La doppia pena del migrante
Alessandro Dal Lago
Prendiamo una famiglia di profughi siriani. Marito moglie e due figli piccoli. Dopo la fuga da una città in fiamme, tra milizie e bande di ogni tipo, su strade sconnesse e insicure, riescono a passare in Turchia. Da qui, dopo essere stati detenuti in qualche campo, sbarcano in un’isola greca, rischiando di morire nell’Egeo. Traversata la Grecia, entrano in Macedonia e, attraversando frontiere a piedi, nella neve, in Serbia. Evitata l’ospitale Ungheria (il paese del muro, delle botte ai profughi e delle giornaliste che sgambettano i bambini), attraversano Serbia e Slovenia
Infine, forse, entrano in Austria, da dove sono spediti in Germania, cioè in Baviera. E quale è la prima mossa dei bavaresi, costretti a farli entrare da Angela Merkel? Sequestrare beni e contanti superiori a 750 Euro, «per finanziare la loro accoglienza».
Prima di maledire il governo bavarese, è utile qualche considerazione microeconomica, anzi di economia domestica. Per un viaggio del genere, una famiglia tipo, in cui lavora solo il capofamiglia, di quanto denaro avrà potuto disporre, in dollari?
Tenendo conto che il reddito pro capite in Siria non arriva a 2000 dollari (nel 2007, prima della guerra), meno di un ventesimo di quello tedesco o austriaco, è difficile immaginare più di un migliaio o due, cucito nelle fodere, ma solo se stiamo parlando di professionisti o commercianti. Il resto, se ce l’avevano, se ne sarà andato, sicuramente, a ungere miliziani e doganieri, non solo in Turchia, e a comprarsi da mangiare. E poi, ci saranno anche qualche gioiello di famiglia, un orologio, un cellulare e magari un tablet.
Sequestrare a questa gente i valori oltre 750 Euro è una cosa schifosa. La Danimarca ha fatto scuola. Ma non è solo schifosa, è insensata. Se si sfogliano i quotidiani economici europei si troveranno spesso, ma solo nelle pagine interne, analisi sulla necessità dei migranti per un continente che non cresce e la cui popolazione invecchia. In altri termini, il welfare europeo – o meglio i conti pubblici europei – hanno bisogno di gente che sostenga la domanda e paghi le tasse.
È il punto di vista dell’economia di mercato, fatto proprio da Merkel, a cui interessano fino a un certo punto le giaculatorie identitarie. Nulla di filantropico, per carità. Si parla della stessa tecnopolitica transnazionale che non ha voluto far fallire la Grecia, ma solo per comprarle a poco prezzo gli asset, insomma per succhiarle un po’ di sangue.
Torniamo alla famiglia siriana. Perché imporre il balzello d’ingresso, se poi, trovato un lavoro, anche misero, il capofamiglia e la moglie (lui facendo il lavapiatti, anche se in Siria magari era un dentista, e lei riparando giacche) cominceranno a finanziare il welfare bavarese? La risposta è in un concetto del sociologo algerino Sayad, «la doppia pena del migrante».
Loro non sono come noi e, se vogliono vivere tra noi, devono pagare pegno. Non solo stranieri, ma anche tenuti sotto il tallone. E di che pegno si tratta? I danesi, che hanno introdotto il sequestro d’ingresso, lo hanno detto chiaramente. Sappiamo che è una misura priva di qualsiasi significato economico, ma così li scoraggiamo. Tra l’altro, la Danimarca partecipa attivamente ai bombardamenti della Siria – cioè prima dice di bombardare l’Isis per sconfiggere il fondamentalismo e poi impone i balzelli a chi scappa dall’Isis. Un miracolo di logica.
D’altronde, nella vicenda dei profughi non c’è alcuna logica, tanto meno europea. Ogni stato, in base alla sua specifica xenofobia o paura del populismo, erige i suoi muri, chiude le sue frontiere, impone i suoi balzelli. Non esiste uno straccio di politica comune delle migrazioni, né di autorità capace di realizzarla, come mostra la vicenda dei ricollocamentii dei migranti approdati in Italia e Grecia. Una politica unitaria non esiste, perché l’Europa è solo un’espressione finanziaria, per citare un famigerato motto di Metternich sull’Italia.
Così, innalzare le barriere interne, come stanno facendo stati xenofobi o paranoici, significa compromettere quel po’ di libertà, di cosmopolitismo infra-europeo facilitato dalla libera circolazione delle merci.
Molti osservatori preconizzano che, con la crisi di Schengen, inizia la probabile agonia della Ue. Ma la fine o il declino di questo continente incombe da anni, da quando si è dichiarato incapace di dare una speranza di vita a chi, oltretutto, potrebbe aiutarlo a crescere.