La giungla di Rosa
M. D.
Rodrigo Rey Rosa, Giungla di pietra, trad. di Sara della Corte, Cargo, Napoli 2006, pp. 83-84; ed. or. Piedras encantadas, 2001
Parassiti fastidiosi e al tempo stesso necessari. Così appaiono i giornalisti a Joaquín, uno dei ben poco nobili protagonisti di Giungla di pietra, romanzo breve del guatemalteco Rodrigo Rey Rosa. In Guatemala più che altrove, osserva lo scrittore, «nulla è come appare». Ecco, allora, che un quotidiano asservito ai più infami intrighi di potere può fregiarsi del titolo “L’Indipendente” e il viale che nella capitale ricorda la «crudele riforma» che aveva abolito il diritto degli indigeni allo sfruttamento delle loro terre, per trasformarle in immense piantagioni di caffè in mano a pochi e spregiudicati latifondisti, finisce per prendere il nome tragicomico di Paseo de La Reforma. Raramente si era vista una riforma che, in nome della democrazia e del progresso, accorpasse, anziché dividere appezzamenti di terra. E all’opinione illuminata del Paese poco importa, in fondo, che quel viale sia stato pavimentato dagli stessi indios a cui le terre furono usurpate o che Jorge Raúl Medroso, direttore, redattore capo, proprietario e presidente del consiglio di amministrazione del principale giornale cittadino, pur non scrivendo mai un pezzo degno di nota, possa vantarsi di essere «il portiere della gloria e dell’infamia nazionali, colui che poteva lanciare, oppure affossare, scrittori, imprenditori e politici».
In questa giungla urbana percorsa da enormi fuoristrada, addobbata con le insegne di negozi alla moda, popolata da spioni di ogni risma o da imprenditori dai nomi vagamente italiani che girano con guardaspalle e giubbotti antiproiettile, il cemento armato ha preso il posto della vecchia, quasi magica pietra di ossidiana. Una pietra usata dai maya come «simbolo di durezza» in un mondo che non conosceva esistenza e uso del metallo, mentre cemento e asfalto con cui gli imprenditori edificano le loro nuove cattedrali diventa il segno tangibile di una ricchezza fin troppo fragile, per quanto ostentata. Le ultime «pietre magiche» del Guatemala – osserva Rey Rosa, come suo solito critico e disincantato al tempo stesso – sono ormai quelle sotto la cui forma viene contrabbandato il crack o le altre, non meno cruente, che danno il nome alla più temuta banda di giovani criminali. Piedras encantadas, il nome di una gang di ragazzi di strada, è anche il titolo originale del libro, pubblicato nel 2001, sette anni dopo Quel che sognò Sébastian, uno dei pochi titoli di Rey Rosa disponibili in versione italiana. Scrittore atipico se confrontato ai suoi coetanei centro e sudamericani, classe 1958, sia nella costruzione della trama, sia nella particolare predilezione per i dialoghi, Rey Rosa appare largamente influenzato più da una letteratura di matrice angloamericana, che dal realismo magico o da stilemi neobarocchi. Innegabile, d’altronde, anche sul piano biografico il debito contratto nei confronti di Paul Bowles che è stato fra i suoi più appassionati traduttori e nel suo diario traccia un profilo entusiasta di «questo giovane misterioso e taciturno», amante dei viaggi e attento lettore di Wittgenstein.
Se nella storia di Sébastian si raccontavano fuga, illusioni e disincanto di un uomo fuggito nella foresta e ben presto travolto dagli eventi, dopo essere stato testimone involontario di un delitto, in quest’ultimo lavoro è il contesto urbano, la «foresta di pietra», a fare da scenario a un altro fatto di cronaca nera, grazie al quale affiorano una serie indefinita di rapporti malati, di compromessi loschi e di affari inconfessabili nascosti nel fondo di coscienze mai troppo limpide o pulite. Così, fra soldi, alcool, tratta di armi e ragazzini col Belgio, la bellezza del Guatemala si spegne, diventa fredda e sterile, come la pietra che, nel finale del libro, Rey Rosa posa sul ventre di Joaquín, insinuando il dubbio che forse non ci sia più vita, in questo paese. «Guatemala, America Centrale. Bellissimo paese, bruttissima gente. Piccola repubblica dove la pena di morte non è mai stata abolita, dove il linciaggio è stato per anni l’unica manifestazione duratura di organizzazione sociale». Meglio fuggire, si lascia scappare di bocca Joaquín, prima di addormentarsi con una pietra sul cuore.
[da il manifesto, 17 dicembre 2006]