philosophy and social criticism

Leggere e pensare al tempo stesso. Sull’editoria indipendente

Jérôme Vidal

Ogni qualvolta si incontra un editore indipendente e si avvia con lui una discussione sul futuro dell’editoria, ci sono buone probabilità che quell’editore esordisca con un discorso simile a questo: da qualche decina di anni, il volto dell’editoria è profondamente mutato. La concentrazione editoriale, il passaggio di proprietà delle grandi casa editrici nelle mani dei grandi gruppi industriali interessati solo al massimo profitto nel minor tempo possibile, ha spinto molti editoria considerare il libro non più come uno strumento di emancipazione al servizio di uomini e idee, ma come un puro e semplice prodotto. Si dà il caso che il libro sia uno dei principali mezzi di espressione delle idee, e questo lo rende indispensabile alla buona salute democratica di un paese.

Questo processo in corso in Francia lo si ritrova parimente in altri paese, negli Stati Uniti o in Inghilterra, per esempio, dove si è giunti ad avere una «editoria senza editori». La sensazion edi fare una scelta libera e personale – acquistare questo o quel libro – diventa spesso un’illusione (si sceglie un libro perché i mezzi di comunicazione ne hanno parlato, o semplicemente perché è disponibile in libreria). In questo modo, mentre il numero dei libri pubblicati continua ad aumentare, la scelta reale del lettore diminuisce e molti attori di questa catena del libro si sono ridotti a un’economia da miseria.

Parallelamente a questi fenomeni, che inducono a una uniformizzazione dell’offerta e sono resi possibili dalla illusione coi media e il controllo della diffusione, parallelamente a questi fenomeni da alcuni anni si constata l’emergere di un’editoria “altra” – che la si chiami piccola o indipendente poco importa – animata da «editori resistenti» che costituisce un mercato parallelo che assume forme molteplici, ma si caratterizza per una grande vitalità e la priorità data all’elemento creativo.

Questo discorso, nella sua dimensione descrittiva, per l’essenziale, è difficilmente discutibile: per riprendere un’espressione che Janine et Greg Brémond usano nel loro L’Édition sous influence (Liris, 2002), si osserva il costituirsi nell’editoria e nei media di « oligopolio reticolare » determinato non da una logica della redditività, ma da una logica del profitto a breve termine che determina la crescita numerica di una produzione di libri impoveriti, favorendo una connivenza fra la critica giornalistica e gli editori. Un processo simile si può osservare anche nell’editoria anglo-americana, dove le conseguenze sono state spinte ai limiti. Di queste conseguenze e dell’evoluzione di questo processo, Janine e Greg Brémond, mais anche André Schiffrin (Editoria senza editori e Il controllo della parola, entrambi da Bollati-Boringhieri) offrono un quadro esauriente. Si tratta di comprendere la portata del fenomeno, allertare l’opinione pubblica (i politici, gli intellettuali e i ricercatori in particolare, visto che quando se ne accorgono, sembrano non valutare comunque a dovere le conseguenze drammatiche che potrebbero a lungo termine derivare dagli sviluppi di questo fenomeno per la vita intellettuale e la cultura democratica) e lavorare in comune alla difesa e allo sviluppo dell’edizione indipendente.

Da questo punto di vista, non si possono che sottoscrivere certe proposte avanzate dagli autori già citati o dall’associazione “L’autre livre” nel volume Pour l’édition indépendante (2005): stretta delimitazione, per legge, della concentrazione, non solo sul piano del mercato strettamente editoriale, ma anche per quanto attiene diffusione e distribuzione; rafforzamento dei dispositivi di legge che limitano le concentrazioni di potere nei media; creazione di uno specifico statuto di casa editrice a scopo non lucrativo; ridefinizione dell’aiuto pubblico, che oggigiorno favorisce particolarmente le grandi case editrici; finanziamento pubblico di fondazioni destinate a favorire la creazione di media indipendenti e a favorire l’indipendenza di alcune imprese editoriali e di diffusione, o di certi media; sottomissione delle opere di “dominio pubblico” a un diritto d’autore dell’1% destinato ad alimentare un fondo comune per il sostegno a editori e librai indipendenti; alleggerire i carichi fiscali delle librerie indipendenti e messa in opere di dispositivi che permettano di preservare l’indipendenza e l’esistenza delle librerie dalla pressione esercitata dalla grande distribuzione; creazione di tariffe postali preferenziali per librerie e editori. Potremmo inoltre proporre una più equa ripartizione di guadagni fra editori, distributori, promotori e librai. E ancora: mettere in moto una vera e propria politica del libro e della lettura nel campo dell’istruzione secondaria e universitaria, una politica che si oppone all’uso esclusivo del manuale come supporto per l’insegnamento. La cosa massimamente importante è che gli editori indipendenti, e tutti coloro che sono preoccupati per il destini del libro, si associno e si dotino dei mezzi per informare il pubblico sulle minacce che gravano sull’editoria al fine di spingere le organizzazioni politiche, almeno quelle più sensibili e suscettibili di farlo, a mettere in opera simili disposizioni.

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Se il futuro dell’editoria, riguardo alle possibili derive già evocate, può apparire particolarmente nero anche in ragione dei gravi problemi di diffusione con i quali gli editori indipendenti si confrontano di giorno in giorno, è parimenti importante cogliere le opportunità che in una situazione come questa si aprono per la piccola editoria. Oggigiorno, creare una casa editrice richiede competenze e mezzi relativamente accessibili: sul piano materiale e finanziario, quattro o cinque mila euro, un computer, qualche programma, molto tempo e qualche buona “dritta” bastano per il debutto. Restano da trovare un promotore soddisfacente che intrattenga rapporti con un certo numero di librerie, fatto che non è certo da poco; un progetto editoriale serio e ambizioso che abbia qualche chance di convincere un distributore affidabile e indipendente come Les Belles Lettres. In queste condizioni un “piccolo” editore dotato di una certa professionalità potrà offrire ai propri autori quanto meno trattandosi di libri di scienze sociali e di saggi critici – che non raggiungono mai tirature elevate – una diffusione, ma anche una certa visibilità mediatica, quanto meno equivalente a quella che potrebbero offrirgli le grandi case. Il lavoro editoriale e la cura dei libri (anche dopo la loro pubblicazione) che potrà offrirgli un editore indipendente avranno inoltre il vantaggio di essere più serie e affidabili. Comparativamente, il solo beneficio che potrà trarne un autore pubblicato una grande casa editrice appartenente all’oligopolio è di natura simbolica, ossia attaccata ai nomi delle case editrici stesse che spesso hanno politiche editoriali – e politiche di traduzione – più ambiziose. Ma questo beneficio scomparirà a poco a poco se queste case editrici si terranno ferme alla logica della massimalizzazione dei profitti a breve termine.

Gli autori che non possono sperare di ottenere i mirabolanti proventi offerti talvolta dalle case oligopolistiche (proventi che spesso penano per “recuperare”) avranno tutto l’interesse a lavorare con piccole o medie strutture editoriali indipendente, scrupolose e piene di cura nel loro lavoro, capaci di misurarne i pro e i contro e assicurare in buone condizioni la circolazione, senza pretendere che sia “formattato”, trasformato in manuale, ridotto e eventualmente privato del suo apparato critico. Questi autori potranno d’altronde avvantaggiarsi del prestigio che certuni fra loro lentamente, ma durevolmente, accumulano. Del resto, essere pubblicati da un editore “critico” può essere già in sé una fonte di rendita simbolica e, in più, rappresentare una decisa scelta politica.

L’esempio di una casa editrice come Agone è, da questo punto di vista, significativo: molte personalità del mondo universitario hanno scelto di lavorare in maniera privilegiata con questo editore. Per il futuro dell’editoria, per il futuro della ricerca, editori indipendente e ricercatori hanno tutto l’interesse a legarsi in un’alleanza stabile. C’è da auspicare che numerosi autori si mostrino preoccupati per la tenuta a lungo termine di condizioni favorevoli allo sviluppo e alla diffusione della ricerca e del pensiero critico, e sceglieranno di non assecondare più

le majors favorendo lo sviluppo di uno spazio editoriale indipendente, esigente e legittimo. Rischi e minacce che gravano, da una parte, sull’editoria indipendente e, dall’altra, sulla ricerca dovrebbero condurre editori e ricercatori a costituire assieme nuovi luoghi di elaborazione, inscrizione e visibilità del pensiero critico e vivo. Il fatto è che le majors sembrano avere iniziato a segare il ramo sul quale sono sedute. La prova sarebbe nel fatto che, ricordato da André Schiffrin, i riscontri economici degli investimenti decisi dai nuovi baroni dell’editoria tardano ad arrivare. Le stime sull’eventualità di successo di un libro comportano un tale margine di incertezza che colui che predente di derminarle a colpo sicuro si espone a un rischio molto forte. Certamente, è possibile “creare” bestsellers, ma il loro numero, per definizione, non può che essere limitato. La sola scappatoria per le majors è – rinunciando alla funzione di selezione che normalmente definisce il lavoro dell’editore – inondare il mercato con libri mediocri a bassa o media tiratura, malgrado i limiti evidenti di tale strategia.

In questo modo, la logica economica delle majors tende non solo all’impoverimento della produzione editoriale, ma non permette di raggiungere la redditività sognata dai nuovi mentori del profitto che, al giorno d’oggi, popolano gli uffici delle case editrici, case editrici un tempo rette da altre logiche: non si contano gli esempi di « granchi» prese dagli editori persuasi di poter “fare” il successo di un libro o, ancora, di libri rifiutata da molti grandi editori in ragione del loro preteso carattere di “invendibilità” che poi altri hanno venduto in modo considerevole, spesso molto considerevole. Il fatto è che i signori dell’editoria rapidamente convertitisi alla ricerca del massimo profitto hanno la tendenza a proiettare sui lettori la loro insufficienza. Diventa allora probabile che le majors non raggiungeranno facilmente l’obiettivo sperato di sovvertire la logica alla quale hanno ceduto: molti editori di talento che lavoravano per esse sono stati ringraziati e congedati, di colpo in bianco. La combinazione formata dalla ristrettezza intellettuale di molti degli “editori” che sono stati chiamati a sostituirli e la cultura del profitto a breve termini che oramai le contraddistingue non potrà essere facilmente sradicata. Non è sicuro, però, che la politica di predazione sviluppata da certe case editrici (acquisto di interi cataloghi e licenziamento degli autori) possa compensare per molto gli effetti indesiderati prodotti dalla ricerca del massimo profitto. Uno spazio ogni giorno sempre più largo si sta liberando per l’editoria indipendente: spazio, questo è vero, disseminato di insidie, ma pur sempre uno spazio.