philosophy and social criticism

La merce pregiata dell’immaginario

di Mario Pezzella

Dopo aver curato Una rivo­lu­zione dall’alto (Mime­sis, Milano 2012), un libro sulle nuove forme di domi­nio nell’epoca della crisi finan­zia­ria, in que­sto suo nuovo lavoro Ales­san­dro Simon­cini ana­lizza il modo in cui il capi­tale è giunto a «cat­tu­rare l’intelligenza col­let­tiva», bloc­cando le sue poten­zia­lità libe­ra­to­rie .

Alessandro Simoncini, Gover­nare lo sguardo. Potere, arte, cinema tra primo Novecento e ultimo capi­ta­li­smo, Aracne, Roma 2013

Non solo i corpi e la mente, anche l’anima e l’immaginario sono stati messi al lavoro a par­tire dagli anni Ottanta del Nove­cento. Il capi­tale rie­la­bora e deforma pro­prio quelle forme visuali e arti­sti­che che con più fer­vore – nel corso del secolo pas­sato — ave­vano ten­tato di opporre al potere il desi­de­rio e il sogno del pos­si­bile.

La rifles­sione di Simon­cini parte dalle avan­guar­die sto­ri­che: le rivo­lu­zioni del visi­bile ope­rate dal cubi­smo, dal futu­ri­smo e dal sur­rea­li­smo, sono state ambi­gua­mente recu­pe­rate dalla pub­bli­cità e dal cinema spet­ta­co­lare.

Potremmo par­lare di una rivo­lu­zione pas­siva o di un vero e pro­prio détour­ne­ment (Guy Debord), che la fan­ta­sma­go­ria delle merci impone al loro carat­tere ori­gi­na­ria­mente sovversivo.

I sur­rea­li­sti cita­vano e defor­ma­vano oggetti di con­sumo all’interno delle loro opere per spiaz­zare e sma­sche­rare il loro feti­ci­smo fasci­na­to­rio. È poi avve­nuto un feno­meno inverso: la pub­bli­cità ha uti­liz­zato a sua volta le inven­zioni oni­ri­che del sur­rea­li­smo, per resti­tuire aura e potere di attra­zione alle merci.

Men­tre l’arte, da parte sua, diviene sem­pre più un puro valore di scam­bio tesau­riz­za­bile, le visioni dirom­penti dell’avanguardia ven­gono devi­ta­liz­zate e rein­cor­po­rate come deco­ra­zioni del mondo delle merci.

«Pro­durre la forma-merce e costruire mate­rial­mente la sog­get­ti­vità imma­gi­na­ria del con­su­ma­tore saranno i due com­piti prin­ci­pali che la macchina-capitale dovrà assol­vere simultaneamente».

Le avan­guar­die sto­ri­che crea­vano vuoti e inquie­tanti plu­ra­lità, inter­ro­ga­vano il visi­bile, ele­vando a potenza le sue ombre, il suo pos­si­bile, il suo «fuori campo»; la riap­pro­pria­zione mer­ci­fi­cata dell’immagine can­cella ogni ambi­va­lenza, crea un «tutto tra­spa­rente» da cui ogni con­flitto e ogni inde­ter­mi­na­zione sono scom­parsi.

Ciò che è visi­bile è ine­sau­ri­bil­mente asse­rito come unico esi­stente, in una lumi­no­sità con­ti­nua e asso­luta, in una posi­ti­vità che non ammette obie­zione. Ogni faglia, ogni discon­ti­nuità, ogni fini­tezza della vita, sono abba­gliati dall’«occhio vitreo» del capi­tale. È uno sguardo let­te­ral­mente pornografico.

Da que­sta uni­la­te­rale messa a fuoco del visi­bile viene escluso il desi­de­rio del pos­si­bile e dell’altro. Il cinema spet­ta­co­lare svolge un ruolo impor­tante in que­sta recin­zione del poter essere.

Come la pub­bli­cità, anch’esso riprende e mor­ti­fica il lin­guag­gio delle avanguar­die: lo choc, che ori­gi­na­ria­mente doveva disto­gliere lo spet­ta­tore dalla sua ade­sione all’ordine costi­tuito, si riduce a effetto spe­ciale che lo riat­trae stu­pe­fatto nel mondo dello spet­ta­colo.

La pre­vi­sione di Wal­ter Ben­ja­min sulla scom­parsa dell’aura non si è rea­liz­zata: pub­bli­cità e cinema della società dello spet­ta­colo ripro­pon­gono una pseu­doaura, un «valore fan­ta­sma­tico», che illu­mina il sor­riso demente del divo o anche – come in uno spot di qual­che anno fa — la merce che si sro­tola dal cielo simile a un’apparizione di Magritte (si trat­tava di carta igienica).

Se il cinema spet­ta­co­lare diviene sem­pre più ripe­ti­zione di cli­chés, la cui appa­rente novità cela la sostanza sempre-uguale della merce, a que­sto destino non sfug­gono nem­meno le imma­gini più audaci del cinema critico-espressivo.

Così è acca­duto – ad esem­pio — alla sequenza finale di Zabri­skie Point di Antonioni, in cui la grande esplo­sione faceva rica­dere verso il vuoto del deserto l’universo scom­po­sto e fram­men­tato delle merci: imma­gine poi ripresa dalla pub­bli­cità per esal­tare quelle merci stesse.

La ridu­zione dell’immagine cri­tica a cli­ché è il feno­meno che Simon­cini ci mostra in tutto il libro: è una rivo­lu­zione pas­siva dell’immaginario, spe­cu­lare e paral­lela a quella eco­no­mica, che ha distorto ogni resi­duo di pen­siero cri­tico negli ultimi decenni del Novecento.

Simon­cini scrive di un bio­ca­pi­ta­li­smo, che oltre a gover­nare i corpi e i pro­cessi cogni­tivi, pro­duce anche l’immaginario e solo in tal modo sog­getti inte­ra­mente sot­to­messi al suo ordine sim­bo­lico. Così va intesa la con­ce­zione pro­dut­tiva che Michel Fou­cault aveva del potere: «Lo spet­ta­colo, insomma, non pro­duce sol­tanto imma­gini, ma anche — e soprat­tutto — i sog­getti neces­sari a ren­dere logi­ca­mente pos­si­bile la pro­pria stessa esi­stenza».

Essi sono tut­ta­via sot­to­po­sti a una con­trad­di­zione costi­tu­tiva, a un dop­pio comando per­ma­nente: per cui da un lato per­mane l’imperativo al con­sumo, il «devi godere», che secondo Zizek è asso­lu­ta­mente indi­spen­sa­bile al mondo delle merci: ma d’altra parte ciò è assunto come un debito-colpa da scon­tare, in una col­pe­vo­liz­za­zione del vivente, che lo tra­sforma in preda inerme della teo­lo­gia astratta del denaro. I clown, che inter­pre­tano oggi il potere, met­tono e dismet­tono a tempo debito il saio peni­ten­ziale e gli stracci carnevaleschi.

Come con­tra­stare que­sto imma­gi­na­rio senza «fuori campo», senza aper­tura al pos­si­bile? Per quanto riguarda il cinema, Simon­cini oppone l’immagine-tempo di Gil­les Deleuze ai cli­chés di quello spet­ta­co­lare, inter­pre­tando in senso deci­sa­mente poli­tico la rifles­sione del filo­sofo fran­cese. Le immagini-tempo (esem­plari in tal senso quelle di Alain Resnais) sono capaci di «cogliere in quel pas­sato che non è dive­nuto pre­sente le aper­ture di un futuro possibile».

Più in gene­rale, il pen­siero cri­tico deve disporsi come «una resi­stenza al pre­sente». Se il capi­tale impone un’eterna attua­lità immota, l’immagine-tempo sfalda costan­te­mente l’iterazione dei cli­chés nell’indeterminatezza di un ini­zio pos­si­bile.

Forse que­sta inten­zione non vale solo per il cinema, ma più in gene­rale per quella «poli­ti­ciz­za­zione dell’arte», che Ben­ja­min si osti­nava ad opporre all’«estetizzazione della poli­tica» ope­rata dal fasci­smo (e di cui non ces­siamo di subire l’eredità).

[da il manifesto, 24-7-2014]

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tysm literary review,

vol. 11, no. 16, july 2014

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