philosophy and social criticism

La legge del comune

Ugo Mattei

Un aspetto problematico per chi considera Internet il paradigma del bene comune globale è dovuto al fatto che per suo tramite si è affermata ancor più profondamente l’egemonia del modello americano. Questa egemonia non preoccupa come problema di lingua. Sebbene l’inglese domini Internet, il pluralismo linguistico della Rete è oggi sotto gli occhi di tutti. Né preoccupa come problema culturale, derivante dall’individualismo e dalla competitività estrema che caratterizzano da sempre l’ideologia statunitense, collocandola tradizionalmente come antagonista di tutto quanto sia comune (la radice di communism e commons sono le stesse). Il vero problema di questa pratica egemonica sta nella governance di Internet che si presenta come profondamente antitetica rispetto a quel modello dell’«accesso» che dovrebbe caratterizzare il governo dei beni comuni.

Nonostante queste cautele non possiamo esimerci, nel percorrere i primi passi di un cammino volto all’elaborazione di strutture giuridiche nuove per il governo dei beni comuni, dall’affrontare i paralleli fra il mondo della Rete, che potremmo descrivere come una «nuovo mondo» virtuale, «scoperto» quasi esattamente mezzo millennio dopo la «scoperta» dell’ America. Profondi furono gli sconvolgimenti prodotti dai viaggi di Colombo, fino al punto che le immense possibilità di saccheggio che ne derivarono produssero l’accumulaziuone originaria e la nascita della modernità. Oggi è proprio internet a presentarsi come il fattore scatenante della trasformazione cognitiva del capitalismo globale, sicché forte è la tentazione di osservare un ricorso storico.

Fuorvianti analogie

Occorre però cautela nel tracciare affascinanti paragoni. La questione della traducibilità istituzionale dal mondo del materiale tangibile a quello dell’immateriale (e viceversa) non è infatti banale. Per risolverla i giuristi hanno dato vita ad un ambito disciplinare problematico autonomo, noto come diritto della proprietà intellettuale (talvolta come diritto industriale) frequentato da cultori diversi da coloro che si confrontano con i problemi della proprietà tangibile, in particolare di quella fondiaria. In effetti, al di là dei suggestivi paralleli teorici, per cui tanto la proprietà privata delle idee quanto quella di un terreno sarebbero caratterizzate dagli stessi aspetti di «esclusione» di chi non sia autorizzato dal titolare rispettivamente ad accedervi o a farne uso, le analogie sembrano fermarsi ad un livello di astrazione inadatto alla pratica del diritto.

Sebbene anche in ambito fondiario il processo di mercificazione abbia ottenuto i suoi effetti, la terrà resta una risorsa strutturalmente limitata, non riproducibile e tendenzialmente unica. Questo aspetto fondamentale non è vero per i marchi, brevetti o diritti d’autore, i tre ambiti che rientrano nella nozione di proprietà intellettuale. Di fronte a risorse che in natura non sono limitate (e anche nel caso di quelle che, come l’acqua, si riproducono ciclicamente) il diritto di proprietà privata svolge la funzione di renderle artificialmente scarse (a fine di trarne profitto). Per quelle che sono viceversa limitate e già scarse la proprietà privata, regolandone l’accesso, potrebbe tutt’al più limitarne il consumo, almeno stando all’insegnamento (assai poco convincente) della tragedia dei comuni.

Non solo. Se è vero che occorrono sempre recinzioni per far nascere un mercato, quelle necessarie per l’informazione e la conoscenza (risorse strutturalmente illimitate) devono essere particolarmente pervasive. Infatti, il potenziale acquirente di un’informazione difficilmente potrà sapere il valore che essa avrà per lui senza prima conoscerla. Ovviamene il potenziale venditore non sarà disposto a far conoscere l’informazione prima di venderla, perché questo equivarrebbe a regalarla. Di qui i problemi particolarissimi che sorgono nell’utilizzare la logica della proprietà privata in materia di informazione e la particolare virulenza che i grandi latifondisti intellettuali (case discografiche e editrici, big pharma, proprietari dei grandi logo) utilizzano per difendere i propri recinti. Questi problemi in realtà derivano dal fatto che informazioni e conoscenza crescono quantitativamente e qualitativamente con la condivisione (perché hanno natura di beni comuni relazionali) ma la condivisione non genera profitti (basta considerare Wikipedia che è sul lastrico). Proprio in materia di proprietà intellettuale si riproduce così, non a caso in modo particolarmente visibile nella presente fase del capitalismo cognitivo, quel legame indissolubile fra proprietà privata e apparati repressivi dello Stato (e oggi anche della globalizzazione si pensi agli accordi Trips dell’Organizzazione mondiale del commercio) che sempre si accompagna alle enclosures.

Ideologia della repressione

Queste osservazioni, che balzano agli occhi sol che si guardino le cose ponendo al centro la loro natura fenomenologica (terra, conoscenza) e non il loro regime giuridico (proprietà privata, brevetto), sono offuscate dagli ingenti investimenti che i grandi latifondisti intellettuali compiono nella costruzione di apparati ideologici loro favorevoli. Poiché in una società che condivide e mette in comune le proprie conoscenze, riconoscendo che queste sono sempre il prodotto di un determinato contesto sociale, copiare è un comportamento del tutto naturale. Per scoraggiare questi comportamenti sono necessari apparati repressivi che utilizzino anche l’ideologia come strumento di inibizione. Apparati che puntano a distruggere il comune a favore del privato. Così, nelle Università degli Stati Uniti i compiti scolastici vengono valutati comparativamente su una «curva» in cui soltanto alcuni possono ricevere un voto alto, creando un meccanismo di mors tua vita mea che distrugge la cooperazione attraverso la competizione: se faccio copiare l’amico danneggio me stesso. Similmente le maestre cercano di convincere le bambine più secchione che «non è giusto» aiutare i maschietti meno bravi incentivando in loro comportamenti da mostriciattoli egoisti (con la conseguenza che poi, escludendo, restano escluse).

Allo stesso modo i molti cultori-cantori della proprietà intellettuale, raccolti presso dipartimenti riccamente finanziati dalle corporation latifondiste intellettuali, diranno che la proprietà intellettuale «stimola l’innovazione e la creatività», utilizzando esattamente la stessa retorica che i fisiocrati (XVIII secolo) usavano nel celebrare le recinzioni, ossia che senza proprietà privata non c’è incentivo alla coltivazione e al lavoro.

Non è questa la sede per soffermarsi sulla discutibilità storica di quelle affermazioni di fronte all’uso comune della terra. Bisogna invece qui enfatizzare il risultato completamente controfattuale di queste affermazioni nel caso di risorse come la conoscenza che non sono scarse ma hanno viceversa natura collettiva e relazionale. Privatizzare l’informazione ne limita di fatto la diffusione, e limitarne la diffusione non può che rendere più difficile l’ulteriore innovazione.

Dovrebbe dunque essere evidente che il governo più coerente alla fenomenologia dei beni comuni si deve fondare su istituzioni capaci di coinvolgere coloro che sono disinteressati all’accumulo di proprietà privata e di potere politico ma che invece sono gratificati proprio dalla cura del comune. Istituzioni cooperative, fondazioni, associazioni, consorzi fra enti locali, comitati, insomma gruppi che pongano in essere autentiche dinamiche democratiche più o meno informali e conflittuali prive di fine di lucro costituiscono gli assetti istituzionali più adatti a governare i beni comuni. In simili ambiti la creatività fiorisce nella condivisione dei problemi sociali e non si trasforma in un mero esercizio narcisistico dell’individuo.

Individualisti e narcisisti

Tutto ciò colloca Internet, il grande common globale che tanti indicano come il modello per la gestione dei beni comuni, in una luce ai miei occhi tetra. La Rete, lungi dall’unire, in realtà mi pare divida, individualizzi ed illuda, sollecitando falsa comunità e vero narcisismo. Oggi ci si mandano mail da un ufficio all’altro e la comunicazione scade e si impoverisce. I caffè dei campus americani sono affollati di studenti, ognuno sul proprio computer, che non si guardano e non si parlano, ma che sono collegati via Facebook magari con qualcuno dall’altra parte del mondo o in un caffè poco lontano.

La politica è tuttavia «fisicità» se vuole avere qualsiasi chance di emancipazione. E i beni comuni si possono difendere e governare davvero soltanto con la fisicità di un movimento sociale disposto a battersi lungamente e generosamente per riprendere i propri spazi. Non sarà mai un solo giorno di piazza convocato via Facebook a fermare una guerra, a cacciare un tiranno o a scongiurare un saccheggio di beni comuni.

[da il manifesto, 7 maggio 2011]

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