La nozione di “ripetizione rituale” nella storia delle religioni
di Alfonso M. di Nola
Nell’ultimo decennio dello scorso secolo, si presentarono all’attenzione degli studiosi i dati di fatto che avrebbero consentito, nel posteriore cinquantennio, la definizione d’uno dei concetti considerati oggi fondamentali nell’analisi dei fatti religiosi: la ripetizione rituale (Rituelle Wiederholung, Répétition rituelle, Ritual repetition).
Come è avvenuto anche in altre occasioni, la rielaborazione teorica fu sollecitata e, in certa misura, giustificata da talune scoperte che appartenevano all’ambito E’, infatti, del 1899 la prima importante opera, nella quale B. Spencer e F. J. Gillen affrontavano lo studio dell’organizzazione tribale-totemica e delle credenze religiose delle popolazioni dell’Australia Centrale (The Natives Tribes of Central Australia), integrandolo, nel 1904, con una seconda opera (The Northern Tribes of Central Australia), destinata ad influenzare, per la singolarità del materiale raccolto, molte posteriori correnti d’interpretazione della vita religiosa.
Negli studi segnalati, Spencer e Gillen rivelavano l’esistenza di un particolare nucleo di cerimonie di moltiplicazione totemica, che assumevano forma più complessa e varia presso gli Aranda (Arunta), gruppo di tribù della zona centrale dell’Australia. Sulla base delle informazioni fornite dai due etnologi e delle più precise ricerche fatte, qualche anno dopo, da C. Strehlow (Die Aranda – und Loritjia Staemme in Zentral – Australien, III Teil: Die Totemistischen Kulte, Francoforte s. Meno, 1910-11), si accertava che alcuni rituali tribali erano diretti ad assicurare la moltiplicazione delle specie animali e vegetali, e, perciò, la continuità del ritmo di produzione e la coesione sociale del gruppo, mediante la “ripetizione” rituale d’un avvenimento di origine e di fondazione.
Si presupponeva, cioè, che, in un tempo antichissimo (Urzeit), e, tuttavia, per la natura dei fatti che in esso accadevano, metastorico e mitico (“epoca del sogno”, altgira degli Aranda, mura dei Dieri, giugur degli Alurigia, ecc.), i progenitori (altjirangamitjina) vagarono per le terre australiane, e, con atti rituali prototipici e con imprese eroiche, diedero origine a varie specie animali e vegetali, anche non totemiche, o a elementi naturali (vento, tuono, acqua, fulmine, ecc.),o a speciali conformazioni e strutture dell’ambiente fisico (montagne, laghi, rocce, ecc.). Questi accadimenti di origine e di fondazione venivano a costituire l’oggetto d’una rivelazione fatta alle classi di uomini durante le iniziazioni: e in tale presa di coscienza di ciò che fu all’origine consisteva propriamente l’ intichiuma (intitjiuma), con il valore etimologico di “iniziare in qualche cosa”, “mostrare come qualche cosa si fa”.
Questi stessi miti primordiali, quando, invece, venivano ripetuti e rivissuti cerimonialmente, negli stessi luoghi nei quali l’antenato aveva stabilito la sua dimora, rinnovando, in forma di dramma sacro, le imprese di lui e ricostruendo i “sentieri di sogno”, per i quali egli aveva vagato, prendevano il nome di mbatjalkatiuma, cioè “produrre, far nascere, rendere fertile”, con riferimento alla loro efficacia di incremento totemico. Assumiamo, a titolo di esempio, uno dei cinquantanove rituali degli Aranda studiati da Streholw, quello del Canguro Rosso (ara, macropus rufus Desm.). Nel corso della cerimonia, due o tre attori celebranti ricreano, nel tempo e nello spazio tribale, le condizioni eroiche o sognanti del tempo di origine, ripetendo gli atti ed i movimenti mimati che, secondo la tradizione mitica, il canguro antenato avrebbe compiuto, e descrivendo, con danze e con salti, la peregrinazione di lui. Gli attori sono essi medesimi “canguri di origine”, rappresentano, con ciuffi di erba e con assi di legno, le strutture anatomiche dell’animale (la coda, la spina dorsale, i testicoli, ecc.).
La cerimonia termina con un doppio scambio di energie vitali: il primo fra il canguro-antenato, e il gruppo, che consuma un pasto sacrificale di canguro, e il secondo fra il gruppo e il canguro antenato, la cui forza viene incrementata da un’aspersione di sangue, tratto dalle braccia dei partecipanti, che viene praticata sulle rocce e sui sentieri miticamente connessi all’antenato. Lo schema dell’azione rituale è integrata dal canto, il quale esprime, per sintesi di riferimenti e di immagini, la situazione prototipica che si intende riattualizzare e i suoi effetti reali sul gruppo. Le sequenze cantate, dopo aver rievocato l’aspetto del canguro-antenato, indicano chiaramente la funzione moltiplicatrice ed incrementante del rito che, nella rinnovata energia dell’antenato, riconosce il benessere del gruppo. Il capo del gruppo ha, infatti, deposto del grasso di canguro su un ripiano di rami, ed ora la comunità chiede, che per la forza del rito ripetitore cresca magicamente, con il grasso deposto, quello dell’antenato e quello di tutti i canguri che saranno sventrati negli accampamenti: “Con l’omento cresca insieme, / (con il grasso di viventi canguri) cresca insieme il grasso deposto sul ripiano di rami./ Sulle rocce battono rumorosamente (i piedi dei canguri), / nell’accampamento giace a terra (il canguro pieno del) grasso delle sue budella” (op. cit., p.10).
Mentre gli studi sull’area etnica australiana ponevano già in luce il particolare meccanismo “ripetitivo” di alcuni cerimoniali totemici e ne segnalavano, peraltro, la diretta connessione con la soddisfazione di esigenze economiche e sociali, ad analoghe conclusioni arrivavano i ricercatori che, fra la fine dell’ ‘800 e il primo decennio del nuovo secolo, si erano dedicati, soprattutto nell’ampio movimento di indagini promosso dal Bureau of American Ethnology, a raccogliere e ad analizzare i documenti religiosi delle popolazioni indigene del Nord In particolare gli studi sull’organizzazione delle società segrete di taluni gruppi Sioux (Winnebago, Oto) e Algonquini (la “Grande Medicina” dei Chippewa), poi, nel 1904, l’analisi delle cerimonie Hako dei Pawnee, resa da C. Fletcher, e, nel 1905-06, quella del grande culto della Società della Conchiglia, a cura della stessa Fletcher e del suo collaboratore indigeno Francis de la Fleche della tribù Omaha (The Hako: A Pawnee ceremony; The Omaha Tribe, p. 469 e ssg., ambedue pubblicati in “Annual Report of Bureau of American Ethnology”, n. XXII e n. XXVII), proposero un nuovo interessante esempio di rapporto strutturale fra una narrazione mitica esemplare e la sua ricostruzione rituale ed efficace, che, anche questa volta, non aveva carattere di celebrazione memoriale, ma era un “rivivere” e un “rifare” una serie di avvenimenti del mondo divino ed eroico, per garantire, non all’intero gruppo tribale, ma a un suo settore iniziatico (la società segreta) un potere magico e soprannaturale.
Ma la più importante testimonianza che derivava da questi e dai successivi studi sulle civiltà primitive dell’ America settentrionale riguardava la struttura e la natura stessa del meccanismo di ripetizione rituale. E, infatti, in quelle esperienze sociali e religiose, appariva chiaramente che il modello cerimonialmente ricostituito non era soltanto un paradigma mitico, una narrazione e un avvenimento di origine, ma anche una condizione cosmica, come status modulare ed esemplare della realtà.
Il sacerdote, o l’operatore sacro dovevano ripetere le imprese e le gesta d’un essere divino, protoumano o animale dei primordi, ma, soprattutto, dovevano ricostruire, con una serie di espedienti e di simboli magici e liturgici e con l’intervento di concelebranti e dell’intero gruppo, una situazione cosmica di “principio”, uno stato pretemporale di perfezione.
Di qui il rilievo dato, in questi documenti rituali, alle posizioni e agli orientamenti, rappresentati da pilastri e da pietre; ai colori, in corrispondenza di tempi stagionali e rituali, di venti e di correnti; alle circumambulazioni; alle figure geometriche rappresentative di spazi; alle determinazioni di spazi e luoghi sacrali, nei quali si “attualizzava” la presenza numinosa. Così che la sicurezza del gruppo non veniva affidata soltanto alla sua reintegrazione in una serie di avvenimenti mitici, ritualmente vissuti, ma anche a un adeguamento all’immagine prototipica del cosmo, del suo centro e delle sue direzioni, che è propria della Weltanschauung sciamanica.
Intanto, una prima esplicita formulazione della nozione di “ripetizione rituale” precede temporalmente le ricerche sull’area etnica australiana fatte da Spencer e W. Robertson Smith restava fortemente impressionato dai primi studi sulla concezione totemistica e dai materiali raccolti, fra il 1876 e il 1899, da J. F. MacLennan e da J. G. Frazer, in particolare dalla sintesi che quest’ultimo aveva fatta, nel 1877, nel suo opuscolo Totemism. E, inaugurando un errore di prospettiva metodologica e storica, dal quale le scienze religiose si sarebbero liberate soltanto molto tardi e con grave fatica, assumeva il totemismo a “forma elementare” della vita religiosa e tentava di spiegare, a mezzo di esso, il sacrificio nelle religioni semitiche (Lectures on the Religion of Semites, 1899).
Questo tentativo appare oggi scientificamente ingenuo ed inficiato, peraltro, da un’errata visione dei fatti totemistici, ma tuttavia, nel saggio di Robertson Smith è pienamente valido il rilievo che egli fece del rapporto dinamico e interfunzionale fra mito e rito (nel caso specifico, ci si riferiva al rito sacrificale), giungendo ad affermare la priorità storica del rito sul mito. Le religioni antiche sarebbero consistite prevalentemente in organismi di comportamenti pragmatici, e, soltanto nella loro fase di evoluzione, avrebbero proiettati tali comportamenti in particolari schematizzazioni mentali (dogmi) o fantastiche (miti). L’essenza del fatto religioso, anche dopo tale evoluzione, restava l’agire cerimonialmente, in solidarietà con gli esempi modulari mitici che erano venuti a costituirsi in tradizione e che, nell’atto cerimoniale, erano “rivissuti” e “rinnovati” dal gruppo: “Le religioni antiche non hanno, in massima parte, un credo. Esse consistono, interamente, di istituzioni e di pratiche…. (In esse) la mitologia ha il posto del dogma… In breve il rito era connesso non con un dogma, ma con un mito… La religione era un corpo di pratiche religiose fisse… e la pratica precedette la teoria” (op. cit., pp. 16-19).
Non avvertì, invece, chiaramente la dinamica di questa relazione J. G. Frazer, che pure aveva avuto molti interessi culturali comuni con Robertson Smith. Non è che egli, in quella selva di ricerche, che formano il Ramo d’Oro, non abbia affrontato il problema d’una corrispondenza fra l’azione cerimoniale e la rappresentazione mitica. L’ha anzi esaminato specificamente nelle religioni antiche (soprattutto in Attis and Adonis, 3a ediz., 1913) e presso le tribù australiane; ma, più che chiarire la funzione “ripetitrice” che è alla base del rapporto, ne ha posto, in luce un aspetto parziale ed esteriore, che è il meccanismo magico, l’automaticità, attraverso cui la “ ripetizione” talvolta opera. Dopo aver esposto, per esempio, il mito di Adone, egli esamina l’usanza dei cosiddetti “giardini di Adone”, cioè di ceste e vasi pieni di terra, in cui si seminavano ortaggi e fiori, affidati, per otto giorni, esclusivamente alla cura delle donne. Quando i semi germinavano, le piante seccavano rapidamente, per la mancanza di terreno adatto e sufficiente alle radici, e, allora, venivano gettate in mare o nelle sorgenti, insieme con le statuette di Adone.
Ci troviamo evidentemente di fronte ad un tipico caso di ripetizione rituale, destinata a rinnovare, in un tempo sacro (quello della festa del dio) e in uno spazio sacro (quello del vaso-giardino, ripetitore dei giardino prototipico del mito), un avvenimento primordiale (la morte di Adone), che sembra corrispondere alla fondazione d’una fase della civiltà agricola (la semina del grano e la conseguente mietitura, trascritta simbolicamente come morte violenta del dio). Lo scopo funzionale della ripetizione, anche per le seguenti parti del dramma rituale, che qui non citiamo, è il garantire la comunità dal rischio di soggiacere al mancato rinnovarsi del ciclo di seminagione~crescita~mietitura del grano.
La comunità, a mezzo del giardino ripetitore e delle altre parti della drammaturgia rituale, ricostituisce hic et nunc l’atto divino di fondazione del ciclo economico, ricrea e rifà il mondo, per quanto riguarda il grano o i cereali, cioè in rapporto a ciò che il mondo per essa rappresenta in quel determinato periodo stagionale e in funzione delle sue esigenze esistenziali. Frazer, invece, è riuscito a segnalare in questo rito soltanto l’aspetto del funzionamento automatizzato e magico, e ha ridotto la connessione mitico-rituale ad un atto di “magia omeopatica ed imitativa”: “Tutte queste cerimonie di Adone, se non erro, erano in origine degli incantesimi destinati a promuovere la crescita o il rinvigorimento della vegetazione: il principio da cui si attendeva questo effetto era quello della magia omeopatica o imitativa” (Il Ramo d’Oro, traduz. Ital., De Bosis, Torino, 1950, vol. I, p. 557).
Ancora più drastica era stata la sua posizione nei riguardi di quei riti totemistici d’incremento e di moltiplicazione, che abbiamo visto costituire l’esempio più imponente di ripetizione rituale. Quando egli esamina il patrimonio religioso dell’Australia Centrale, riesce soltanto a rilevare la natura automatica di talune azioni inserite nel complesso rituale, senza comprendere la loro reale portata significante: “Spesso i riti consistono in un’imitazione dell’effetto che la gente vuole produrre: in altre parole, la loro magia è omeopatica o imitativa” (op. cit, vol. I, p. 56).
Ora, questa visuale errata di Frazer ha, pure essa, contribuito alla più precisa definizione della nozione di ripetizione rituale, nel senso che ha posto in evidenza l’atteggiamento magico e automatico che, talvolta, il celebrante assume nella liturgia ripetitrice. E’ chiaro che l’errore di visuale sta nell’avere svuotato il rito della sua ragione vitale ed essenziale, che è il “rivivere” e il “rifare” il modello mitico, attraverso una partecipazione cosciente e un impegno di presenza totale di tutta la comunità. Il gruppo non “imita”, secondo una ricostruzione mimetica, gli accadimenti di origine narrati; non agisce per soddisfare un’impulsione di natura ludica o teatrale; né, tantomeno, agisce magicamente, cioè presupponendo un’efficacia automatica, non partecipe alla coscienza e alla volontà dell’operatore, agente ex opere operato, nell’intero dramma rituale.
Tuttavia, pure se dobbiamo escludere il carattere magico dell’intero rito, quale Frazer lo aveva inteso, non possiamo non riconoscere che in esso intervengono atti, gesti, parole di efficacia automatica, tali, cioè, che non esigono una partecipazione cosciente del celebrante. Ma tali comportamenti sono soltanto accessori e convergenti nello sviluppo dell’azione rituale, la quale, come vedremo, per essere tale, esige una fondamentale presa di coscienza da parte del gruppo. È vero che, talvolta, l’intero rito può scadere a pura azione magico-mimetica, quando si sia svuotato dei suoi significati esistenziali e sia sradicato dallo humus economico-storico della vita del gruppo che lo ha espresso. Allora esso sarà ripetuto, non per rinnovare un dramma paradigmatico di origine e di fondazione, ma soltanto per provocare la carica di potenza che, secondo la tradizione, era connessa a tale rinnovamento. Ma questo è il caso limite della patologia del rito, che non interessa la normalità dei fatti religiosi.
Ci si venne, cioè, a chiedere, soprattutto presso gli studiosi inglesi, quale fosse la “funzione”, cioè l’utilità razionale non solo del rapporto da noi qui esaminato, ma di tutti i comportamenti magico-religiosi. E, in questa problematica, veniva a presupporsi la riducibilità del fatto religioso, considerato non come fatto a sé, ma come espressione settoriale e parziale dell’attività umana, a una pretesa “ funzionalità” razionale, a uno scopo cioè, che poteva essere compreso e spiegato soltanto in rapporto al cosiddetto momento razionale o profano della vita. Il funzionalismo veniva a costituire, in effetti, la ricerca delle ragioni vitali della religione in un altro piano di esperienza umana, quello ambientale, economico, sociale o storico-culturale, partendo da una valutazione preconcettualmente negativa dal momento religioso, considerato incapace di autorisolversi e di spiegarsi in una propria autonomia interna.
Se si esaminano i metodi di ricerca di questi studiosi, si avverte subito che, per essi, l’agire e il vivere religiosamente è un modo di comportarsi irrazionalmente per conseguire fini razionali. Individuare la “funzione” del rito, della formula, della liturgia magica, della rappresentazione mitica significa, per ciò, scoprire le loro motivazioni profane e razionali e considerarle come trascrizioni irrazionali e provvisorie di tali motivazioni.
Conclusioni di questo genere erano quelle alle quali giungeva, fin dal 1922, Bronislaw Malinowski, nel rendere conto delle sue dirette ricerche etnografiche nell’area delle popolazioni melanesiane della Nuova Guinea (Argonauts of Western Pacific). In quell’opera, egli riconfermava la validità del nesso solidale fra rituale e mitologia, soprattutto in rapporto al complesso scambio di doni detto kula, mediante il quale i gruppi di indigeni di alcune isole da lui studiate riattuavano, in un lungo periodo sacrale, uno scambio prototipico descritto nel mito di fondazione. Ma, a conclusione della sua dettagliata indagine, si chiedeva i motivi funzionali di tutta l’operazione cerimoniale studiata, e dichiarando la impossibilità di ritrovarli nella stessa autonomia del comportamento religioso, li individuava in certi esiti, cui lo scambio rituale aveva portato: il consolidamento, cioè, delle relazioni sociali intertribali (a big, intertribal relationship), e il costituirsi d’una relazione più propriamente economico – commerciale, destinata a soddisfare il desiderio di un possesso precario dei beni (the character in the transaction itself, op. cit., p. 510).
La posizione teorica che veniva fuori dalla ricerca sembrava interessare subito il Frazer, il quale, presentando con una sua introduzione il libro del Malinowski, segnalava l’importanza della magia (leggi: dell’atto rituale) nel contesto delle istituzioni sociali: “In breve, si ritiene che la magia sia un accessorio assolutamente essenziale di ogni impresa industriale, costituendo un requisito per il suo successo” (op. cit., p. XI).
Riconfermava, poi, più volte, il Malinowski quella che egli definiva una “correlazione funzionale fra il mito ed il rito” (Myth as a dramatic development of dogma, in Sex, Culture and Myth, Londra, 1963, p. 255). I grandi fenomeni religiosi vanno studiati in diretta relazione con l’ambiente economico-sociale ne1 quale si sono prodotti; e tale ambiente, con le sue istanze culturalmente variabili (e cioè: di agricoltori, di pescatori, di pastori, di raccoglitori, ecc.), non serve a spiegare solo in parte le simbologie, le mitologie, i rituali, ma li giustifica e li “razionalizza” nella loro totalità, ne rivela la “funzione”, inserendoli in una realtà storica e in un agire di carattere economico e produttivo. Di qui la conseguenza che il dramma rituale, nell’atto in cui viene “ripetuto” è una storia rivissuta e riattualizzata (re-enacted) non più per costituire un rapporto della vita umana con il piano del divino o per sacralizzare l’azione e la storia dell’uomo (e in ciò stesso si esaurirebbe, sotto diversa prospettiva storico-religiosa, l’esperienza mitico-rituale), ma soltanto per esprimere, su un piano contingente di irrazionalità, un momento di crisi e di insicurezza e per facilitare, dopo il superamento, il ritorno alla vita profana e alla ripresa del ritmo produttivo.
La stessa intenzione di ricercare i motivi del fatto religioso in “qualchecos’altro” e di negarne, implicitamente, la capacità di autonomia e di dialettica interna autorisolutrice, spiega i vari tentativi di trasferire l’esame del rapporto mito-rito sul piano della psicologia e della Se il funzionalismo ha creduto di chiarire e di razionalizzare il comportamento religioso, radicandolo all’ “essere nella storia” dei singoli ambienti economici e considerandolo una proiezione provvisoria, simbolica ed emblematica delle condizioni e delle urgenze vitali del gruppo, la psicologia, rinnovata dalla psicoanasi, avvertiva subito la possibilità di trovare la spiegazione razionalizzante nelle strutture e nei meccanismi che si andavano scoprendo nell’uomo in genere e nel malato in particolare. Freud è giunto a formulare una complessa ipotesi sul problema del fenomeno religioso che c’interessa, ricercandone le motivazioni in un ambito che supera i precisi limiti della tecnica psicoanalitica e che tenta di investire le ragioni stesse della vita e dell’essere. E questa ipotesi, che egli ha chiamata metapsicologica, e della quale ha avvertito, con chiarezza e con onestà, la precarietà, la provvisorietà e la incertezza dottrinaria (in particolare nelle ultime pagine di Jenseits des Lustsprinzip) è passata, con l’aderenza più o meno fedele all’originaria formulazione, in molti dei posteriori studiosi di storia delle religioni e ha massicciamente influito sulla individuazione di una componente psicologica dell’ interfunzione mito-rito.
Fin dal 1907, Freud, nel suo articolo Zwangshandlungen und Religionsiubung (“Zeit. fiur Religionspsych.”, I, 1907), segnalava un’analogia strutturale fra le cosiddette nevrosi ossessive o coatte (Zwangneurose) e le pratiche rituali. In questo tipo di nevrosi, il paziente, pur consapevole dell’inutilità razionale delle sue azioni, è costretto (gezwungen) ad agire secondo certi schemi obbligati (gesti, parole, cerimoniali nevrotici), che appaiono una caricatura dei cerimoniali religiosi. Tali comportamenti, nell’economia interna della malattia, evitano al paziente il crollo in una condizione insostenibile di frattura psichica e lo liberano, mediante una soluzione di per se stessa morbida, dalla crisi di angoscia.
Posteriori ricerche, conseguenti all’analisi delle psicopatie provocate dalla prima guerra mondiale, portavano lo studioso a riscontrare analoghi fenomeni di ripetizione nelle cosiddette nevrosi di guerra (Zur Psychoanalyse der Kriegneurosen, “ Internat. Psychoanal. Bibliothek, I, 1919”, in collaborazione con altri studiosi). Negli ammalati traumatizzati psichicamente o feriti, si osservava la tendenza a ripetere, nel sogno, l’avvenimento traumatizzante (lo scoppio d’una granata, un assalto alla baionetta, ecc.), mentre, nello stato di veglia, prevaleva la tendenza a rimuovere il ricordo doloroso. La “ripetizione” sognata dell’avvenimento appariva sicuramente come un’esperienza dolorosa del paziente, il quale si svegliava di improvviso in una crisi di angoscia. Il fenomeno, rilevato in una numerosa casistica, appariva, per esplicito riconoscimento del Freud, in diretto contrasto con la sua teoria generale sui sogni, secondo la quale, nell’immagine onirica, riaffiora simbolicamente un desiderio rimosso: e certamente non poteva considerarsi tale la riemersione di un episodio traumatizzante. Si avvertiva, quindi, la necessità di ricercare i motivi di queste ripetizioni sognate in un ambito diverso da quello della dinamica del sogno.
Il problema veniva affrontato dalla base in Jenseits des Lustsprinzip (“Internat. Zeit. fiur Psychoan.”, 1921). Agli esempi gia riferiti, Freud aggiungeva ora l’esame d’un caso di ripetizione infantile giocata, il quale ha costituito l’oggetto di recenti analisi storico-religiose (vedi, per es., J. Cazeneuve, Les Rites et la Condition Humaine, Parigi, 1958, p. 122 e E. De Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna, in Furore, Simbolo, Valore, Milano, 1962, p. 20). Un bambino di 18 mesi aveva l’abitudine di gettare sotto il letto o in un angolo gli oggetti che gli capitavano sotto mano, accompagnando l’atto con un suono che, nell’interpretazione della madre, significava “fort!” (= via, lontano!).
Un giorno, Freud osserva che il bambino getta un rocchetto, intorno al quale era avvolto uno spago, al di là della spalliera del letto, ottenendo, così, che il rocchetto “scompaia”. Pronunzia il suo “fort!”, e, poi, tirando a sé il rocchetto nuovamente, ne saluta la riapparizione con un “Da!” (= eccolo!). Ci si veniva, così, a trovare di fronte a un atto piu volte ripetuto, costituito da due momenti (sparizione e riapparizione del rocchetto), dei quali il secondo provocava, nel bambino, un’evidente reazione di piacere. L’interpretazione psicoanalitica del comportamento portava Freud a ritenere che il bambino “ripeteva” ritualmente un avvenimento che lo aveva traumatizzato : L’allontanarsi della madre e il suo ritorno in casa ogni giorno. Mediante la simbolica ricostruzione e riattualizzazione dell’avvenimento, il bambino veniva a dominarlo, a farlo, cioè, emblematicamente entrare nella sfera della sua volontà (con un’analogia con il comportamento propriamente magico dell’atto rituale). E in ciò stesso, egli risolveva, per sostituzione rituale, una condizione di angoscia. Ma una più approfondita analisi del caso poneva a Freud un più ampio problema: se l’allontanarsi della madre costituiva per il bambino un avvenimento traumatizzante e doloroso, perché egli aveva la tendenza a ripeterlo, e non invece quella a cancellarlo dalla memoria (rimozione)? E tale ripetizione del momento doloroso dell’avvenimento, espressa qui nel giuoco e, nelle nevrosi di guerra, mediante le immagini oniriche, poteva spiegarsi soltanto in funzione della successiva soddisfazione che il bambino provava (ritorno della madre, riapparizione del gomitolo)? E perché la soluzione della situazione di angoscia era affidata alla ripetizione d’una situazione modulare, primitiva di angoscia?
Sul fondamento di questa duplice direzione di ricerca, quella psicopatologica sulle nevrosi e quella psicologica sull’infanzia, Freud formulava, allora, la sua ipotesi della tendenza a ripetere, dell’eterno ritorno sull’identico: “Dinanzi a questi fatti, che si riscontrano tanto nel modo in cui i nevrotici si comportano, quanto nel destino di moltissimi soggetti normali, non si può negare, nella vita psichica, l’esistenza di una tendenza irresistibile alla ripetizione e alla riproduzione, tendenza che si afferma senza tener conto del principio del piacere e mettendosene al disopra” (op. cit., traduz. ital. di U. Barbaro, Roma, 1946, p.31). Accanto al meccanismo della “dominazione” rituale dell’avvenimento, per cui il soggetto, da passivo che è di fronte al fatto, si costituisce in attore volontario di esso, apparirebbe una più profonda tendenza istintiva, quella verso il dolore e la morte, che, nel dualismo della teoria freudiana, rappresenta il termine antitetico del principio del piacere (Lustsprinzip). Completando queste sue osservazioni in Das Ich und das Es, nel 1923, Freud dichiarava che istintivamente vi è nell’uomo la tendenza a ricostruire un ordine turbato dall’apparire della vita, a ricostituirsi nello stato di materia inorganica; e in ciò sarebbe l’istinto di morte e la spiegazione della “ripetizione” rituale dell’avvenimento doloroso. L’atto rituale, nel bambino e nel nevrotico, avrebbe la funzione di rinnovare un avvenimento prototipico, che è la condizione di morte, di non essere, di immobilità organica, la cui riemersione memoriale si verifica in ogni condizione di angoscia, poiché “ogni angoscia è, a dire il vero, un’angoscia di morte…. Situazione analoga a quella che può essere considerata come la fonte del primo stato di angoscia che prova il bambino in seguito alla separazione nostalgica dalla madre” (op. cit.).
Non è qui possibile esaminare tutte le posteriori implicazioni della teoria freudiana sulla “ripetizione” nella storia delle religioni; ma è importante rilevare che, indipendentemente dalla precarietà dei risultati generali raggiunti e dalle molte aporie risultanti da un più approfondito esame di questa posizione ideologica, Freud ha aiutato a scoprire l’importanza d’una componente psicologica nel meccanismo rituale ripetitore. Noi oggi sappiamo, grazie alle indagini funzionaliste, che è necessario cercare una connessione fra il rito riattualizzante e l’ambiente culturale cui esso appartiene, salvo, poi, ad assumere questa connessione come spiegazione funzionale di tutto il rapporto o, invece, a servirsene come mezzo di indagine e di chiarificazione. Ma la lezione psicoanalitica, a sua volta, ci ha insegnato a tenere nel debito conto i comportamenti e le reazioni psichiche degli individui e delle comunità che agiscono nel gruppo: ed ha aperto la prospettiva di una riconsiderazione della solidarietà mitico-rituale sotto l’aspetto di un processo collettivo di liberazione dall’angoscia. Ed è questa un’angoscia che sarebbe radicata negli stessi ritmi di produzione, agricola, pastorale, piscatoria, ecc., come specifico rischio del venir meno delle fonti della vita e del sostentamento, che è una forma parziale ed occasionale del più vasto rischio del non essere più nel mondo. Così che il rinnovare, nel tempo cultuale, l’avvenimento primordiale, che ha fondato il ritmo produttivo, assicurerebbe la continuità del ritmo stesso, perché, riscattando la comunità dalle cariche ansiose, faciliterebbe un suo ritorno alla vita profana e al lavoro umano. Ed è qui che, in un clima di rivalutazione esistenziale del rapporto, vi è stato un incontro fra il funzionalismo e la psicologia moderna, il quale, importante ed efficiente sotto molti aspetti, ha, però, rinunziato ad ogni tentativo di comprendere l’autonomia del fatto religioso e ne ha definitivamente trasferito le ragioni nella cosiddetta razionalità e storicizzazione.
Dobbiamo, infine, brevemente segnalare il tentativo di rivedere tali posizioni e di riprendere coscienza dell’autonomia dell’esperienza religiosa, fatto da Eliade. Egli lavorava su una nozione di ripetizione rituale ormai chiaramente affermata sia presso i precedenti studiosi di fenomenologia religiosa (vedi per es. G. van der Leeuw, Phaenomenologie der Religion, I ediz., 1933, tr. it. Torino, 1960, p. 271, p. 293 ssg., p. 319 ssg.), sia presso gli etnologi, in particolare da Th. K. Preuss (Der religioese Gehalt der Mythen, 1933). In Le mythe de l’eternel retour. Arcketypes et répétitions, 1949, integrato, poi, dalle altre sue pubblicazioni, in particolare dall’articolo La Vertu créatrice du mythe (Eranos Jahrbuch, XXV, 1956> pp. 59-85), Eliade, esaminando comparativamente i più svariati contesti culturali, segnalava, alla base del meccanismo di ripetizione rituale, una tendenza dell’uomo religioso a “destorificare” il tempo, e cioè ad annullarlo nel suo valore di contingenza profana e a trasferirlo sul piano di un’eternità modulare e metastorica. Vi sarebbe, cioè, una fondamentale “angoscia del tempo”, che fa considerare la storia come peccato e come deficienza ontologica e che, conseguentemente aspira a risolversi nel riscatto realizzato mediante la riattualizzazione rituale degli avvenimenti mitici. Questi, poi, “furono come se non fossero stati”, in quanto si sono verificati in una condizione spaziale-temporale che è sottratta alla nostra esperienza profana. Di qui la necessità che l’operatore rituale con tutta la sua pienezza al rito-mito, rivivendolo e rifacendolo hic et nunc, mediante l’acquisizione di una nuova dimensione fisio-psicologica, che gli dia accesso allo spazio e al tempo sacro (la “ reversione”). Così che i riti che ripetono le cosmogonie (per es. l’akitu assiro-babilonese) e che vengono preferenzialmente assunti nella dinamica religiosa tendono a ricreare il mondo, ma anche a distruggere il mondo profano attuale, perché la storia, rigenerandosi nella non-storia, ricominci da capo (simbolismo ciclico del tempo).
In questa breve nota ci siamo soltanto sforzati di presentare talune fondamentali posizioni teoriche che riguardano la nozione di ripetizione rituale, e, perciò non abbiamo potuto tener conto delle varie revisioni critiche delle singole correnti interpetrative. Né abbiamo esaminato gli studi di molte altre scuole, per esempio. le posizioni del sociologismo francese, per le quali rimandiamo al classico Les Formes élémentaires de la Vie religieuse di E. Durkheim, 4a ediz., Parigi, 1960, in particolare al libro III (Les principales attitudes rituelles); quelle della cd. psicologia dei primitivi, per le quali si vedano le varie opere del Lèvy-Bruhl, i cui principi generali sono in La Mentalité Primitive, I ediz., 1922, mentre un’analisi della cerimonia intichiuma dal punto di vista della “legge di partecipazione” è in Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures, 9a ediz., 1951, p. 283 sgg. Per le indagini della scuola mitico-rituale inglese, si vedano i vari studi contenuti nei due simposi pubblicati da S. H. HOOKE: Myth and Ritual, 1933; The Labyrinth, 1935; e le applicazioni risultanti dalle ricerche di J. HARRISON (Ancient art and ritual, 1913), di W. J. PERRY (The Children of the Sun, 1933), di G. MURRAY (Five stages of Greek Religion, 1925), di A. M. HOKART (Kingship, 1927). Così, chi sia interessato alle implicazioni psicoanalitiche e psicologiche del profondo, come alle critiche più o meno pertinenti ad esse rivolte, ha a disposizione una letteratura molto nutrita, e potrà, in Italia, riferirsi alle varie opere di E. De Martino e alle bibliografie da lui segnalate. Pure pubblicate a cura di Astrolabio di Roma, sono le traduzioni italiane delle opere più importanti di C. G. JUNG e di S. FREUD. Sintesi importanti delle teorie psicoanalitiche sono in J. CAZENEUVE, Les Rites et la Conditions Humaine, Parigi, 1958 (con bibliografia specifica) e in C. KLUCKHOHN, Myths and Ritual: a general theory, in “ The Harvard Theological Revew”, XXXV, 1942, p. 45 sgg. Un’applicazione di psicoanalisi a quattro rituali è in T. REIK, Ritual: Psycho-analytic studies, I ediz., 1928, traduz. Ital., Il Rito religioso, Torino, 1949. In etnologia una recente riprova della teoria della ripetizione è stata resa da A. E. JENSEN, Mythos und Kultus bei Naturvoelkern, 1951, traduz. franc., 1954, notevolmente influenzato da Eliade. Precise sintesi sono esposte da E. O. JAMES, The Beginning of Religion: An Introductory Study, Londra, s. d., p. 138 sgg. e Comparative Religion, Londra, 1961, 2a ediz., p. 78 sgg.
Fonte: Cultura e scuola, n. 12, ottobre – dicembre 1964, pp. 92-101
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tysm literary review
vol. 21, issue no. 22
march 2015
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