L’edificio della letteratura
di Mircea Cărtărescu
Presentiamo qui il discorso inaugurale con il quale Mircea Cărtărescu ha aperto l’edizione della FIERA DEL LIBRO DI GÖTEBORG, IN DATA 26 SETTEMBRE 2013. La traduzione è di Bruno Mazzoni dal testo originale romeno inedito.
Luce fredda e accecante di settembre, bacche enormi, rosso-arancioni di rosa di macchia nella cui convessità si riflette il mondo. La siepe piena di rose di Gerico visitata dalle ultime api. Sono sul mio terrazzo, nella luce intensa dell’autunno, sotto nubi autunnali, compatte, vorticanti, impassibili, sotto le quali potrebbero accadere crimini e incesti, guerre fratricide e torture senza che nulla della loro atarassia venga turbato.
Ho 57 anni, ed è anche l’autunno della mia vita. Ho vissuto per un nanosecondo sopra un granello di polvere del mondo che ci è stato dato, incomprensibile e mostruoso. Ma l’attimo che sto vivendo ora, sul mio terrazzo, con la tazza di caffè davanti, col mio gatto birmanese accanto, con le bacche di rosa canina che mi scendono sulle spalle, riscatta pienamente la follia dell’essere e del non essere e, simile a una fotografia in cui l’autunno risplende con tutta la sua forza, mostra in che modo l’attimo è più grande dell’eternità.
In questo attimo eternizzato, leggo. Rileggo dopo tantissimo tempo l’Iliade. Mi sono immerso nel suo testo appena sveglio. Ora leggo sul mio terrazzo, sul retro della casa, e ho bisbigliato per un bel po’ i versi del primo canto prima di rendermi conto della stranezza della situazione. Infatti, sollevandomi dal letto pensando a Omero, non mi sono diretto agli scaffali della biblioteca, ma ho allungato la mano verso il cellulare sul ripiano del sommier. Nel folder in cui ho messo i libri essenziali ho trovato subito l’Iliade, accanto alle Storie di Erodoto, alla Divina Commedia, a Dostoevskij, Rilke e Kafka. Ho iniziato a leggere prima di svegliarmi del tutto.
Ho continuato a leggere in bagno, col cellulare messo imprudentemente sul bordo del lavandino, e in cucina, mentre preparavo il caffè, e non mi sono reso conto che stavo leggendo su uno schermo e non su carta solo quando ho visto gli esametri greci mescolati a nuvole autunnali riflesse nel vetro rettangolare. Nuvole di oggi, letteralmente identiche a quelle sotto le quali il poeta aveva composto un tempo la sua epopea.
Omero letto su un cellulare? Sono stato colpito per prima cosa dalla hybris, persino forse dall’empietà della situazione. Ho deposto lo smartphone, sul cui schermo gli esametri si adunavano in riga simili agli achei in battaglia. Sono rimasto con occhi assorti, avvertendo solo il fresco splendente dell’autunno. Perché l’Iliade, che ha vissuto dapprima per il tramite della memoria e delle laringi degli aedi, è passata imperturbabile nella nuova tecnologia dei rotoli di papiro, poi nella nuova tecnologia del libro, poi nella nuova tecnologia elettronica, senza perdere e senza guadagnare, quasi levitando al di sopra di ogni genere di supporto, come si racconta che aleggiassero le parole della legge sopra le tavole di Mosè? Perché, mentre la maggior parte dei libri viene dimenticata ancor prima di essere scritta, alcuni di essi attraversano gli spazi, i tempi e le tecnologie di modo che, in un mattino d’autunno, a distanza di migliaia di anni da quando vennero composti, qualcuno si svegli con il desiderio di rileggerli?
Guardo il mio birmanese, letteralmente identico ai gatti birmanesi di centinaia di anni fa, con i suoi occhi azzurri ritagliati come dal cielo e attraverso di essi sembra quasi che lo si veda davvero, con le sue zampine bianche come se avesse camminato in un vassoio di panna liquida, e penso al fragile edificio della letteratura. Scrivo letteratura da 35 anni, leggo da moltissimo più tempo. Tutta la mia vita si è svolta intorno alla letteratura. Non sono stato, in fondo, come scriveva Kafka alla sua amata, “nient’altro che letteratura”. Non mi sono però mai definito scrittore.
L’edificio della letteratura verso il quale noi, uomini del libro, ci rivolgiamo da ogni direzione, da ogni tempo, da ciascuna piega della storia, s’innalza su un enorme cumulo di frammenti. È il monte di libri scadenti, perduti nell’anomia e comunque importanti, perché essi elevano e rendono visibile il santuario. Sono i libri scritti per lucro, letti per voyeurismo, gettati poi in un tumulo alto quanto il Golgota. Sono il novantanove per cento dei libri del mondo.
Il primo livello della grande costruzione è stato fatto da professionisti, da coloro per i quali scrivere è un mestiere. Da abili fabbri, calderai, ebanisti, battilastra e tornitori della scrittura. Da muratori, ingegneri e meccanici, da quelli con studi di trigonometria e di resistenza dei materiali. Essi hanno eretto monumenti solidi, coerenti, indistruttibili, con muri misurati con la livella e il filo a piombo. È la dimensione che si può apprendere della scrittura, quella che giustifica i corsi di creative writing. Non guasta a nessun autore conoscere un po’ di mestiere. I libri frutto di costruzione, quelli a tema, i libri esaustivi, opere meravigliose come Le illusioni perdute, Guerra e pace, I Buddenbrock o La guerra della fine del mondo sono immediatamente visibili a questo primo livello della letteratura.
Ci sono però cose che non si possono imparare in un corso di creative writing. Che vanno al di là del mestiere e s’indirizzano verso l’imponderabilità e l’inesplicabilità dell’arte. Dopo che i volumi, le volte e i suoi architravi sono stati costruiti da artigiani, la cattedrale della letteratura dev’essere decorata. Le nude pareti devono prender vita, occorrono affreschi e statue che diano splendore all’edificio. Non è possibile apprendere lo stile, la chimica delle combinazioni verbali, la sottigliezza degli accoppiamenti tonali. Con la grazia si nasce o non si nasce. È dentro il tuo sangue e non sai da dove arrivi. Anche se più fragili, gli scrittori-artisti sono infinitamente superiori agli scrittori-artigiani.
“La poesia non si sente né col cervello, né col cuore”, scriveva Nabokov, “ma con la spina dorsale”. Nessun autore, se non è un artista, riesce a darti il brivido nella schiena, l’orgasmo finale che è lo scopo dei degustatori raffinati. A questo livello della grande costruzione trovi i creatori di forme e miracoli estetici, trovi le Solitudini di Gongora e Salammbô e Alla ricerca del tempo perduto e Finnegans Wake e Lolita e L’arcobaleno della gravità. Se la letteratura fosse fatta di parole, come diceva Mallarmé, Nabokov sarebbe il più grande scrittore al mondo. Ma la letteratura non è fatta di parole.
I primi due livelli della letteratura, la parte del mestiere e quella dell’arte, s’intrecciano, in proporzioni diverse, nella maggior parte degli scrittori autentici, quelli che onorano la propria vocazione. C’è però un gradino della scrittura al di sopra di questi due, un gradino di un’altezza vertiginosa, invalicabile per i più. Per giungere in cima alla cattedrale della letteratura, nel suo campanile più alto, non esiste via di accesso. Devi essere nato lì.
In una pagina di Salinger, Seymour e Buddy Glass si trovano all’ufficio reclutamento. Al quesito “professione” del formulario per l’accettazione nell’esercito, Buddy segna “scrittore”. Seymour, che è il poeta e il profeta della famiglia, comincia a ridere: “Da quando scrivere è la tua professione? Io credevo che fosse la tua religione”. In questa parola risiede l’intero segreto della letteratura. La quale è più che un mestiere e molto più che un’arte. La cattedrale può essere architettonicamente perfetta e dipinta meravigliosamente, ornata di statue, intarsi e magnifiche vetrate. Ma se non è consacrata, se non vi abita un dio, se non è un santuario nulla la differenzierà dalle dimore dei ricchi, erette per vanità e orgoglio. Sarà un cenotafio in cui non è tumulato altro che il vuoto.
Nabokov ha avuto sempre parole aspre e sprezzanti nei confronti di Dostoevskij. Ha trovato nelle sue pagine disordine e goffaggini, e nella parte compositiva errori puerili. È vero, non è possibile comparare Dostoevskij con Tolstoi, come artigiano della letteratura, e nemmeno con Nabokov a livello stilistico. Ma una sola pagina di Netocika Nezvanova vale quanto tutta l’opera di Nabokov, poiché è parte del sistema di pensiero di Dostoevskij, del suo serbatoio di esperienza umana, della sua compassione per gli umiliati e gli offesi del mondo. Le sue pagine non ci producono solo un brivido nella schiena, ma fanno sì che il nostro cranio esploda in mille schegge fino a sentirci liberi dai nostri stessi demoni. La grande letteratura non consta né nell’abilità compositiva, né nella scelta tematica, né nell’arte della parola. Essa raggiunge il limite estremo dell’umanità, al di là del quale siamo circondati da un dio infinito.
Kafka è al di sopra degli scrittori della modernità proprio perché non è stato uno scrittore. Perché ha infranto tutte le regole del mestiere e dell’arte della scrittura. Perché ha vissuto l’intera sua vita come una scolta ai limiti del linguaggio, che, come ha detto Wittgenstein, sono anche i limiti del mondo. Là dove termina il dominio delle scienze, delle arti, della filosofia, della conoscenza umana, là dove la poesia e la fede iniziano ad ansimare per mancanza d’aria. Sul finire della sua vita, Kafka era diventato lui stesso uno scheletro abitato da un dio. La sua voce non poteva più essere intesa.
L’Iliade, la Divina Commedia, L’idiota, Il castello. Accanto a essi, la grande poesia del mondo, con l’apice nelle Elegie duinesi. Così la cattedrale si riempie di divinità. E la letteratura diventa, solo ora, solo alla luce abbacinante della sommità del faro, “la bellezza che salverà il mondo”.
Non scriverei nemmeno un rigo se la letteratura non fosse la mia religione. E non potrei più leggere un autore che non facesse della propria scrittura una questione più seria di quel che riguarda la vita e la morte: una questione di fede. Non ho più sufficiente tempo per questo. Ho 57 anni e sento il fresco delle prime giornate d’autunno. Ho al massimo un terzo di vita davanti a me. Cosa si può fare con un terzo di sciabola, con la terza parte di uno scudo?
… Talvolta continuano a dormicchiare anche quelli che leggono il buon Omero. Finisco il mio caffè e, dopo essere rimasto così tanto con lo sguardo assorto, vado oltre con la narrazione del Pelide Achille, che scorre sul display del mio cellulare. Non c’è alcuna hybris, Omero rimane lo stesso Omero. In alto ci sono nubi fatte di porcellana, impassibili, e qui, allungato sopra il tavolo, c’è il mio piccolo gatto che mi guarda con occhi di colore azzurro. I rami delle rose di macchia hanno splendenti spine rosse e frutti arancioni. Il vento ha uno splendore speciale in questo mattino d’autunno. Chissà da dove viene e dove va. Sparirò presto nel nulla, ma questo attimo è più eterno del nulla. “Attimo, rimani”, mi dico sorridendo, “visto che sei così bello!”
[cite]
pubblicato su il manifesto, 27 giugno 2015
tysm
philosophy and social criticism
vol. 25, issue no. 25
june 2015
ISSN: 2037-0857
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