philosophy and social criticism

La Divina Commedia del verme

Guido Almansi

«Vendo insulti» confessava Ambrose Bierce,[1] questo novello Aretino, in uno dei momenti non rari in cui il suo furore cinico si rivolgeva contro se stesso. Grande mattatore della scena giornalistica americana del periodo ancora oscuro dopo la guerra civile fino ai tempi gloriosi di William Randolph Hearst (di cui è stato uno dei polemisti di punta), Ambrose Bierce aveva una lingua velenosa, perciò divertente per il lettore, nei suoi rapporti con gli uomini, con le istituzioni e con le parole. Gli uomini, beh, sono tutti lestofanti infidi che nascondono la loro meschina ossessione per i piccoli problemi del loro «io» dietro un ricco scenario di intenzioni virtuose o grandiose. Le istituzioni, ecco, sono strumenti di oppressione che si occultano dietro la maschera ipocrita del bene pubblico, dell’ordine sociale e della morale civile (al servizio dei furbi). Le parole, ah, quelle poi, arroccate nel vocabolario, fonte screditata di ogni nefandezza, le parole fingono di essere strumenti di comunicazione mentre sono in realtà organi di mistificazione. Ogni nuova voce che si insinua in un già corrotto dizionario per arricchirne la fraudolenza purulenta aggiunge nuove ipotesi di inganno, di gabbo, di imbroglio alla nostra lingua mendace. L’uomo non è un animale culturale: è un animale culturalmente perverso che non ha sempre bisogno di mentire perché la lingua che lui adopera ha già mentito per lui. La parte innocente dell’uomo, invece di inventare nuove menzogne, si accontenta di quelle già esistenti nel vocabolario. Quindi, o è la parola stessa che mente, o è l’uomo che adopera la parola in maniera menzognera. Tutto è menzogna: non solo la letteratura, l’arte, la cultura, la religione, la legge, ma qualsivoglia pratica del discorso. Ogni volta che noi adoperiamo il linguaggio, noi accediamo al suo immenso archivio di prevaricazioni; consultiamo il suo ricco repertorio di manovre ingannevoli.

Il Devil’s Dictionary,[2] l’opera maggiore di Bierce, nasce, così, come opera lessicografica di una lingua della menzogna («Bianco = Nero»). La genesi di quest’opera si deve ritrovare nell’atmosfera dei columnists, i giornalisti militanti che parlavano al pubblico dei lettori da una loro colonna personale di giornale come espressione privata dei loro sentimenti e dei loro risentimenti; ma d’altra parte è subito evidente nell’estensione delle voci del dizionario biercíiano l’intenzione di scrivere contro la griglia del dizionario “vero” o “serio” Tra i tanti nomi che il Devil’s Dictionary, il Dizionario del Diavolo, ha assunto durante la quarantennale gestazione [3] – Comic Dictionary, The Idiot’s Unabriged Dictionary, The Demon’s Dictionary, The Cynic’s Word Book, The Cynic’s Dictionary, e così via – bisogna ricordare, sulla scorta di una testimonianza del 1881, Webster’s Improved Dictionary, cioè il Webster (il classico dizionario della lingua inglese versione americana) riveduto, corretto e migliorato. Il dizionario del Bierce non è, quindi, un’opera eccentrica, una stravaganza estranea ai circuiti della lessicografia. Sia pure nella sua veste satirica, sbarazzina, paradossale, cinica, anarchica e, perché no?, demoniaca, il Devil’s Dictionary si presenta come un lavoro di correzione – sia pure beffarda – al vero centro della lingua, là dove le parole si irrigidiscono n~ella codificazione. Ogni voce nasce, così, come una correzione, un distinguo, un emendamento, ovvero un rovesciamento, un’antifrasi, un capovolgimento paradossale.

Esiste, prima della voce bierciana, una zona di sospensione, di silenzio, di attesa, in cui il significato tradizionale, garantito dal beneplacito dizionariesco, deve penetrare nella mente del lettore. Si prendano le seguenti voci del dizionario del diavolo: «Adorare = Venerare aspettandosi qualcosa in cambio»; «Bardo = Persona che compone versi. La parola è uno dei tanti pseudonimi con cui il poeta cerca di nascondere la propria identità e sfuggire al »; «Follia = Quel dono e facoltà divina la cui creativa e sovrana energia ispira la mente dell’uomo, guida le sue azioni e adorna la sua vita»; «Ozio = Intervallo di lucidità nei disordini della vita». E ancora di più «Patriottismo = Combustibile di poco prezzo utilizzato da chiunque sia sufficientemente ambizioso da voler dar lustro al suo nome. Nel famoso dizionario del dottor Johnson, il patriottismo si definisce come l’ultimo rifugio di una canaglia; ma, con tutto il rispetto dovuto a un collega stimabilissimo (ancorché minore), mi permetto di fare osservare che si tratta invece del primo». Ogni definizione del Devil’s Dictionary vive una sua seconda esistenza contro l’impronta memoriale o editoriale del suo significato primario, acquisito dalla cultura ma non mai adeguatamente meditato. Il dizionario di Bierce è una continua sfida contro la nostra sicurezza di manipolatori, de-menti e s-cervellati, di un vocabolario; quindi, secondo Bierce, di un repertorio epistemologico basato sull’occultamento sistematico della verità. Le voci di Bierce dovrebbero, appunto, essere stampate in margine alle voci dello Webster o dell’Oxford come un aggiornamento o meglio un’ulteriore precisazione: per non farci dimenticare la fragilità gnoseologica, ideologica. e psicologica del nostro lessico. Ecco, il Devil’s Dictionary è un’operazione wittgensteiniana di messa in questione delle parole, fatta da un bestione trionfante, Ambrose Bierce, che ha scarsi titoli filosofici e si presenta sotto un aspetto brutale niente affatto ammantato di cultura e di sapere.

A prima superficiale lettura, si ha la tentazione di rintracciare dietro la ricerca lessicale (ché di ricerca lessicale si tratta: non solo di scherzi goliardici per una rubrica giornalistica) una linea speculativa che potrebbe risalire a La Rochefoucault e al suo rovesciamento integrale dei valori costituiti. Alcune massime del moralista francese, a partire dalla celebre epigrafe delle Maximes, “Le nostre virtù non sono… che vizi mascherati», e poi lungo l’arco del suo cinismo (per esempio, «Per quante scoperte si siano potute fare nel paese dell’amor proprio, restano ancora tante terre sconosciute»),[4] sembrano essere alla fonte di tutta l’apodittica bierciana che si cela dietro le forme vocabolariesche del suo Devil’s Dictionary. D’altronde è ben nota l’influenza di La Rochefoucault su tutti i grandi inventori di bon mots stravaganti ed eticamente sovversivi nella storia del pensiero occidentale (si pensi a Byron, che dello scrittore francese era ardente ammiratore; o a Gide; e forse persino a Oscar Wilde). Detto questo, però, ci si rende subito conto che stabilire una linea ispiratrice che va da La Rochefoucault a Ambrose Bierce è un’idea assurda e forse lievemente ridicola. Anche se gli schemi concettuali da cui spuntano le antifrasi bierciane non sono molto lontani da quelle del moralista francese, e nonostante l’occasionale eleganza di alcune formulazioni di Bierce che tendono alla stringatezza anche per ragioni di obbedienza alla formula letterario-giornalistica trascelta, a Bierce manca quasi tutto quello che costituisce la grandezza di La Rochefoucault. Questi sapeva accompagnare la nitida semplicità delle sue dichiarazioni più sconcertanti con una meravigliosa disinvoltura concettuale, alla maniera di un grande signore dell’intelletto e non solo del sangue che ha dato fondo a tutta l’aforistica del pensiero occidentale e si costruisce un patrimonio privato di massime proprio perché insoddisfatto del materiale democratico messo in vendita sul mercato librario.

«Il male che noi facciamo non ci attira mai tanto odio e ostilità quanto le nostre buone qualità»: in questa definizione La Rochefoucault sembra imitare Ambrose Bierce, ma la massima non potrebbe mal essere un Bierce genuino perché la voce è troppo calma, il tono troppo distaccato, assenti lo scandalo e l’indignazione morale. La Rochefoucault non sembra mai minacciato dalle sue scoperte nell’ambito dell’etica pubblica o privata: la sua posizione di grande aristocratico, la sua sicurezza di intellettuale gli danno un enorme vantaggio e gli garantiscono una parziale immunità dai mali che egli va scoprendo nello stesso territorio del lessico concettuale esplorato da Bierce.

Bierce, al contrario, scrive sull’orlo dell’abisso. La sua voce non è mai calma e compassata: è una voce irata e frenetica che protesta plebeamente contro questa colossale trappola per scimuniti che è il mondo della cultura, o il mondo tout court. Raccontano ai bambini, sin da piccoli, che bisogna seguire il senso morale, lo spirito civico, l’amore per il proprio paese. Ma dove si trovano queste cose? In quale anfratto della coscienza o dell’intelligenza si saranno mai rifugiate? Tutte frottole; lui non ci casca. Anche se il linguaggio che Bierce adotta per le sue definizioni è dignitosamente e letterariamente corretto, la materia prima di cui è fatta la sua “filosofia linguistica» è demotica. Nei suoi momenti migliori, Bierce è un plebeo che è arrivato, miracolosamente, alla concisione stilistica e all’eleganza concettuale di un aristocratico della penna; ma non riesce mai ad assumere questo stato di grazia per più di una voce del suo dizionario. E gli manca la suprema virtù aristocratica: la sprezzatura. Forse per questo Bierce ci è così vicino. La Rochefoucault non lo è affatto. Lo ammiriamo ma lo sentiamo sempre distante anche perché è così arduo interpretare alcune parole privilegiate del suo lessico alle quali abbiamo un accesso esclusivamente libresco al di fuori dei circuiti dell’esperienza. Si prendano parole come “finesse”, “esprit”, “humeur”, “passion”, “modération”, “orgueil”: sappiamo cosa significano oggigiorno, e con buona volontà possiamo anche cercare di capire che cosa significavano allora e lassù, nel pozzo del passato e nella stratosfera del linguaggio aristocratico; ma queste accezioni non ci saranno mai familiari. lo posso intuire pressappoco che cosa intenda La Rochefoucault quando dice: “Tutti coloro che conoscono il loro spirito non conoscono il loro cuore”; ma rimango sempre in uno stato di incertezza perché quel particolare uso di spirito/esprit mi è estraneo, e pur conoscendo le regole dei cambiamenti semantici subiti dalla parola cuore/cœur nel corso della sua storia più recente, temo sempre di confondermi e di leggere il cuore/cœur di La Rochefoucault come se fosse il cuore/cœur dei romantici. Non così Bierce, che sentiamo linguisticamente come uno spirito germano e sodale nei nostri momenti di sconforto e di cinismo: «Silice = Sostanza molto usata nella costruzione dei cuori umani». Ecco, qui non c’è rischio di sbagliare: siamo in territorio familiare e perciò confortevole nonostante la ferocia del giudizio.
Esiste, sia pure in forma rudimentale, un’antropologia bierciana basata sulla fede in una legge di brutale semplicità: l’uomo conosce solo l’interesse personale, e tutte le sue azioni sono dominate da questa passione esclusiva. L’io diventa, perciò, la misura di tutte le cose, la pietra di paragone con la quale si confronta il resto del creato. L’aberrazione, è sempre altrui: ogni deviazione dalle nostre abitudini mentali; l’ammirazione è il riconoscimento che qualcun altro ci somiglia; il cristiano è colui che crede che il Nuovo Testamento serva alle esigenze spirituali del suo prossimo; l’egocentrico è un uomo volgare più interessato a se stesso che a me; l’egoista è persona insensibile all’egoismo altrui; e via che vai. Il mondo diventa una colossale bottega da droghiere, con un proprietario sconsideratamente avaro e meschino in cui la doppia colonna del dare e dell’avere è tenuta nel modo più pusillo, al modo appunto di un bottegaio che risparmia sui sacchetti di plastica, specula sulle dieci lire di resto e sottopone ogni contrattazione alle esigenze di un guadagno sia pur minimo. L’adorazione: indica che ci aspettiamo qualcosa in cambio; il dovere: è ciò che ci spinge verso il profitto; implacabile: è colui che non può essere placato che dal denaro; e così via. Non è un mondo che dia molte soddisfazioni perché tutti sembrano ossessivamente preoccupati dal piccolo cabotaggio dell’interesse più meschino. Ciò che non è, o non sembra, meschino, come per esempio la cultura, è in verità una meschinità addobbata a festa (ma anche Freud in quegli anni arrivava e conclusioni abbastanza prossime). L’aforisma è una saggezza predigerita; l’erudizione è polvere versata in un cranio vuoto; il dizionario è uno stratagemma per arrestare lo sviluppo della lingua; e ci cono solo due strumenti più esiziali di un clarinetto: due clarinetti. Non si sfugge al circolo vizioso dello scetticismo.

Bierce ha, poi, il dono di non saper mai dove dovrebbe fermarsi. L’oltranza in lui, però, non è ribellismo anarchico, o romantico, o rivoluzionario, o apocalittico. Più spesso, è il desiderio di sfruttare fino in fondo l’occasione fornitagli dalle circostanze, dal giro di frase, dal ritmo della battuta, come un negoziante che cerca di alzare al massimo il prezzo della sua merce per lo sprovveduto turista: anche lo stile di Bierce è soggetto alla struttura della meschinità che sta alla base del suo pensiero. In questo senso il Devil’s Dictionary è un testo esemplare perché rappresenta un modello di antropologia qualunquista. Approfittando della omonimia tra il verbo «to lie» = «mentire», e il verbo «to lie» = «giacere», lo scrittore, imperturbabile, così compone l’epitaffio funebre del direttore del suo giornale che Bierce aveva accusato di non aver tenuto fede a una promessa di matrimonio: «Here lies Frank Pixley, as usual», cioè «Qui giace/mente Frank Fixley, come sempre». La fonte del double-entendre è shakespeariana (nella scena fra Amleto e il becchino), ma lo stile è bierciano della più bell’acqua. Si può andare oltre nel cattivo gusto? Maramaldo, che uccideva un uomo morto, era un paladino dei Graal al confronto. Il Devil’s Dictionary è, a volte, un libro eccitante perché ci porta in zone proibite che non sono spesso frequentate dagli uomini. Questi, poverini, nonostante la loro nequizia, hanno ancora aree di pudore, residui di decenza che gli impediscono di sputare sul morto recente. Ma Bierce, come la madre di Amleto, non lascia che le carni servite al banchetto funebre si raffreddino. Il dizionario di Bierce è una meraviglia di spudoratezza, un miracolo di cattivo gusto, un capolavoro di indecenza. Se l’uomo è un verme, il Devil’s Dictionary è la sua Divina Commedia.

Sto esagerando, naturalmente: cioè, sto scrivendo come se fosse Bierce stesso a scrivere un commento su Bierce. Non bisogna confondere l’antropologia del droghiere con l’antropologia del diavolo, nonostante il titolo del dizionario. La frase più cinica che sia mai stata detta è forse quella di Ponzio Pilato. Gesù Cristo gli dice: «Io sono la verità e la vita», e Pilato gli risponde: -«Quid est veritas?», «Che cos’è la verità?» Ma Bierce è lontano da questo estremismo scettico perché sa solo giocare con il «contrario», non con il «contraddittorio». Aristotele distingueva due forme di opposizione: il contrario, «bianco/nero»; il contraddittorio, «bianco/non bianco». Pilato sfiora il territorio misterioso di ciò che è contraddittorio; Bierce si accontenta di quello più familiare di ciò che è contrario (infatti una delle sue definizioni, come abbiamo già ricordato, è appunto: «Bianco = Nero»). In altre parole, Bierce si accontenta di sostituire le voci con il loro contrario: il bianco è nero; la virtù è un vizio; l’altruismo è egoismo, l’umiltà è orgoglio; la sapienza è ignoranza; il coraggio è vigliaccheria ecc. Alla fine del giro la situazione è immutata. Spetta ad altri, e ben più pericolosi giocatori, affrontare il mostro della contraddittorietà.

Ma c’è un punto a suo favore. Nella sua sfida ai valori costitutivi della cultura come li si trovano nei dizionari esistenti, Bierce è costretto a prendere delle posizioni avanzate nella zona del relativismo culturale. Bierce attacca allegramente sia le illusioni pregiudiziali dell’individuo singolo sia quelle della nazione circa i propri privilegi. Alcune definizioni bierciane si burlano con disinvoltura di ogni posizione cristiano-centrica, o americo-centrica, del mondo. Maometto è l’ente superiore dei Maomettani, da non confondere con altri separati enti supremi; il corsaro è uno statista dei mari; se radersi la barba è normale, che dire dell’uso cinese di radersi il cranio? Ma si prenda la voce, ironica, che riassume garbatamente l’universalismo di Bierce: «Scrittura = I testi sacri della nostra santa religione, da non confondere con quelli falsi e profani su cui si basano le altre fedi». Nella brutalità dell’ideologia bierciana possiamo almeno trovare una zona di soddisfazione morale e intellettuale nell’ecumenismo della bassezza e dell’egoismo.
Il Devil’s Dictionary resiste, senza eccessiva fatica, all’ingiuria del tempo a forza di stile: una gran parte delle voci sono secche, concise, non prive di eleganza nonostante la pesantezza plebea delle idee. In quelle più riuscite Bierce riesce a controllare la sua esuberanza e ad eliminare il superfluo. Ne citerò alcune per dimostrare sin dove sa arrivare Bierce quando il suo amore per lo stile non è soffocato dal suo odio per le parole: «Diserzione = Avversione per il combattimento che si dimostra abbandonando l’esercito e la moglie»; «Idropisia = Malattia che rende le prospettive di vita del paziente una specie di battaglia navale»; l’architetto è persona che disegna un progetto della vostra casa e progetta disegni sul vostro denaro; «Pomo d’Adamo = Protuberanza del collo maschile provvidenzialmente fornita dalla natura per tenere il cappio al posto giusto»; «Principe = Un giovin signore che offre il suo amore alle contadine nelle storie romantiche e alle mogli dei suoi amici nella vita.» Qui ciò che conta non è l’idea ma l’armonia e la simmetria della formulazione. Si potrà in alcuni casi non essere d’accordo con le voci, o rifiutarne la brutalità e il cinismo, ma non si può negare loro il dono della stringatezza.
Su altre, invece, il guaio è che si è fin troppo d’accordo. Nonostante l’apparente stravaganza, la loro verità logica e psico-logica finisce per essere tale che non vale nemmeno la pena di ripeterla. Questo è il prezzo che Oscar Wilde ha dovuto pagare con il suo maledetto vizio di dire la verità, secondo la paradossale conclusione di Borges nel suo saggio sull’ironia wildiana. Wilde credeva anche lui di star scrivendo un suo dizionario del diavolo che sovvertiva l’ordine dei valori, e, invece, a distanza di meno di un secolo, persino le vecchie zie che abitano in campagna sono d’accordo con i suoi paradossi. Lo stesso sta avvenendo per certe definizioni di Bierce, ormai così vere che sono diventate banali. Che l’inumanità sia una delle qualità caratteristiche dell’uomo; che la longevità sia un’estensione smodata della pauda della morte; che la preghiera sia «pretendere che le leggi dell’universo vengano annullate a favore di un singolo postulante, il quale se ne confessa del tutto indegno» (una delle voci più belle): ecco, ormai queste formule, un tempo suggerite dal diavolo, possono entrare a far parte di qualsiasi catechismo moderno. I grandi libri sono sempre fatti di idee banali, come suggeriva Flaubert. Là dove Bierce cerca di essere originale a tutti i costi, i suoi contributi ideologici mi sembrano più caduchi (anche se i suoi contributi stilistici rimangono interessanti). £ semmai al livello della banalità del male, della sua monotona meschinità, che il Devil’s Dictionary mantiene la vivacità nei suoi contenuti. Da un punto di vista edonistico, poi, il libro è quasi sempre piacevole nel descrivere la spiacevolezza della vita, felice nell’esaltare l’infelicità, divertente nel denunciare la monotonia del creato. Insomma, un libro di amena lettura, come tutti i libri carogneschi.

Nel complesso, poi, queste definizioni sono «comiche»: cioè suscitano il riso conquistando la nostra simpatia di lettori. Ma cos’è questo riso se non la coscienza inquieta (imbarazzata) di un ulteriore livello di verità? Noi accettiamo dai dizionari dell’angelo un primo livello di verità; accediamo ad un secondo livello attraverso il dizionario del diavolo, e così facendo ridiamo. Il comico sarebbe, quindi, la verità nascosta, un’illuminazione che ci disturba e dalla quale ci allontaniamo con un minuto trucco strategico: il piccolo orgasmo del riso con il quale evitiamo di prendere responsabilità diretta dell’enunciato. Esisterebbe, forse, oltre a una storia della filosofia, così come la conosciamo attraverso il pensiero dei grandi pensatori, una storia ulteriore scritta dai grandi scrittori comici?

A molti è venuto il sospetto che la vera storia del pensiero rinascimentale dovrebbe essere ricostruita attraverso Ariosto, Rabelais, Cervantes e Shakespeare, quattro grandissimi scrittori comici. Pure non ci verrebbe mai in mente di affrontare il problema del pensiero contemporaneo attraverso un’analisi della comicità novecentesca. Il sospetto, comunque, permane: il comico è più vero, più feroce, più severo, più incalzante, più provocante, più serio del serio, e seriamente (ma non seriosamente) deve essere trattato. Bisognerebbe avere un atteggiamento comico nel discutere il serio e un atteggiamento serio nel discutere il comico.

[Tratto da G. A., La ragion comica, Feltrinelli, Milano 1986]

Note

[1] Ambrose Bierce, nato nel 1842, è morto, probabilmente, nel 1914 o dopo, in Messico, dove era andato per aggregarsi alle truppe rivoluzionarie Pancho Villa (dopo la sua partenza non si è saputo più nulla di lui). Fu giornalista di punta e di piatto durante una lunga e tumultuosa carriera sia costa orientale che in quella occidentale degli Stati Uniti, e scrittore di racconti in cui si esercita il suo gusto per il macabro. La sua opera più è il Devil’s Dictionary, una raccolta di definizioni vocabolariesche che tendono l’aforisma.
[2] Le prime tracce del Devil’s Dictionary non risalgono al 1881, come stesso aveva affermato nell’edizione delle sue opere complete apparsa nel 1907, ma sulle colonne dei giornali di San Francisco già nel 1865. Edizione italiana: Dizionario del diavolo, cura di Guido Almansi. Traduzione di Daniela Fink, Longanesi, Milano, 1985.
[3] Per i problemi editoriali del Devil’s Dictionary, si vedano la prefazioni di John Myers Myers e l’introduzione di Ernest Jerome Hopkins a Ambrose Bierce, The Enlarged Devil’s Dictionary, 1967; edizione consultata: Penguin, Harmondsworth, 1983.
[4] Tutte le traduzioni, tranne quelle del Devil’s Dictionary tratte dalla traduzione di Daniela Fink, sono mie.