L’eterno ritorno della crisi
di Christian Marazzi
In questi giorni sui due maggiori giornali economico-finanziari, l’Economist e ilFinancial Times, sono apparsi articoli su quello che gli economisti chiamano losquilibrio fondamentale, quella situazione in cui alcuni paesi importano eccessivamente mentre altri esportano anch’essi eccessivamente, utilizzando però i ricavi di queste esportazioni non per investire al loro interno, bensì per finanziare i deficit e i debiti dei paesi importatori. E’ precisamente questo squilibrio fondamentale che, a partire dagli anni ’80, ha portato gli Stati Uniti a gonfiare l’indebitamento pubblico e, soprattutto, quello privato attraverso quella ingegneria finanziaria ipertossica che, nel 2008, ha fatto esplodere la bolla dei subprime, innescando una crisi globale senza precedenti. Uno squilibrio simile lo si è avuto in Europa con i surplus della bilancia commerciale tedesca e con l’indebitamento pubblico e privato delle economie cosiddette periferiche, uno squilibrio anch’esso fondamentale che ha portato alla crisi dei debiti sovrani e a tutto quello che ne è seguito, ossia le tristi misure d’austerità che non hanno fatto altro che aumentare i debiti pubblici.
Sembrava che nel corso di questi anni di crisi lo squilibrio si fosse attenuato, come dimostrato dalla riduzione del deficit commerciale americano. E invece le cose stanno altrimenti, con l’Europa che ha un surplus commerciale trainato dalle esportazioni soprattutto tedesche (verso gli USA, ma anche verso la Cina e la Russia), e una Cina che, seppur in perdita di velocità, continua comunque ad esportare più di quanto importa, ma soprattutto con questi paesi che, invece di investire al loro interno, continuano a preferire gli investimenti speculativi dei loro risparmi all’estero.
Insomma, ci risiamo con lo squilibrio fondamentale destinato a rafforzarsi a causa di politiche monetarie divergenti da una parte e dall’altra dell’Atlantico, con gli Stati Uniti proiettati verso l’aumento dei tassi di interesse (e quindi un rafforzamento del dollaro) e l’Europa avviata verso politiche di espansione della liquidità (e quindi un indebolimento dell’Euro).
Questa volta, secondo l’Economist, si possono prevedere due pericoli. Uno a breve termine, con la diminuzione delle esportazioni americane a causa sia del dollaro rivalutato e della scarsa domanda dei paesi importatori (come l’Europa e la stessa Cina), sia della riduzione degli investimenti interni, specie nel settore energetico (a causa del basso prezzo del petrolio). La ripresa statunitense rischia insomma di durare poco. L’altro pericolo, ma a medio termine, è una ripresa dell’indebitamento delle economie domestiche americane che, certo, è diminuito nel corso della crisi, ma sta già aumentando, specie nel settore immobiliare.
È l’eterno ritorno della crisi a causa dell’eterna resistenza all’aumento dell’occupazione e dei salari, privilegiando i rendimenti finanziari.
[cite]
tysm literary review
vol. 18, issue no. 21
february 2015
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