L’editoria malgrado la crisi
Francesca Borrelli
Articolo pubblicato su il manifesto del 9 aprile 2009
Nel mondo dell’Ancien Régime successe all’editoria qualcosa di simile a quel che oggi accade nel sistema immobiliare: la prima crisi libraria, a Rivoluzione appena scoppiata, coincise in fondo con una crisi finanziaria, perché la maggior parte degli affari era condotta a credito e una parte notevole delle entrate di una impresa poteva essere costituita da cambiali commerciali, effetti all’ordine e lettere di cambio. Lo spiega Frédéric Barbier nella sua Storia del libro. Dall’antichità al XX secolo (Dedalo 2004), commentando il pericolo che era a quel tempo all’ordine del giorno. «Ebbene, non soltanto questi effetti circolano con firme di credito sulle quali non è sempre possibile avere informazioni precise, ma il fallimento di un attore abbastanza importante può far vacillare, con una reazione a catena, tutto l’equilibrio finanziario della catena.»
Sono passati più di due secoli e le minacce che oggi affliggono il mondo dell’editoria sembrano essere di tutt’altra natura. Certo è che tra i due estremi del book on demand, ossia il libro in una sola copia stampata su ordinazione e il mercato dei bestseller, ovvero i libri che superano le 30.000 copie vendute, l’industria editoriale ha conosciuto cambiamenti più forti negli ultimi quindici anni di quelli avvenuti lungo tutto il corso del XX secolo.
Radiografia del dopo Schiffrin
La fotografia della situazione al tempo stesso più avvincente, e più puntuale ce la restituì, alcuni anni fa André Schiffrin in due suoi pregevoli libri – Editoria senza editori, 2000 e Il controllo della parola, 2006 (entrambi di Bollati Boringhieri) quando si propose di seguire la parabola del libro e il suo rapido passaggio da prodotto di una attività di carattere artigianale a concentrato di profitti perseguiti da marchi editoriali via via assorbiti dai grandi gruppi internazionali. Le conseguenze più evidenti che Schiffrin denunciava erano la rinuncia a un progetto culturale, le scorciatoie nella acquisizione del prestigio realizzate saccheggiando i cataloghi altrui, l’accaparramento di autori della concorrenza a suon di anticipi, e soprattutto la rincorsa a margini di profitto tradizionalmente estranei al mondo dell’editoria: se una volta si limitavano al 4 per cento, oggi si pretendono tra il 12 e il 15 per cento. «Contrariamente a ciò che ci si vorrebbe far credere, il controllo dei media e del nostro modo di pensare da parte dei grandi gruppi non è una ineluttabile fatalità legata alla globalizzazione, bensì un processo politico al quale ci si può opporre, e con successo»: così André Schiffrin concludeva, circa quattro anni fa, il suo ultimo pamphlet.
Sul fronte dell’editoria, la battaglia è da tempo ingaggiata: ne sono protagoniste le più valide tra le piccole case editrici indipendenti (alle quali dedicheremo la prossima puntata di questa inchiesta, il 12 aprile) che cercano di competere come possono e di ritagliarsi uno spazio di visibilità, mentre non solo le grandi concentrazioni incalzano, ma monta la minaccia del ricorso alla stampa digitale, che oggi è in grado di sfornare all’incirca mille pagine al minuto. Confrontata con la sofferenza del mondo imprenditoriale, la crisi patita dalla editoria maggiore in coincidenza con la attuale recessione viene dichiarata come inesistente: i bilanci dell’anno passato saranno resi noti più o meno in coincidenza con la Fiera del libro di Torino, nel frattempo l’amministratore delegato della Mondadori, Gian Arturo Ferrari, si fa negare e declina l’invito a parlare anche il direttore editoriale della Einaudi, Ernesto Franco, probabilmente convinti – non senza ragioni – che i giornali abbiano una vocazione allarmista alla quale è opportuno non fornire esche. Eppure, la situazione complessiva è tutt’altro che tragica: lo conferma Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato della GeMs (Gruppo Mauri Spagnol), che pubblica all’incirca 900 novità all’anno (di cui 400 sono riedizioni e delle 500 opere mai apparse sul mercato italiano all’incirca 150 sono di nuovi autori).
«Nel settembre scorso la crisi nera dei mercati ha indotto a contenere le prenotazioni delle novità in libreria, eppure io guardavo il sell out su Nielsen e anche nelle settimane di calo più insistente della Borsa constatavo che le vendite delle librerie non diminuivano. Poi siamo andati alla Buchmesse di Francoforte, una fiera importante non tanto per l’acquisto dei diritti, che si fa tutto l’anno via Internet, ma per tastare il polso della produzione mondiale, e l’impressione che la crisi finanziaria non si riflettesse sul mercato dei libri è stata confermata. Certo, non circolano più gli anticipi irrazionali che hanno girato fino all’anno passato, con esordienti costati più di centomila euro: la crisi ha imposto una razionalizzazione dei costi, i librai sono più cauti nel prenotare le novità, e gli agenti tengono da parte i loro goielli, perché sanno che gli editori sono meno propensi a spendere. Dunque, tutto assume un carattere di incertezza maggiore, ma poiché noi editori lavoriamo sul medio periodo, il nostro futuro dipenderà da quel che abbiamo fatto negli anni passati, ossia – per esempio – da quella che è stata la nostra capacità di coltivare gli autori a cui teniamo».
La prudenza innanzi tutto
Dall’osservatorio di Stefano Mauri, che è tra quelli con una presa diretta sul ventaglio dell’editoria più a ampio raggio, si sono avvertiti spostamenti di gusto negli ultimi anni? «Mi sembra che dopo l’11 settembre si sia sviluppato un po’ di più l’interesse per la saggistica: viviamo in una contingenza storica connotata da violenti scossoni e repentini cambiamenti, di conseguenza i lettori sono più attenti a capire cosa sta succedendo in questo mondo globalizzato; d’altra parte, nel campo della narrativa abbiamo assistito, più o meno a partire dal 2000, a una maggior fiducia del pubblico nella nuova generazione degli autori italiani, che per parte loro sono più attenti alla dimensione dell’entertainment di quanto non lo fossero i loro padri.»
È un argomento, questo, del tutto estraneo alla Bollati Boringhieri, che l’anno passato ha fatto 112 novità e 132 ristampe, e per l’anno in corso si prepara a ridimensionare il numero dei titoli passando a 85 novità e 90 ristampe, restando fedele alla promozione del libro destinato a durare nel tempo. Soprattutto le collane scientifiche possono contare su lettori appassionati, dunque – dice Alberto Conte, membro del comitato scientifico e del consiglio di amministrazione della Bollati Boringhieri – tanto meglio se questa congiuntura porterà a eliminare qualche scoria. Quest’anno, nelle collane scientifiche faremo poche novità in meno e qualche riproposta in più dal catalogo, ma soprattutto per ragioni di contenuti, per esempio perché il succedersi dell’anniversario di Darwin e poi di Galilei ci ha consentito di riproporre qualche nostro classico.» Certo, poiché la sua strategia non è quella di inseguire il bestseller, anche per quanto riguarda gli anticipi la casa editrice torinese si è sempre comportata in modo molto parsimonioso, e dunque non è questo il capitolo al quale guardare per un eventuale contenimento dei costi: «mentre altri editori non esitano a pagare fino a venti, trentamila dollari anche per libri scientifici, noi non abbiamo mai proposto anticipi che andassero oltre i due-tremila dollari; e cerchiamo sempre di più di contenere i prezzi dei titoli.»
Diversamente morigerati, ma tradizionalmente restii a gettarsi nelle aste a sei zeri, anche gli editor della Feltrinelli confermano la loro politica «conservatrice». Fabio Muzi Falconi, responsabile della narrativa straniera ricorda, con l’orgoglio di chi riesce a fare bene con poco, che «da sempre siamo stati quelli che davano gli anticipi più bassi, fatte salve le eccezioni: per esempio per una autrice come Isabel Allende, i cui diritti vengono trattati direttamente da Carlo Feltrinelli, siamo nell’ordine delle centinaia di migliaia di euro, però bisogna considerare che ne vendiamo davvero tante copie. In genere, la nostra è una politica piuttosto realista, nella peggiore delle ipotesi ogni nostro libro, almeno per quel che riguarda la narrativa straniera, deve andare in pareggio. Quest’anno taglieremo forse due o tre titoli, quelli che si vendono meno, ma non intendiamo penalizzare libri di qualità, infatti – per esempio – continueremo a pubblicare un autore difficile come Lobo Antunes, sebbene ne vendiamo pochissime copie.»
Anche per Muzi Falconi la crisi si presenta, dunque, più come una occasione razionalizzante che come una difficoltà: «pubblichiamo tra le cento e le centoventi novità l’anno, cinquanta tra narrativa italiana e straniera, il resto di saggistica e tra giugno e settembre cambieremo distribuzione passando alla pde, dunque salteremo due o tre lanci estivi, ma per motivi che, appunto, nulla hanno che vedere con la crisi.» La storica cautela della Feltrinelli viene confermata anche dal responsabile della narrativa italiana, Alberto Rollo: «è tempo di stare con i piedi per terra e l’immaginazione viva. Abbiamo la necessità di meditare meglio e al tempo stesso di privilegiare la continuità, coltivando i nostri autori di bandiera, e cercando voci più giovani. Siamo incoraggiati dal fatto che sta tornando, anche presso gli esordienti italiani, l’attenzione alla trama, in passato spesso proiettata sullo sfondo a vantaggio della tessitura linguistica, dello stile: ci si è affrancati da quel leit motiv avanguardista per cui noi italiani non saremmo portati per il romanzo.»
La storia, anche nel campo dell’editoria, presenta i suoi ricorsi e poche sorprese: tra queste, la fortuna incontrata dal genere reportage scritto in uno stile marcatamente narrativo. È stata una delle scommesse, vincenti, di Matteo Codignola, che racconta come alla Adelphi, pur non risentendo della congiuntura critica, ci si accordi tuttavia alla pratica generale della prudenza: «facciamo 80-90 titoli tra novità e riproposte, e non ridurremmo il numero perché il tentativo di non strafare è per noi una costante: la lotta è sempre per cercare di pubblicare due libri in meno piuttosto che due in più. È vero che il genere del reportage incontra una buona risposta dei lettori ma, paradossalmente, questi che abbiamo pubblicato nella collana dei Casi sono un po’ scrittori per scrittori, la gran parte del pubblico continua a essere più interessato alla narrativa.»
Quel che cambia nella filiera
E se dovesse segnalare le novità più significative degli ultimi anni nella filiera del libro Matteo Codignola a cosa penserebbe? «Da un certo punto di vista il mutamento più importante sta nel rapporto con le librerie, che si è molto complicato: la velocità, la rotazione ossessiva dei titoli, hanno trasformato le librerie in locali di passaggio dove i libri transitano con tempi molto rapidi, e con un meccanismo che penalizza fortissimamente i piccoli editori; ma anche dalla parte di chi legge si lamenta la mancanza di tempo per orientarsi. Questa, però, è una fase di passaggio, non bisogna mai dare le cose per eterne. Per esempio negli ultimi tempi, già a partire dal salone del libro di Londra dell’anno passato e di più a Francoforte abbiamo visto, grazie al cielo, lo sgonfiamento di una bolla internazionale che scimmiottava in modo un po’ patetico la finanza d’assalto: parlo di tutta quella messa in scena determinata dalle aste selvagge, con tempi di scelta ridotti a ore per comprare libri presentati – ogni volta – come il caso del decennio. La situazione stava virando verso il grottesco puro, anche perché i libri non sono diamanti, né armi, né droga, è inutile far finta che muovano grandi quantità di denaro. Anche le cifre per gli anticipi e per la acquisizione dei diritti si sono sgonfiate, tutto è stato riportato, finalmente, a una vaga sensazione di realtà.»
Punti di riferimento internazionali
Dunque, almeno per quanto riguarda la grande editoria italiana, la crisi mondiale sembrerebbe piuttosto riscattarla da una certa arroganza degli agenti, che risultano alla fine dei conti i veri penalizzati in un mercato che non può più concedersi all’euforia. Anche Paolo Zaninoni, direttore editoriale della Rizzoli e della Bur, dice che «almeno fino alla fine di febbraio il mercato librario non ha dato segni di cedimento; ma non è detto che debba restare così per tutto il 2009, perciò navighiamo a vista. Tra Rizzoli e Bur facciamo circa 500 novità l’anno, più o meno il 30 per cento sono manuali, libri illustrati, arte e varia, il 10 per cento sono libri per ragazzi e il restante 60 è diviso in maniere paritetica tra fiction e saggistica. Quest’anno abbiamo solo un po’ modificato il rapporto tra novità rilegate e tascabili, ma dipende dal fatto che ricorre il sessantesimo anniversario della Bur.» Anche Zaninoni è d’accordo sul fatto che gli autori italiani si sono guadagnati una maggior fiducia negli ultimi anni? «Sì, e una delle ragioni principali credo stia nel distacco da un certo condizionamento della nostra tradizione letteraria, e nel fatto che i punti di riferimento sono diventati più internazionali.»
«C’è una koiné narrativa globalizzata che attinge a fonti esterne ai nostri confini. Inoltre, si è formata una lingua media priva delle scollature tra alto e basso che hanno caratterizzato gli anni passati.» Ma forse è vero che se si vuole andare a cercare quali siano i cambiamenti più recenti nella industria del libro, gli aspetti ai quali bisogna guardare sono soprattutto «i canali di distribuzione e di vendita »: ne è convinta Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale della Bompiani, per la quale «la figura del libraio che suggerisce il titolo di cui si innamora, al di là della pressione commerciale dell’editore, rischia di essere un romantico ricordo. E qualche libro, anche qualche bel libro, ne soffre. Però, il lettore forte, oggi come ieri, va a cercare le sue letture ovunque con estrema attenzione, per esempio sul web, dove ci si scambiano segnalazioni, critiche e consigli.»
Anche per Elisabetta Sgarbi, in fondo, la crisi agisce come motore di razionalizzazione: «in un clima di sfiducia nel mercato si chiede attenzione ai ricavi effettivi e il ridimensionamento delle uscite è una strada inevitabile, sebbene la Bompiani non abbia mai forzato il numero dei titoli e abbia sempre misurato il numero delle novità sull’intento di lavorare al meglio i libri pubblicati.» Anche voi avete investito di più sugli autori italiani? La Bompiani ha una tradizione di narrativa straniera che continua a essere ostinatamente coltivata, e a buon diritto; ma è anche vero che l’attenzione prestata agli autori italiani è andata crescendo negli ultimi anni, e lo si deve proprio al fatto che la nostra narrativa ha attinto nuove forze dal cuore stesso della società, che sta cambiando a ritmi vertiginosi. Molti scrittori lamentavano di non aver quasi più nulla da dire, e ora si sono come risvegliati, scoprendo un mondo imprevisto e imprevedibile che aspettava di essere raccontato.»