente in ciò che si vede, finendo “ostaggio” delle immagini senso-motorie delle cose e, in ultima analisi, del “meccano mediatico del controllo”[30]. Si giunge così ad una relazione in cui “lo spettatore fa tutt’uno con lo schermo che predispone per lui uno spettacolo che già conosce o pensa di conoscere”[31]. Ogni alterità viene dissolta. Nella sua esperienza mediale atomizzata il soggetto – ma sarebbe meglio dire una moltitudine di soggetti – incontra sempre quel Medesimo che polverizza il suo sguardo: “abitualmente – scriveva Gilles Deleuze – percepiamo dunque soltanto clichè”[32].

Di questo lavorio incessante con cui la mediasfera veste “l’evento di volta in volta per amplificarne la potenza cognitiva” e per “organizzare le immagini neutralizzanti o normalizzanti” tramite la concatenazione dei cliché, sono emblematica e nuda sintesi  le immagini degli attentati contro le Twin Towers[33]. Di fronte ad esse lo spettatore è stato sopraffatto, come avvinto da immagini che riempivano lo schermo “senza lasciare scarti, zone d’ombra e di opacità, in cui lo sguardo potesse installarsi ed agire in modo almeno parzialmente autonomo”[34]. “Sembra un film”: è ciò che nel tentativo di domare cognitivamente gli eventi, tutti gli spettatori hanno pensato di fronte all’ossessiva video-ripetizione di quell’evento. Appigliarsi al residuo di finzione precedentemente prodotto dai moduli centrali della cinematografia catastrofista, ha consentito ai più di ricondurre l’inedito al déjà vu. Portando all’estremo le normali logiche del dispositivo mediatico, la ripetizione ipertrofica ed ossessiva di quelle immagini ha di fatto impedito di “vedere alcunché e quindi di interpretare l’evento”[35].

La reiterazione ossessiva di quelle immagini – il cui correlato era la coazione a ripetere a cui è stato sottoposto lo spettatore – ha infatti collocato l’evento reale nel tempo dell’eterno presente e in uno spazio a-prospettico. Con Maurizio Grande, Dinoi mostra come, divenuta “immagine totalizzante”, una simile “sceneggiatura del reale” abbia illuso gli spettatori di poter agevolmente cogliere la “cosa”, finendo in realtà per neutralizzarne l’immaginario appiattendolo “sulla sensorialità percettiva dell’immagine” e deprivandolo della sua capacità di funzionare come “sfondo e moltiplicatore dell’immagine”[36]. Così l’eccedenza di senso presente in quelle stesse immagini – il loro fuori campo – è stata dribblata a favore di una lettura quasi obbligata che ad uno sguardo atrofico, fissato ossessivamente su una sola sequenza, le offriva come “un attacco portato dall’esterno a una comunità, o, nelle versioni più «teologiche», a una «civiltà»”[37]. Dinoi non manca di sottolineare che una simile trasmissione dell’evento non è affatto nuova in sé, ma ha piuttosto costituito “un passaggio al limite di quelle dinamiche che hanno nutrito il sistema dei media prima che esso si verificasse”[38].

Di più, condividendo un’interpretazione che vede nel ciclo bellico inaugurato dalla guerra all’Afghanistan una risposta alla crisi economica in corso negli Usa dopo l’esplosione della bolla finanziaria dei titoli della New Economy, Dinoi osserva come le immagini dei drammatici attentati siano state funzionali a quello scopo[39]. Da quel momento, poi, è stata amplificata una logica mediatica che puntava a identificare il visibile con il visto. Il regime di produzione e di circolazione delle immagini montato in occasione della guerra contro l’Iraq del 2003 ha poi mostrato come, nei confronti di una massa ormai divenuta audience, “frammenti di realtà embedded” sono stati fatti coincidere con l’evento stesso della guerra, la cui realtà – chiaramente progettata come un sapiente dosaggio di “vittorie militari e sangue necessario per raggiungerle” – è potuta apparire massimamente trasparente alla percezione proprio mentre diveniva  massimamente opaca alla cognizione[40]. L’apparato cognitivo del pubblico mondiale doveva infatti rimanere schiacciato sotto il peso di quello stesso schema binario che restaurava il potere del clichè amico/nemico, occidente/oriente. Da una parte andava in scena il “Grande racconto del Terrore – con la reiterazione ossessiva del crollo  e degli attentati – e, dall’altra, su quella stessa narrazione (voluta e suscitata) agevolmente si innestava il rilancio per immagini del sanguinario discorso jihadista, finalizzato alla mobilitazione delle masse e fondato sull’esaltazione della figura del martire che si immola per la Verità[41].

Una polarizzazione questa già da molto tempo attiva nell’industria cinematografica, che ha così oggettivamente agevolato il compito del Pentagono nel War on terrorism, fornendo “prova empirica definitiva  che – come ha sostenuto Slavoj Žižek – Hollywood funziona effettivamente come «apparato ideologico dello stato»”[42]. E infatti la percezione degli spettatori è stata regolata anche dal residuo di finzione contenuto dalle immagini del crollo, un vero e proprio “eccesso di realtà”[43]. Per essere sopportato quel reale andava ricondotto alla sua spettrale irrealtà di incubo. Il “nocciolo duro del Reale” non poteva essere fronteggiato se non con il riferimento ad una finzione che almeno in parte lo esorcizzasse e che, al contempo, facesse da sfondo immaginario e cognitivo. La fiction cine-catastrofista che lo aveva anticipato era agibile allo scopo. Aggrapparsi a quel residuo funzionale (e funzionale) era facile, poiché ciascuno disponeva nella propria memoria di un cumulo di immagini hollywoodiane d’archivio a suo tempo prelevate da visioni filmiche. Quelle immagini ora favorivano la protensione della coscienza degli spettatori verso l’adesione alla “guerra preventiva”.

Nel gioco di ritenzione e protensione, la ricezione-realizzazione dell’evento è avvenuta anche per mezzo di un simile connubio, che ha così favorito il materializzarsi di angosce e paure fantasmatiche funzionali alla identificazione certa del nemico responsabile della catastrofe. Quando poi la ripetizione dell’immagine del crollo l’ha resa “immagine al quadrato”, e in seguito vero e proprio “archetipo”, il fantasma del nemico ha occupato per intero la scena. Sotto il peso ipertrofico del cliché la cosa, cognitivamente cancellata, ha aderito al suo simulacro. L’evento ha allora perso tutta la sua complessità. L’immagine non è più stata tale. L’immagine dell’evento non ha potuto che essere totalmente piegata “alla reazione militare a venire” ed è stata presto collocata a fianco delle “altre immagini belliche che non avremmo tardato a vedere”: quelle della cosiddetta “giustizia infinita”[44].

Una sapiente biopolitica dello sguardo – veicolata da quell’ “apparato tecnico globalizzato, che oggi coincide sempre più con una macchina che produce immagini della propria legittimità” –  ha così mirato a governare la libertà degli occhi di intere popolazioni e di milioni di singoli spettatori[45]. Ha infatti ambito ad orientarne la condotta verso l’adesione agli assiomi manichei di un progetto imperiale che, di fronte all’endemica crisi di un capitalismo finanziario che passava di bolla in bolla, richiedeva proprio la guerra. Ma, più in generale, ha tentato di assorbire l’occhio dello spettatore (e anche quello della macchina da presa) “in una funzione totalizzante”, collocandolo nella posizione del consumatore di immagini-merce sulle quali non è possibile intervenire[46]. E, sia detto per inciso, di quelle immagini-merce prive di linee di fuga e di vuoti in cui l’occhio dello spettatore potesse installarsi, la sequela oscena ed infinitamente ripetuta dei piani medi dei reality show – spacciata grottescamente a milioni di individui per “avventura della percezione” – non è che l’ultima grottesca figura.

Sguardi indocili e pratiche di libertà

“Una parte minoritaria ma importante del cinema contemporaneo ha sperimentato i suoi atti di resistenza” contrastando l’egemonia dei cliché attivi entro i dispositivi di una macchina mediatica che forniva alla guerra giochi di verità spendibili sul mercato del visibile[47]. Dinoi cita molti esempi di un cinema che, in questo contesto, ha funzionato come una pratica di libertà capace di riattivare l’indocilità dello sguardo spettatoriale.

È il caso di Ken Loach, che nel suo contributo al film collettivo 11’09”01, ha tentato di sciogliere l’abbraccio mortale tra l’evento e la sua immagine allo scopo di “fare emergere le peculiarità dell’uno e dell’altro”[48]. Infatti, se la restituzione mediatica dell’evento 11 settembre ne cancella ogni dimensione storica, Loach lo pone direttamente in serie con il golpe contro Salvador Allende dell’11 settembre 1973, voluto e finanziato dalla Cia. Come a dire che quello dell'”attacco agli Stati Uniti e all’Occidente” (il discorso con cui si è ottenuta la “mobilitazione cognitiva di massa” propedeutica alla guerra) è lo stesso mondo reso possibile dal colpo di stato in seguito ala quale è stato allestito il laboratorio di quel neoliberalismo globalizzato che ha acuito le disuguaglianze e amplificato il dramma di tanti, troppi abitanti del pianeta. E come a dire che leggere l’evento dei drammatici attentati come “«l’attacco del male» è operazione speculare rispetto a quella che vuole interpretarlo come «la rivalsa dei diseredati contro l’impero americano»”[49]. Loach mostra insomma che l’evento non si può chiudere in un’immagine ossessivamente ripetuta e finalizzata a tamponare il lacerante vuoto di senso vissuto da soggetti mobilitati alla guerra.

È quello stesso vuoto a riemergere, sia pure in modo silente ed allusivo, nei protagonisti de La venticinquesima ora di Spike Lee. I personaggi del film infatti non riescono a guardare in faccia l’enorme spazio vuoto di ground zero, cifra della “più intollerabile realtà” causata da un evento a cui si è reagito lasciandosi abbagliare dall’assoluta trasparenza del dispositivo mediatico, nell’illusione di vedere tutto[50]. In quel tutto, che in realtà è riassumibile con l’ “intorpidimento narrativo” dettato dal ripetersi ossessivo della medesima sequenza, lo spettatore globale ha potuto reperire l’illusione di possedere anche cronologicamente l’evento, mentre – identificando il male – fissava nella propria soggettività e nella coscienza collettiva la memoria del trauma.

Così scolpita nell’immaginario, quell’icona “ha subito smesso di essere un‘immagine, per diventare archetipo. Macabro spettacolo totale inedito per la sua configurazione”[51]. Temporalmente sospeso e collocato in un presente continuo e bloccato, esso diviene il totem simbolicamente onnipotente – e il totum inarchiviabile, insostituibile – codice di ogni immagine da ora visibile e condizione di possibilità per ogni enunciato materialmente dicibile. Tra il prima e il dopo c’è ormai solo un vuoto pneumatico nel quale facilmente si innestano le retoriche del “nulla sarà più come prima”, del “siamo tutti americani” e dello “scontro di civiltà”. “Da questo punto di vista – sottolinea Dinoi – il sistema mediatico, attivo alla maniera di un automatismo apparentemente privo di intenzionalità, ha fatto precisamente il gioco dei mandanti dell’attacco”, che richiedevano implicitamente la massima diffusione possibile delle immagini per poter affermare la forte valenza simbolica di quel “passaggio all’atto” nel corpo vivo del reale[52]. E quel reale era segnato da un orientalismo mediatico d’accatto, in cui a trionfare sarebbe presto stata la belluina logica “amico-nemico”, “noi-loro”: un “loro” poveramente sintetizzato dall’icona fantasmatica del volto di Bin Laden.

È a quella stessa icona preconfezionata che, sbagliando persona e senza riuscirvi, i ragazzini del villaggio del Burkina Faso messi in scena da Idrissa Ouedraogo nel suo episodio di 11’09”01 danno la caccia per poter riscuotere la taglia con cui curare la madre di uno di loro. Ouedraogo restituisce così la potenza con cui i media occidentali hanno utilizzato la logica della produzione di simulacri come “moltiplicatore dell’immaginario” e come strumento per “iscrivere il simbolico nel reale”[53]. Si tratta dell’operazione che ha permesso di legittimare una guerra combattuta anche a suon di immagini: quelle fin qui descritte ma anche quelle, ugualmente astratte ed altrettanto macabramente reali, degli sgozzamenti di ostaggi occidentali. È con la produzione e la messa in circolazione nel Web di simili visioni che i sequestratori iracheni hanno mirato a fissare simbolicamente nel reale il discorso per cui “ogni occidentale è un invasore”. L’ovvio sottinteso era che insieme lui avrebbe dovuto essere massacrato l’intero occidente.

A questa riduzione dell’evento a punto di origine e di frattura che si regge sul dualismo tradizionale causa-effeto e può rivelarsi funzionale a sostenere antinomie “guerriere”, si oppone per Dinoi il modo in cui cineasti come Resnais, Pasolini, Godard e Cassavetes hanno sempre utilizzato il montaggio – “foucaultianamente”, aggiunge l’autore – come “agente di dispersione molecolare dell’evento”[54]. È quanto accade in Hiroshima mon amour di Resnais, dove all’ “ho visto tutto a Hiroshima” del personaggio francese si contrappone il “non hai visto niente a Hiroshima”, pronunciato a più riprese dall’amante giapponese.

Nel discorso televisivo lo spettatore è avvolto nelle spire dello spettacolo del mondo: la realtà gli parla dimenticando “di dire di quale posizione in particolare (sociale, culturale, politica) è l’effeto e lo strumento”[55]. Così lo inchioda ad un reale univoco che veicola effetti di verità tramite “idee senza parole”[56]. Nel cinema critico-espressivo invece lo spettatore può divenire altro da quanto accade sullo schermo[57]. Il suo sguardo è certamente convocato da uno schermo, ma non per restare imbrigliato nella posizione di chi resta passivo di fronte alla realtà che gli parla, bensì per essere collocato entro una spazialità in cui possa confrontarsi con tante posizioni possibili. L’evento ospita allora i punti di vista compossibili dei diversi personaggi e lo spettatore occupa un sito che si fa instabile (come quando viene condotto da Lang o Hitchcock ad identificarsi con chi diverge moralmente da lui in modo radicale ), inassegnabile (come nel cinema di Lynch o Haneke, in cui una soggettività “vertiginosa” non è quasi mai chiaramente connotabile), polverizzata (come nella dissoluzione del punto di vista ad opera della potenza della Storia e delle storie messa in scena dal cinema di Rossellini). In altri termini, il cinema migliore disloca lo spettatore “dal punto di vista che i media hanno assunto su un evento”[58]. È quanto Dinoi scorge in ABC Africa 2001 di Kiarostami che, con le sue inquadrature nere, punta a sottrarre lo sguardo dello spettatore occidentale al regime di visibilità generalizzata attivato dal discorso mediatico, nell’intento di rendergli visibile l’Africa nella sua alterità.

La stessa logica è presente nella lunga inquadratura nera che Iñárritu pone in avvio del suo contributo allo stesso 11’09”01, dove il nero permette di sottrarre le immagini agli assiomi mediatici e così (rendendo assente l’ossessiva ripetizione del crollo delle torri) di “recuperare un vuoto produttivo su cui erigere nuove e alternative architetture di senso”[59]. È grazie allo sfondo nero, infatti, che riusciamo a vedere ciò che le immagini televisive hanno disertato o ci hanno mostrato tenendoci a distanza di sicurezza: quei corpi che si lanciano nel vuoto e che nelle immagini ingrandite proposte dal regista messicano ora appaiono come “lampi in un cielo notturno”[60]. “Lampi laceranti di senso ipertrofico” che squarciano il nero in cui affondano e, insieme alla voce “qualunque” di chi lascia l’ultimo messaggio in una segreteria telefonica, consegnano allo spettatore il punto di vista della vittima[61]. Ma quella vittima è sempre “individuale” e, con la sua sola tragica singolarità, convoca la responsabilità dello  sguardo dello spettatore per mobilitarlo. Non dunque per spingerlo a riempire forzosamente il vuoto cognitivo e percettivo con un orizzonte di senso totemico e totalizzante, ma per ricordargli che “non abbiamo visto tutto” e che “non potevamo vedere tutto”[62]. “Poetica dell’interferenza”, quella di Iñárritu, con cui il cinema punta a disturbare lo spazio liscio dell’immagine mediatica che – sotto la spinta di una trasparenza assoluta dettata da una presunzione di onnivisibilità – “cola senza soluzione di continuità nell’immaginario”[63]. Strategia di resistenza in cui l’immagine non si sostituisce più all’evento fino al punto in cui “è l’immagine che guarda noi, senza che possiamo restituirle lo sguardo”, ma al contrario permette allo spettatore di “installarsi nell’evento in quanto immagine, di lavorare l’immagine stessa per conferire un senso possibile anche all’insensato”[64].

E d’altra parte il cinema critic-espressivo interviene anche sul modo di produzione di immagini “ideologiche” finalizzate a funzionare come una leva grazie a cui l’occhio dello spettatore che le consuma fornirà il proprio consenso a eroismi e patriottismi attivati in funzione sistemica. È l’operazione che Clint Eastwood conduce in Flag of our fathers, che Dinoi cita ad esempio di un cinema capace di smontare il dispositivo propagandistico della costruzione di immagini funzionali alla colonizzazione di un immaginario collettivo mobilitato alla guerra. Di più, come in una sorta di “controcanto della visibilità forzosa” assegnata dalla propaganda all’immagine della presa di Iwo Jima, Eastwood ci dice che molto di quegli eventi è destinato a restare opaco, poiché la memoria dei suoi protagonisti non può che essere lacunosa ed incapace di fornire una nuova totalità di senso contrapposta alla prima[65].

“Zone di invisibilità” devono restare, nel cinema critico, a testimoniare che questo non ha mai una mera funzione documentaria, ma semmai quella di aprire nuove strade a modalità di visione diverse, anche a partire dall’accumulazione di frammenti visuali capaci di inquietare il grande archivio della memoria iconica del passato. Solo così, nel tempo del “qui ed ora” che sarà il loro, futuri spettatori potranno farsi immagini alternative, ma non totalizzanti, di un passato convocato per schizzare nel tempo presente al fine di modificarne in chiave emancipatoria i lineamenti fondamentali. Tutto ciò è sempre possibile, sia perché esiste tutta una “vita postuma delle immagini” – scrive Dinoi citando Aby Warburg, Giorgio Agamben e Chris Marker- sia perchè le immagini sopravvivono. La condizione imprescindibile perché ciò sia però davvero realizzabile è che il soggetto storico sia capace di rimetterle in movimento quelle immagini.

È un’ operazione che il cinema può contribuire a realizzare proprio sottraendo icone all’archivio dei vincitori, attivandone il potenziale sovversivo contro le stesse intenzioni per le quali sono state prodotte. In un modo che ricorda il detournement teorizzato (e praticato) da Guy Debord – vero e proprio “atto di rapina rivoluzionaria nel deposito della tradizione”[66] -, il cinema può così modificare “la postura del nostro sguardo”[67]. Quello sguardo che – si sa – nella sua ambivalenza “ci permette di vedere o ci rende ciechi”[68].

Lo sguardo (d)e(l)l’altro

Lo sguardo a cui la pratica di resistenza cinematografica può contribuire a dar forma è il tema su cui si sofferma l’ultimo capitolo del volume. Come per Roland Barthes, anche per Dinoi lo sguardo appartiene a quel “regno della significazione” rispetto al quale però è sempre eccedente: il suo stesso essere, infatti, “dipende dal suo eccesso”[69]. In altri termini, appoggiare lo sguardo sul reale può certo significare aderire al visibile offerto dallo spettacolo del mondo e alle forme di vita in esso divenute egemoni, tuttavia lo sguardo stesso può sempre eccedere il mondo, proprio a partire da quelle zone vuote  individuabili nella stessa fitta tela del regime di visibilità vigente che Dinoi chiama “buchi”. Insomma, “lo sguardo è affetto dal mondo, ma è anche architetto del mondo (dei mondi), perché fa pressione sul mondo[70]. Può cioè divenire attivo e performante, poiché “è un eccesso che erra nel mondo, ma, nello stesso tempo, viene ecceduto dal mondo”[71]. “L’immagine-del-mondo” – quella che riproduce il mondo – è sempre in dialogo con lo sguardo e con la sua costitutiva ambivalenza. E dallo sguardo può essere in ogni momento criticata, modificata, trasvalutata.

Quando l’immagine tenta di vincere questo eccesso, sottraendosi al dialogo con lo sguardo – ed in ultima analisi alla sua natura di processo – diviene immagine-oggetto. Proprio come accade alle sequenze degli aerei scagliati contro le torri che crollano ripetutamente, infinitamente: come in un amplificazione paradigmatica ed estrema di quella “visione senza sguardo” che per Régis Debray è la cifra ultima dell’immagine televisiva (e più in generale dell’era del visivo che quella spinge a maturazione)[72]. L’immagine perde così la propria natura processuale e convoca lo sguardo nell’intento di cancellarne i tratti costitutivi. In nome di una celebrata “democrazia dello sguardo”, la produzione di oggettività realizzata dalla videosfera attiva il motto “vedere tutto, vedere tutti e vedere ora”[73]. Lo scopo è quello di includere l’occhio dello spettatore nell’immagine-oggettiva totalizzante per costruire un immaginario normalizzato e aderente agli emblemi intoccabili dell’ordine simbolico democratico ed ai suoi assiomi capitalistici[74]. Negli ultimi anni – ma è solo l’ultimo esito a cui i dispositivi della “visione senza sguardo” hanno contribuito in modo decisivo a condurre – ne è conseguita una “mobilitazione cognitiva di massa” grazie alla quale, aderendo alla cosiddetta “guerra al terrore” ci si è infine ritrovati “distratti da Al Qaeda, derubati da Wall Street”[75]: da una parte l’intervento militare promuoveva a suon di bombe quel valore sacro della democrazia che si trattava di esportare ovunque regnasse la “barbarie”; dall’altra – dopo il drastico ridimensionamento della cosiddetta New Economy – il mercato speculativo dei mutui immobiliari a buon mercato e il credito al consumo, sostenuti da strategici, continui ribassi dei tassi di interesse, gonfiavano la nuova bolla speculativa che avrebbe poi generato la drammatica crisi attuale.

Distratti dal “«tempo reale» della diretta televisiva”, divenuto un “presente continuo” dominato dall’eterna ripetizione delle medesime sequenze, gli spettatori sono stati illusi di vedere tutto ora e di vederlo tutti. Di fatto però è così venuta meno la loro capacità di esercitare lo sguardo nella sua singolarità[76]. Assorbito in modo individualizzante e totalizzante dal dispositivo tecnico-sociale, e spinto ad un processo di identificazione immediata, il demos – insieme la singolarità degli occhi di gran parte dei viventi che lo compongono – è evaporato in un pubblico il cui sguardo collettivo veniva catturato dall’immagine televisiva, che costitutivamente “guarda tutti” senza mai “suscitare uno sguardo”[77]. Mentre tutti pensavano di vedere tutto, ed erano realmente attratti dalla “possibilità di vedere tutto senza essere visti” (una possibilità che il medium televisivo da sempre promette), prendeva realmente forma la “prospettiva totalizzante di uno sguardo senza punto di vista”[78]: non quello di spettatori che “sono stati visti dagli schermi“, ma quello degli stessi schermi che li guardavano e li spingevano ad un’agire cognitivo di guerra[79]. Il sistema mediatico ha raggiunto così l’apogeo della sua potenza passivizzante: “l’immagine – un’immagine priva di punti di vista – ci ha visti guardare”, poiché in effetti guardavamo tutto senza poter vedere nulla, chiusi come eravamo dentro un’immagine che ci privava dello sguardo[80]. Realizzando il governo della soggettività di uno spettatore la cui condotta cognitiva andava orientata verso la guerra, la “coscrizione degli occhi” che abitualmente il medium televisivo persegue ha così preso la forma di un sapiente arruolamento di massa[81].

A questo dispositivo mediatico di governo della libertà degli occhi, “all’assenza di sguardo che il sistema mediatico programmaticamnte persegue”, il “grande cinema” ha saputo spesso rispondere attivando una differente “architettura degli sguardi”[82]. Dinoi mostra come lo abbia fatto in diversi modi: con le situazioni oniriche esibite da Linch, capaci di sottrarre allo spettatore ogni possibilità di identificazione e di gettarlo in una depersonalizzazione pensata proprio per restituirgli occhi diversi da quelli con cui si guardano le immagini totali della Tv; con il lavorio di Welles sull’apparente trasparenza delle immagini e sul modo in cui la Storia ha precluso la via alle tante storie che, pur essendo state sconfitte, continuano a “premere” sull’ “essere per quello che è divenuto” rendendolo comunque molteplice, aperto a sempre possibili linee di fuga e a nuovi processi di soggettivazione[83]; con la consapevolezza che Godard mutua da Rossellini sul fatto che “l’immagine non è tanto importante per quello che mostra, ma per quello di cui si fa relais, per ciò che è capace di mettere in relazione e per la forma stessa di tale relazione”[84]; con la poetica del vuoto di Antonioni, che giocando sulle lacune interne alle immagini, le sottrae radicalmente all’idea televisiva che tutto il visibile sia mostrabile: l’immagine stessa cessa così di alludere ad un significato trasparente, ad un clichè totalizzante, per divenire spazio vuoto in cui – a partire dal fatto di mostrare che vi è qualcosa che non si può mostrare – diventa finalmente possibile “una nuova edificazione […] del senso”[85]; con quel blocco della narrazione che, secondo Daney, permette all’ Alain Resnais di Notte e nebbia di traghettare il cinema nell’ “età adulta”, sancendo definitivamente – e non a caso di fronte alla drammatica impresa di filmare la shoah – che “la sfera del visibile ha cessato di essere disponibile nella sua interezza: ci sono ora assenze e buchi, vuoti necessari e pieni superflui, immagini per sempre assenti e sguardi venuti meno per sempre. Spettacolo e spettatore cessano di rinviarsi tutte le palle”[86].

La posta in gioco del grande cinema – che in quanto tale combate sempre una crociata contro la sterilizzazione dello sguardo – consiste insomma nella produzione di un nuovo regime di visibilità, capace di “mettere in movimento lo sguardo […] e lasciare libero lo spettatore di incrociare un altro sguardo che lo metta in questione”[87]. Magari fino a generare in lui quella crisi permanente del suo modo di vedere che lo costringerà ad abbandonare la “comoda posizione di spettatore”, figura egemone della soggettivazione nelle mille stanze allestite dalla società dello spettacolo integrato[88]. In altri termini, come ha sostenuto Jean-Luc Nancy a proposito del cinema di Abbas Kiarostami, il grande cinema convoca sempre (e contribuisce incessantemente a produrre) uno sguardo in crisi, poiché “guardare non è in fin dei conti che pensare il reale, mettersi alla prova di un senso che non si domina più”[89].

Esemplare a questo proposito è la lettura  che Dinoi propone di Caché (Nascosto), il bel film di Michel Hanecke uscito in Italia con l’imbarazzante titolo Niente da nascondere. Il protagonista francese del film, il critico letterario televisivo di successo Georges (intepretato da Daniel Auteil), è ossessionato da inquadrature fisse ed enigmatiche recapitate regolarmente con videocassette anonime. Finisce così per mettersi sulle tracce del mittente, identificandolo senza essere sicuro che si tratti realmente di lui, in un uomo algerino che per qualche anno gli fu fratellastro adottivo nella prima infanzia: a quel tempo Georges lo aveva accusato ingiustamente di soprusi mai compiuti, causando in tal modo il suo allontanamento dalla casa dei genitori e privandolo, di fatto, della possibilità di vivere una vita decente. Ora lo ritrova all’interno del più grigio appartamento di un enorme, spersonalizzante condominio della banlieu parigina, a testimonianza delle difficoltà di un’esistenza originariamente segnata da un evento originario il cui riaffiorante ricordo getterà Georges nel senso di colpa. Quando poi l’uomo algerino si suiciderà di fronte a lui per motivi su cui la sceneggiatura del film evita accuratamente di indugiare, quel senso di colpa – che Georges tenta ripetutamente di negare a se stesso – diverrà bruciante. La colpa infantile di Georges è l’irremovibile simbolo e la perenne metafora di quel rapporto di dominio violento tra la Francia e le colonie che nell’età postcoloniale continua a permeare la linea di di separazione (e di contatto) tra borghesia bianca e proletariato nero. L’Algeria è per la Francia un “fantasma ritornante”: a questo allude il perturbante che stravolge la vicenda umana della famiglia di Georges.

Di fronte a tutto ciò lo spettatore è spinto a vedere con gli occhi di un altro che non giunge mai a conoscere, poiché – ed è ciò che per Dinoi più conta – il punto di vista dell’altro (restituito dalle inquadrature fisse registrate) non ha nome, né lo avrà alla fine del film. Di fatto quel punto di vista resterà solamente il luogo da cui le riprese sono state realizzate. Lo spettatore – affine in ciò allo stesso Georges – si colloca allora nel luogo in cui non può vedere chi è l’altro, ma diviene capace di vedere come l’altro. Il suo sguardo si volge verso un’immagine specularmene opposta al nitore anodino di quella televisiva: se quest’ultima, infatti, è incentrata su “una visione economica che obbedisce a principi di efficacia prestabiliti, che ordina il taglio dell’inquadratura [e] la drammaturgia in base alla presunta chiarezza della visione e all’elisione delle zone d’ombra”, la prima è costitutivamente opaca[90]. E lo è proprio perché muove da quello sguardo dell’Altro “con cui abbiamo reciso ogni legame ottico-esistenziale, avendolo collocato nello spazio liscio e innocuo del clichè”[91]. La radicalità di Hanecke consiste proprio nel riaffermare che “il nostro occhio è uno schermo”:  può lasciarsi assorbire e catturare dal clichè sicuritario sociale e televisivo che ci permette di schivare l’incontro con l’altro (nell’illusione di vedere tutto di lui, come nelle “pornografiche” immagini-oggetto della guerra contro l’Iraq), ma può anche entrare in relazione con “ciò da cui veniamo visti”e, in virtù di ciò, “accogliere la proiezione dell’Altro”, lo sguardo dell’altro, appunto[92].

Forse la battaglia contro il potente dispositivo della mediasfera che attualmente governa l’orizzonte percettivo e cognitivo orientando lo sguardo dei viventi non è neppure iniziata. Non potrà iniziare senza un protagonismo dal basso capace di opporsi radicalmente ai media mainstream. Di certo, però, la lettura del libro di Dinoi ci fornisce almeno un motivo per non disperare: “al mondo non c’è solo la società”, come ben sapeva Serge Daney. E il grande cinema, questa “gigantesca macchina asociale”, è ancora capace di alludere a mondi possibili in cui praticare altrimenti lo sguardo (d)e(l)l’altro[93]. O l’alterità di uno sguardo eccedente.

Note:

1) L. Gallino, Umiliati e arrabbiati, “La Repubblica”, 4 marzo 2009.

2) Z. Bauman, Vite di scarto, Roma-Bari, Laterza, 2005. Sulla ricaduta razzista dell’introiezione della paura di cadere da parte dei cittadini “di prima classe” dei paesi a capitalismo avanzato, Ferruccio Gambino ha scritto parole lucide e di penetrante attualità: “nel caso della paura di cadere, il principale strumento puntato contro gli immigrati è stata l’esclusione: dai posti di lavoro qualificati, ma anche dal mercato delle abitazioni e dal corteggiamento e partnership sessuale manifesta. Di fronte a un forte potenziale migratorio a livello internazionale, i governi hanno sfoggiato un ricco armamentario di strumenti economici, politici, militari e di polizia nei confronti degli aspiranti all’emigrazione per trattenerli o nei loro paesi d’origine o nei paesi vicini”. F. Gambino, Migranti nella tempesta, avvistamenti per l’inizio del nuovo millennio. Ombre Corte, Verona, 2003, p. 121.

3) A. Cavalletti, Classe, Torino, Bollati-Boringhieri, 2009, p. 136.

4) M. Foucault, Naissance de la biopolitique, Paris, Gallimard-Seuil, 2005, p. 248.

5) F. Berardi (Bifo), Come si cura il nazi. Iperliberismo e ossessioni identittarie, Verona, ombre corte, 2009, p. 12.

6) Cfr. S. Palidda, La lunga marcia della tolleranza zero, in “Il manifesto”, 4 luglio 2009; S. Palidda, a cura di, Razzismo democratico. La persecuzione degli stranieri in Europa, Milano, Agenzia X, 2009; A. Rivera, Clandestino, cioè colpevole, in “Carta”, 30-1-2009, inhttp://www.carta.org/campagne/migranti/16386 e Lunaria, a cura di, Libro bianco sul razzismo in Italia, Roma, 2009, in http://www.lunaria.org/allegati/librobiancorazzismo.pdf.. Sul nuovo razzismo europeo cfr. anche S. Mezzadra, Il nuovo regime migratorio europeo e la metamorfosi contemporanea  del razzismo, in Id., La condizione politica postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, ombre corte, 2009.

7) A. Colombo, Delitto Reggiani, ora sarete contenti, in “L’altro”, 11 luglio 2009, p. 2.

8) Non poteva quindi essere punito se non con la massima pena prevista dall’ordinamento penale italiano. Come ha scritto Andrea Colombo, “nulla di meno avrebbe accontentato il popolo linciante”: con una sentenza che ha concluso “una vicenda che sin dall’inizio è stata molto più appannaggio della politica che della cronaca nera”, il 9 luglio del 2009 (dopo il processo di primo grado gli aveva assegnato 29 anni di reclusione) Nicolae Romulus Mailat è stato condannato all’ergastolo. Ibidem.

9) Lo ha recentemente segnalato, soffermandosi sul caso indiano, Martha Nussbaum in Lo scontro dentro le civiltà. Democrazia, radicalismo religioso e futuro dell’India, Bologna, Il Mulino, 2009.

10) S. Chignola, Il male oscuro della democrazia liberale, in “Il manifesto”, 2 aprile 2009.

11) A. Cavalletti, Classe, cit., p. 134.

12) U. Beck, Per rifondare l’Europa, in “Il corriere della sera”, 17 aprile 2009.

13) C. Galli, La politica inadempiente, in “La repubblica”, 26 marzo 2009.

14) Sull’ambivalenza di quei ragguagli, concretamente condensati nel discorso sulla legge finanziaria tenuto al Congresso da Obama il 24 febbraio scorso, cfr. R. Sciortino, La prima finanziaria di Obama, in http://www.infoaut.org/articolo/la-prima-finanziaria-di-obama. Cfr. anche Id., Barack Obama, la crisi e la Cina, in http://www.carta.org/campagne/dal+mondo/16593.

15) Cfr. R. Zibechi, Sognocollettivo, in “Carta”, 42, 2008 e A. Negri, Dietro questa vittoria, la grande lotta moltitudinaria. Intervista a Antonio Negri, in http://www.globalproject.info/art-17685.html.

16) A. Negri, Il pigro democratico. L’enciclopedico rabdomante del liberalismo, in “Il manifesto”, 24 aprile, 2009. Si tratta di una recensione, o forse di qualcosa di più simile ad “un’esecuzione” (come scrive l’autore stesso), all’ultimo libro di John Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, Milano, Feltrinelli, 2009.

17) Più problematica su questo punto è l’opinione di un osservatore attento come Danilo Zolo, cfr. I frutti avvelenati della guerra, in “Il manifesto”, 22 marzo 2009. Zolo ha ricostruito i lineamenti fondamentali del progetto imperiale statunitense in lavori come La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Laterza, Roma-Bari, 2006 e La profezia della guerra globale, in C. Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra, Laterza, Roma-Bari, 2008.

18) Sul tema cfr. anche R. Escobar, La libertà negli occhi, Bologna, Il Mulino, 2006.

19) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Firenze, Le Lettere, 2008, p. 273.

20) Lo ha sottolineato Simone Ghirelli recensendo il volume di Dinoi sul sito della rivista “Frame on line”, http://www.frameonline.it/ArtN045_Dinoi_Losguardoelevento.htm

21) Ibidem.

22) S. Daney, Cinema, televisione, informazione, Roma, Edizioni e/o, 1999, p. 142, cit., in M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., p. 22.

23) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., p. 22-23.

24) Ivi, p. 23.

25) Ibidem.

26) Ivi, p. 26.

27) G. Deleuze, Lettre à Serge Daney. Optimisme, pessimisme et voyage, in Pourparlers, Paris, Les éditions de minuit, 1990, p. 105.

28)  M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., p. 291.

29) Ivi, p. 295.

30) Ibidem.

31) Ivi, p. 296.

32) G. Deleuze, L’immagine tempo. Cinema 2, Milano, Ubulibri, 1993, p. 32.

33) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., p. 10.

34) Ivi, p. 9.

35) Ivi, p. 41.

36)M. Grande, Il cinema in profondità di campo, Roma, Bulzoni, 2003, pp. 70-71, cit., in Ivi, p. 42.

37) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., p. 42-43.

38) Ivi, p. 43.

39) È la tesi proposta da N. Mirzoeff in Guardare la guerra, Roma, Meltemi, 2004.

40) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., p. 45 e 53.

41) Sul fallimento del “Grande racconto del Terrore” neoconservatore e del “Grande racconto del Martirio” jihadista, cfr. G. Kepel, Oltre il terrore e il martirio, Roma-Bari, Laterza, 2009; Id., Fitna. Guerra nel cuore dell’Islam, Roma.Bari, Laterza, 2004 e G. Battiston, Dal tempo dei clerici alla “Twitter Generation”. Intervista a Gilles Kepel, in “Il manifesto”, 5 luglio 2009, p. 11.

42) S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Roma, Meltemi, p. 20, cit., in M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit. p. 49.

43) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., p. 53.

44) Ivi, p. 61-62.

45) P. Montani, Tre matrimoni (riparatori) e un funerale (annunciato), in “Bianco & nero”, 554-555, 2006, p. 87.

46) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., p. 146.

47) Ivi, p. 66.

48) Ivi, p. 67.

49) Ibidem.

50) Ivi, p. 70.

51) Ivi, p. 100.

52) Ivi, p. 103.

53) Ivi, p. 107.

54) Ivi, p. 109.

55) M. de Certau, Il film storico e i suoi problemi, in G. Miro Gori (a cura di), La storia al cinema, Roma, Bulzoni, 1994, p. 384, cit in Ivi, p. 112. Dinoi ricorda opportunamente questa posizione di Michel de Certau, secondo cui “la realtà vi parla” è il discorso con cui ogni discorso autoritario si rivolge allo spettatore (sia esso lettore, radioascoltatore, telespettatore, cybernauta o altro).

56) È nella produzione di un “linguaggio delle idee senza parole” che per Furio Jesi va rinvenuta la vera cifra di ogni cultura di destra. F. Jesi, Cultura di destra, Milano, Garzanti, 1993.

57) Sulla categoria di “cinema critico-espressivo”, cfr M. Pezzella, Estetica del cinema, Bologna, Il Mulino, 2001.

58) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., p. 114.

59) Ivi, p. 121.

60) Ivi, p. 124.

61) Ivi, p. 121.

62) Ivi, p. 124.

63) Ibidem.

64) Ivi, p. 126 e 124.

65) Ivi, p. 149-150.

66) M. Pezzella, Les oeuvres di Guy Debord, in “Liberazione”, 6 giugno 2006.

67) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., p. 154.

68) Ibidem.

69) R. Barthes, L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, p. 301, cit., in ivi, p. 247.

70) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., p. 248.

71) Ibidem.

72) R. Debray, Vita e morte dell’immagine, Milano, Il castoro, 2004, p. 190, cit in ivi, p. 250.

73) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., p. 256.

74) Per una corrosiva critica della democrazia rappresentativa intesa tanto come “intoccabile emblema” che domina il sistema simbolico  della società politica contemporanea, quanto come “astrazione monetaria”, supporto ideale dell’ “accumulazione del Capitale” e fattore di “organizzazione della pulsione di morte”,  cfr. A. Badiou, L’embleme démocratique, in AA. VV., Democrazie, dans quel état?, Paris, La Fabrique éditions, 2009.

75) L. Napoleoni, La morsa. Distratti da al Qaeda, derubati da Wall Street, Milano, Chiarelettere, 2009.

76) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., p. 257.

77) Ivi, p. 258.

78) L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. 39, cit., in ivi, p. 259.

79) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., p. 259.

80) Ivi, p. 260.

81) Ivi, p. 261.

82) Ibidem e p. 268.

83) Ivi, pp. 281-283.

84) Ivi, p. 286.

85) Ivi, pp. 288-289.

86) S. Daney, Lo sguardo ostinato, Milano, Il castoro, 1995, pp. 32-33, cit., in Ivi, pp. 288-289.

87) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., pp. 271 e 286.

88) Cfr. G. Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini & Castoldi, 2006.

89) J-L. Nancy, Abbas Kiarostami. L’evidenza del film, Roma, Donzelli, 2004, cit., in ivi, pp. 25-26.

90) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, cit., pp. 263-264.

91) Ibidem.

92) Ivi, p. 265. “Il «voler vedere tutto» è di per sé pornografico… Pornografico è lo sguardo senza soggetto, uno sguardo in cui non vi è relazione possibile con l’oggetto della visione, in cui il soggetto viene a essere completamente assorbito nella funzione e della performance dell’oggetto o in cui esso aderisce interamente alla superficie dell’immagine perché questa non mostra vuoti o luoghi in cui il soggetto possa mettersi in situazione” (Ivi, p. 266).

93) Ivi, p. 12.