philosophy and social criticism

La vita-shaker

Simone Paliaga

Primum (se) movere, deinde vivere. La parola d’ordine dei tempi nuovi, quelli che dovevano sorriderci dopo il secolo “cupo” appena trascorso, sembra molto semplice: muoversi e smuovere.

Non passa giorno senza che si caldeggi una terapia cinetica. Il movimento sembra la panacea capace di sanare qualsiasi tipo di depressione. Guarisce dal male oscuro che colpisce dopo un lutto o perché travolti dalla routine quotidiana, come dalla piaga economica della stagnazione. Dal trauma dell’abbandono ci si distrae viaggiando, cercando un nuovo partner, uscendo con gli amici ogni sera. Stando sempre in moto. Per fugare le impasse dei mercati, le ricette sono a portata di mano: la flessibilità del lavoro, la libera circolazione delle merci e degli uomini come le “liberalizzazioni” – che cosa sono d’altronde se non la possibilità di muoversi liberamente sul mercato senza vincolo alcuno? – paiono la sola via di scampo. I grandi esodi vacanzieri sono il suggello di una realtà sana. L’apertura dei mercati agli investitori esteri, l’immigrazione, il tasso di esportazione sono indici di salute.

A patto che tutto avvenga all’insegna della velocità, tanto da spingere Paul Virilio a inventarsi una nuova disciplina, la “dromologia”, il sapere della velocità (La velocità di liberazione, Mimesis, Milano 2000). La velocità di movimento, di trasferimento dei dati, la rapidità di spostamento di merci, eserciti, denaro, informazioni è l’inedito crinale su cui erigere gerarchie e inclusione sociali, promuovere la competitività e garantire il successo. Ma non basta muovere. Bisogna smuovere. Un tempo il contadino smuoveva solo la terra. Adesso smuoviamo tutto quanto ci circonda: i corsi d’acqua, le foreste e addirittura gli atomi e i geni. E poi gli animi, si devono sensibilizzare anche quelli, no? Ed ecco il Movimento per la vita, il Movimento per la giustizia, il Movimento consumatori…

Ma cos’è questo gusto del muovere, del muoversi e dello smuovere? Questo agitarsi senza posa, che viluppa la realtà, noi compresi, per descrivere il quale Pierre-André Taguieff conia il termine “bougisme”, “movimentismo” (Contre le bougisme, Éditions Mille et une nuit, 2002)? È il lascito dell’idea di Progresso, dopo la sua crisi. Se con Auguste Comte si stabilivano le tappe di crescita e un approdo da attingere per l’umanità, ora, dalle rovine delle ideologie del XXI secolo, cresce solo il movimento fine a se stesso. Prima si dovevano strappare i laccioli che avvinghiavano, che impedivano gli spostamenti, per migrare verso la libertà; ci si divincolava dalle radici per emanciparsi e conquistarsi il futuro. Ma ora che le sirene del radioso avvenire non incantano più, a cosa ci si aggrappa? Franati i miti che mobilitavano coralmente gli uomini, disposti a sacrificarsi e a sacrificare, oggi ci rimane un tapis roulant su cui ognuno s’affretta da solo senza procedere da nessuna parte però. Facciamo esperienze su esperienze, giriamo molti paesi, siamo inondati da informazioni dalle contrade più remote, investiamo il “Tfr” nei paesi emergenti (quelli che si modernizzano ed escono dall’immobilismo, si badi) e la sera ci palleggiamo tra bar, ristoranti e cinema. Non si riesce a stare fermi, la frenesia ci abita. Anche nelle sospirate vacanze tutto si muove: tanto che si tramutano in un infinito girovagare tra musei, mostre, monumenti. C’è sempre qualcosa da fare. La vita ormai sembra uno shaker impazzito.

Così, avvolti dall’imperativo cinetico, il nostro costume diventa il movimento. E si sa quanto l’abitudine pesi nella vita degli uomini. Non è un orpello che si dismette quando si vuole: è il nostro habitus, la casa senza cui non riusciamo a pensarci, a vederci. Lo diceva Arnold Gehlen che l’uomo è un “essere naturalmente culturale”, un animale che senza cultura sarebbe perso. La pulsione al movimento è diventata la nostra nuova cultura. Le apparteniamo. Ci inventiamo così formule felici per dare un senso all’ eterno transitare, di cui siamo agenti e parte. Grazie a Jacques Attali apprendiamo di essere nomadi (L’uomo nomade, Spirali, Milano 2006). Con Zygmunt Bauman impariamo che la realtà è liquida. E tutto le si conforma: l’amore, il lavoro, il pensiero (Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2006,).

Il movimento sfrangia tutti i confini, sfarina ogni identità, inghiottita dalla perversione cinetica. Che liquefa anche la consapevolezza di chi e cosa si è. Il liquido prende la forma del contenitore in cui fluisce, si muove a velocità diversa a seconda della superficie su cui scorre… c’è la tensione superficiale, una forza potentissima che gli impedisce di disperdersi, ma assume sempre la forma che il contenitore gli assegna. È sempre eterodiretto, guidato dall’esterno, come mostra il più audace filosofo contemporaneo, Peter Sloterdijk in Eurotaoismus (Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1999). Perché se c’è uno shaker, c’è pure il barman che lo scuote.

E poi c’è il movimento quando vengono meno i sistemi di riferimento, quando i punti cardinali non si offrono più allo sguardo? Non si capisce più se a spostarsi siamo noi o gli altri, se cambiamo noi o il mondo che ci circonda. Come si insegnava alle scuole elementari d’antan, in treno non ci accorgiamo se a muoverci siamo noi o il convoglio che è a fianco, fintantoché non si riesce a trovare la stella polare. E senza di essa, come cantavano gli alternativi Assalti Frontali, “faccio movimento per il movimento”. E tutto si perde.

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