Lo sguardo di Narciso
di Raffaele K. Salinari
«Una immagine può essere accolta, si può entrare in un’immagine, quando non si è distolti da niente, quando si percepisce un’empatia con quella immagine» dice Andrej Tarkovskij.
Quella di Narciso sembra oramai solo l’Immagine di colui che si innamorò della propria immagine, l’emblema di una patologia che deriva dal suo stesso nome. Eppure, se proviamo a scomporre questa Immagine nell’intreccio delle singole storie che ne compongono il mito, ad accoglierla nella sua complessità, capiamo come la psicoanalisi ne abbia perlomeno limitato il significato: escludendo dall’interpretazione la sua stessa genesi l’ha ricondotta ad un aspetto particolare della psiche umana che non ne esaurisce certo la ricchezza simbolica.
Al contrario, se seguiamo lo sguardo di Narciso verso i suoi antecedenti fondativi, se lo espandiamo sino ai confini originari, quella metamorfosi può donarci la sua magica essenza: stagliare di fronte a noi il punto di fuga di una prospettiva mitologica che ci permette di osservare la relazione degli elementi naturali con se stessi e con il potere distruttivo degli uomini.
«Nel simbolismo dei miti», dice H. Zimmer nel suo Miti e simboli dell’India «immergersi nell’acqua significa addentrarsi nel mistero della māyā, andare alla ricerca del segreto ultimo della vita. Quando Nārada, il discepolo umano, chiese che gli fosse insegnato questo segreto, Vishnù non svelò la risposta con alcuna formulazione o espressione verbale. Si limitò invece ad indicare l’acqua come elemento iniziatico».
E infatti, cosa incontra il tuffatore se non il suo Doppelganger divino? Gaston Bachelard si chiede se gli uomini avrebbero forse inventato gli specchi se la superficie di un’acqua tranquilla non avesse reso così fedelmente la loro figura.
Il «narcisismo»
«Il termine narcisismo deriva dalla terminologia clinica e fu adottato da Paul Näcke nel 1899 per descrivere l’atteggiamento di chi tratta il proprio corpo allo stesso modo con cui viene di solito trattato il corpo di un oggetto sessuale, per cui se lo contempla, se lo liscia, se lo accarezza, finché queste manovre non gli procurano un soddisfacimento completo. Spinto sino a questo grado, il narcisismo viene ad assumere il significato di una perversione che ha assorbito tutta la vita sessuale del soggetto, e che presenterà dunque quei caratteri che si rinvengono nello studio delle perversioni in generale».
Così, nel suo saggio del 1915 Sul narcisismo, Sigmund Freud introduce la psicosi narcisistica. Secondo il padre della psicanalisi il paziente narcisista perde ogni interesse verso il mondo esterno – gli altri «oggetti del desiderio» come li definisce Freud – rivolgendo verso sé stesso la propria «corrente libidica». Com’è noto, Freud individua anche un narcisismo «fisiologico» nel comportamento del bambino nella fase in cui assume se stesso a centro del mondo.
Il «narcisismo» sarebbe dunque una psicosi. La distinzione tra nevrosi e psicosi è fondamentale anche nella prospettiva di una rilettura del mito, e consiste nel fatto che, mentre nei fenomeni psicotici il soggetto è totalmente immerso nella propria patologia, in altre parole non può fronteggiare i suoi drammi gestendoli a livello simbolico (S. Lebovici), nella nevrosi si.
Lo stigma narcisistico è appena attenuato nella psicologia analitica di Jung per il quale Narciso rappresenta una ipostasi del Puer Aeternus, l’eterno fanciullo che vive in un mondo perfetto, un Eden sempre uguale a se stesso. Si tratta di un archetipo che nasce – come quello di Narciso – dalle Metamorfosi di Ovidio, quando, parlando di Dioniso dice: «Tibi enim inconsumpta iuventa est, tu puer aeternus» la tua giovinezza è infatti intramontabile, tu eterno fanciullo (IV-17). Questa condizione, non propriamente ordinaria, pone il soggetto in questione sul crinale tra una forma patologica di infantilismo e/o l’espressione di una saggezza profonda, data dalla realizzazione di un Sé potente e creativo.
Peter Pan, ad esempio, è la rappresentazione totale di questa figura; la sua relazione con Trilly, l’entità alata dall’auratica carica erotica, delinea magistralmente anche il senso nascosto delle pulsioni sessuali di questa figura sempre in precario equilibrio tra Eros e Thanatos, e delle sue ombre: «Morire sarà un’avventura grandissima» dice ad un certo punto nell’originale della commedia di J. Barrie in cui, non a caso, nessuno tocca mai il corpo di Peter per sua esplicita richiesta.
Ma, per quanto Jung, Hillman ma soprattutto Marie-Louise von Franz nei suoi studi sul Sé narcisistico nelle fiabe, abbiano valorizzato i tratti di questa figura della psiche attribuendogli un alto grado di creatività, spontaneità, curiosità e anticonformismo, essa resta pur sempre nell’ambito del patologico o, perlomeno, del precario equilibrio tra responsabilità e disimpegno. In sintesi, anche per la psicologia del profondo il «narcisismo» è positivo solo nella misura in cui si accompagna alla necessità di avviarsi verso il superamento dei limiti angusti di quello che altrimenti resta un atteggiamento infantile e, alla lunga, assai poco relazionale.
Il «narcisismo» è dunque una psicosi che trae origini dal mito di Narciso, descritto da Ovidio nel libro III delle sue Metamorfosi. Eppure, se seguiamo la genesi e l’evoluzione del racconto, troviamo che la relazione tra la storia di Narciso e la relativa patologia psichica è in realtà abbastanza riduttiva dato che, come vedremo, lascia fuori una serie di rimandi simbolici forse più profondi di quelli che le varie scuole psicanalitiche hanno oramai incardinato nella vicenda del bel ragazzo.
La Ninfa
E allora, vediamo cosa ci narra precisamente il mito, o meglio di chi narra il mito, quali sono le sue determinanti simboliche originarie. Il dato più importante che riguarda Narciso è quello della sua origine acquatica; egli, infatti, non ha nulla di umano essendo il figlio della ninfa Liriope, letteralmente «dagli occhi sfacciati», e del dio del fiume Cefisio, situato in Beozia. Il dio del fiume, così narra Ovidio, aveva stretto nella corrente delle sue curve possenti la ninfa e l’aveva così violentata. Si sa che le divinità non si possono innamorare, nemmeno tra di loro, tuttalpiù si invaghiscono e, se respinti, violentano; figuriamoci l’amore tra un dio ed una ninfa. Zeus, signore del panteon ellenico, ha due sole epifanie erotiche: il ratto e lo stupro. Ritenute una via di mezzo tra divino ed umano, dato che con i mortali esse avevano frequentazioni regolari e relativi amori, questi esseri elementari che sono le ninfe simboleggiano gli elementi fondamentali nella loro collocazione naturale. Precedono sia gli uomini che gli dei e spesso, se non sempre, vengono da questi spodestate affinché il loro luogo sacro, dedicato cioè ad una forma incontaminata della natura, divenga il santuario di una divinità.
«Il primo essere cui Apollo parlò sulla terra fu una ninfa», ci ricorda Calasso nel suo La follia che viene dalle Ninfe. Si chiamava Telfusa e subito ingannò il dio che cercava, in quel tempo prima del tempo, il luogo per fondare il suo culto. L’inno omerico ci dice che ne rifiutò molti poiché cercava un «luogo intatto» (chōros apémōn). E quel luogo gli parlò: la ninfa era quel luogo. Apémōn, ci ricorda Calasso, significa «intatto» perché non ha subito le calamità che vengono dagli uomini e dai loro dei. Ma, giustamente, Telfusa vide l’arrivo di Apollo come una calamità, e cercò di dissuaderlo, riuscendoci.
Il dio arriva così a Delfi dove uccide un essere femminile, una pitonessa che proteggeva un’altra «fonte dalle belle acque», e vi fonda il suo oracolo. Poi torna da Telfusa e ne distrugge la fonte usurpandone il nome, mettendovi al suo posto un altare dedicato ad Apollo Telfuso. L’inno omerico ci dice dunque di due fonti entrambe protette da una ninfa – anche la pitonessa lo era – entrambe profanate dal dio per strappare loro l’essenza oracolare del luogo e sottometterla. Conclude giustamente Calasso notando che Apollo è il primo usurpatore di un sapere che non gli appartiene, un sapere fluido, liquido, metamorfico, al quale «il dio imporrà il suo metro».
Ma gli dei dell’antica Grecia non sono forse ipostasi dei nostri stessi aspetti psichici? Noi siamo sempre noi, attraverso gli dei che abbiamo creato, a violentare ancora ed ancora un’altra «fonte dalle belle acque»? E poi, è possibile, se non distruggendola, imporre un metro al fluire dell’acqua, che simboleggia il fluire delle cose, del tempo, della vita stessa? Platone, consapevole che la filosofia è già una sconfitta della saggezza, nel Fedro (265 A), dirà che «la saggezza viene dalle ninfe», ma sarà una saggezza oramai perduta dagli uomini, tutta da riconquistare a caro prezzo, la follia appunto, come quella di Humbert Humbert per la sua Lolita. Solo la follia amorosa, dunque, potrà riconciliare l’umanità col suo destino: la follia che viene dall’amore per le ninfe è null’altro che l’estasi che si prova nella comunione con l’anima mundi.
Paracelso dedica loro un’opera intera, il Liber de Nynphis: spiega «perché Dio ha creato questi esseri». Anche qui, in primo piano, c’è la funzione di difesa, «infatti Dio ha dato dei custodi alla natura, a tutte le cose, e non lascia nulla di incustodito». E dunque ogni luogo naturale ha il suo genius loci: una ninfa può così proteggere le acque, le selve, i monti, le sorgenti e via enumerando.
Ma anche per Paracelso le ninfe appartengono a quel ramo esoterico che le designa come oggetto per eccellenza della passione amorosa umana. L’alchimista medioevale le definisce come spiriti elementari che non hanno anima «e non sono quindi né uomini né animali (in quanto posseggono ragione e linguaggio), e nemmeno propriamente spiriti (in quanto hanno un corpo)». Tuttavia, le ninfe possono ricevere un’anima unendosi con un uomo e generando un figlio. Esse sono dunque una sorta di imago dell’uomo; ma come l’uomo è una immagine di Dio e Dio è una immagine dell’uomo, anche l’uomo è a sua volta imago della ninfa. Questo significa che la ninfa ci corrisponde, che esiste una certa simpateia naturale tra noi ed il mondo simboleggiato e protetto dalle ninfe.
Per questo l’autore della Signatura Rerum dice anche che ogni ninfa a guardia di un luogo naturale vivrà sino a quando l’elemento protetto esiterà: se una fonte cessa di esistere per l’avidità degli uomini che la distruggono, anche la ninfa morirà. E dunque, essendo la ninfa un riflesso dell’umano, una sorta di sua emanazione in contatto con gli elementi naturali, quando muore una fonte è anche una parte di noi che muore. Ed infine Paracelso ci dice come queste due caratteristiche, la funzione guardiana e quella erotica, siano in realtà aspetti complementari di un patto tra umanità e natura che non deve essere tradito, pena la vendetta terribile di questi spiriti elementari sull’arroganza di chi ha osato tanto.
La storia del tradimento di un patto tra una ninfa ed un umano che aveva ricevuto da lei conoscenza e potere la troviamo narrata nella leggenda medioevale di Melusina, essere sirenico, donna-pesce con due code – oggi ridotta a logo di una nota catena di caffè – che scompare dopo che l’amante non ha rispettato l’impegno di non osservarla in una notte particolare. Anche qui, una conoscenza arcana, femminile, metamorfica come tutte le saggezze iniziatiche – ogni metamorfosi è un’acquisizione di conoscenza – si occulta alla vista dell’uomo rozzo che non riesce a trattenersi dal violare il limiti imposti dalle forze primordiali.
Secoli dopo, Aby Warburg porrà la figura della Ninfa, qui con la lettera maiuscola, in particolare di quella dipinta dal Ghirlandaio nella cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella a Firenze, come immagine delle Pathosformeln. Questo studioso di storia dell’arte, che si definiva «Ebreo di sangue, amburghese di cuore, fiorentino di anima» arriva, mediante un’originale ricerca sul significato archetipico di alcuni stilemi posturali, ad individuare il particolare potere di figure che, facendo un allusivo riferimento a questi, ne ricreano e tramandano il pathos originario.
Attraverso il suo progetto Mnemosyne, un atlante di immagini che doveva in qualche modo disegnare il percorso di questa forma originaria di pathos attraverso la sua evoluzione figurativa nelle varie epoche, tracciare cioè ciò che dell’archetipo permane pur nella necessaria trasformazione degli stili, tra immagine riprodotta – le varie immagini delle ninfe proposte nell’atlante – ed il «fenomeno originario» Ninfa, cioè l’archetipo della sensualità misteriosa e naturale, egli crea visivamente il campo di una continuità emozionale.
Ninfa diventa allora una Pathosformeln, cioè una immagine «formula di pathos», catalizzatrice di senso, trasportatrice, attraverso il tempo ed i tempi, sempre dello stesso contenuto originario – il suo Ur – seppur rappresentato da gesti e figurazioni analoghe. E cos’è questo Ur se non l’espressione della «trama [armonia] nascosta» che Eraclito dice «più forte di ogni legame manifesto», o dell’ousía platonica, l’essenza universale che si esprime ed esprime tutte le cose? Ninfa ha dunque il potere di affascinarci in transito, come la ragazza di Ipanema, come il passo legato dalla catenella d’oro di Salambò, e dunque ispirarci, attraverso il continuum delle sue mutevoli forme, quel Cognoscere est coire cum suo cognobili (Conoscere è far l’amore con il proprio conoscibile) di cui ci dice il neoplatonico Patrizzi.
«Ninfa, Aura, Gradiva, dove vanno le ninfe di quel sottile pantheon (pantheon della memoria e del tempo, del vento e del panneggio, del lutto e del desiderio)? Qual è lo scopo del loro passo danzante? Dove si fisserà la loro grazia fondamentale? Non ha senso porsi queste domande. Ninfa non va mai da ‘qualche parte’. Appare sempre nel presente dello sguardo e questa apparizione svela un eterno ritorno. Non ha senso nemmeno chiedersi dove Ninfa inizi la sua corsa, né dove finirà. Per Warburg, Ninfa designa l’eroina impersonale del Nachleben, la ‘sopravvivenza’ di quelle paradossali cose del tempo, appena esistenti e tuttavia indistruttibili, che vengono a noi da lontano». Così dice Didi-Huberman nel suo Ninfa moderna.
Se è vero che Warburg, prima di Benjamin, chiede alla storia delle immagini di assumersi il «compito di interpretare i sogni» (die Aufgabe der Traumdeutung) allora, forse, Ninfa è una figura che può aiutarci a vedere nel mito di Narciso un nesso che va ben oltre una storia di patologia, qualcosa che simboleggia una sorta di tramite, di unione, tra il nostro mondo e quello delle entità che, come intuisce Paracelso, sono il simbolo della nostra relazione con gli elementi naturali, in questo caso l’acqua.
Tiresia
Tiresia, il vecchio Tiresia, che aveva vissuto e vissuto la vita come uomo e come donna, condannato da Era alla cecità per aver rivelato il segreto del godimento sessuale della donna «di nove volte superiore a quello dell’uomo», e beneficiato da Zeus con il dono della chiaroveggenza e di una lunga esistenza – un dio non può infatti disfare ciò che un altro dio ha fatto – era anch’egli figlio di una ninfa: Cariclo, che si era congiunta con un mortale Evereo, della stirpe degli sparti, per ricevere un’anima e dare al mondo un indovino.
Il primo responso oracolare che Tiresia elargisce è proprio a Liriope, la madre di Narciso, come narra Ovidio nel libro III delle Metamorfosi. La ninfa chiede esplicitamente all’indovino «se suo figlio sarebbe giunto a vedere una lunga e tarda vecchiaia»; Tiresia le risponde con un sibillino «Se non arriverà a conoscere se stesso», apparente capovolgimento del motto delfico, di quel «Conosci te stesso» scolpito sull’architrave del tempio. E dunque il destino di Narciso è già segnato: non potrà che riconoscere la sua vera natura, l’essenza che lo anima, come sostiene Plotino nelle Enneadi, in cui il precetto delfico segna il percorso evolutivo e mistico diretto al congiungimento con la propria anima.
Tiresia sapeva bene di cosa parlava: egli stesso, figlio di una ninfa, per via di questa ascendenza metamorfica ebbe la sorte di vivere sette anni da donna. Gli era accaduto separando due serpenti che copulavano: vedendoli aveva ucciso la femmina ed in questa si era trasformato. Ciò non sarebbe stato possibile se egli non fosse stato di stirpe ninfale, dotato, da parte di madre, di quella possibilità di rigenerarsi, come fa il serpente.
E dunque Tiresia conosce il segreto della trasformazione e, soprattutto, della forza che la muove: il desiderio erotico; per questo avverte Liriope del pericolo che corre Narciso: egli vivrà a lungo se non si ricongiungerà con la propria essenza, cioè se non entrerà in quella fase maniacale che non può, per sua natura, mantenere inalterata la soggettività di un singolo. Ma non è forse proprio la mania amorosa il dono consegnato agli uomini dalle ninfe? La possibilità, come ci ricorda Platone, di accedere alla saggezza? Tenere finalmente il corpo stretto alla sua anima? Quando Narciso si innamorerà conoscerà se stesso: questa mania erotica gli viene dalla madre e non potrà essere elusa. Ancora una volta il nesso eros conoscenza dà vita ad un responso oracolare: Tiresia dice alla madre la verità insita nella natura stessa del figlio.
Eco e Narciso
Quando ci si immerge non si pensa ad altro, si è tutt’uno con ciò che ha suggerito il gesto. Immergersi è sempre la potente metafora che trasporta verso ciò che si cerca o rifugge; che riconduce a ciò da cui si proviene e, necessariamente, essenzialmente, si deve tornare: «La goccia di rugiada scivola nel mare», dice Rūmi. E Shams-i-Tabrīz: «Entra nell’oceano, sì che la tua goccia divenga un mare»; gli fa ancora eco Rūmi: «Quando il mio cuore vide il Mare dell’Amore, d’improvviso mi lasciò e vi si tuffò». Nel caso di Narciso è l’acqua che chiama a sé l’acqua; per Eco aria che chiama aria.
Il mito ci dice come il bel giovane, che aveva ereditato dalla madre gli «occhi sfacciati», un giorno era a caccia nei boschi. Qui lo vide la ninfa Eco che subito si accese d’amore per lui. Non ne conosceva l’intima natura ma qualcosa di antico l’attraeva verso quell’adolescente che ancora non aveva conosciuto né donna né uomo. Furtivamente lo seguì nei boschi, desiderosa di rivolgergli la parola ma incapace di parlare per prima perché costretta a ripetere sempre le ultime parole di ciò che veniva detto: era infatti stata punita da Era perché la distraeva con dei lunghi racconti mentre le altre ninfe, amanti di Zeus, correvano a nascondersi.
Alla fine Eco si mostrò e corse ad abbracciare Narciso che, però, la allontanò immediatamente ed in malo modo. Eco trascorse il resto della sua vita in valli solitarie, consumandosi finché di lei rimase solo la voce, la sua intima essenza, la sua psiché. L’incontro con Narciso era stato il catalizzatore, la pietra filosofale che l’aveva trasformata finalmente in ciò che realmente era. Abbandonato definitivamente il corpo Eco vagava libera per il mondo ritrovandosi in ogni voce umana ripetuta in ogni luogo, per sempre.
E così, mentre Narciso è solo nel bosco, si imbatte «in una fonte senza un filo di fango, dalle acque argentate e trasparenti, a cui mai se erano accostati pastori, che mai era stata agitata da un uccello o da un ramo caduto», così ci dice Ovidio: la fonte perfetta, incontaminata, come quella ricercata da Apollo per il suo oracolo, presso cui egli si accosta per bere. Queste sono dunque le stesse acque della creazione, le acque da cui Narciso è stato generato. Non appena vede, per la prima volta nella vita, la sua figura riflessa, si innamora perdutamente del giovane che stava fissando.
Solo dopo qualche istante capisce che la figura è lui stesso e, comprendendo che solo in un modo avrebbe potuto ottenere quell’amore, si getta nell’acqua: si compie così la profezia di Tiresia. Si narra che Narciso, quando attraversò lo Stige, si affacciò sulle acque del fiume, volendo ancora vedere il suo amato riflesso.
È chiaro che il destino del rispecchiamento acquoreo che lo trascina nella pozza è un ritorno alla sua stessa essenza: l’acqua perfetta della pozza, simbolo di tutte le virtualità, mesmerizza l’acqua di cui è fatto il bel giovane figlio di ninfa e di fiume: lo attrae fatalmente a sé, al Sé.
Prima di tornare a se stesso dunque, Narciso si guarda più volte con gli occhi «sfacciati» che ha ereditato da sua madre, si ri-guarda: cerca il contatto visivo con il suo Doppio mettendo in essere la caratteristica acquorea di quello sguardo. C’è da chiedersi se il bel ragazzo si sarebbe visto senza quegli occhi ma, senza dubbio, il suo atteggiamento non è cero di tipo psicotico.
È evidente che il mito, nella sua tragicità e soprattutto nei suoi simbolismi, apre la porta ad una suggestione sullo «sguardo acquoreo» che ci ri-guarda tutti, come fa ogni mito nella sua universalità. In altre parole: dobbiamo forse acquisire tutti quanti lo sguardo «sfacciato» che Narciso ha ereditato dalla sua fascinosa madre per poter riabbracciare la nostra sostanza acquorea: per farci chiamare dall’acqua che è fuori di noi e riguardarla, rispettarla, come parte di noi? «Pourtant l’émotion que lui donne la découverte de soi, c’est l’émotion que lui donne la découverte de l’absolu auquel il participe», dice Louis Lavelle, forse il più importante filosofo metafisico del XX secolo, nel suo bellissimo L’erreur de Narcisse.
Narciso non si innamora dunque della sua immagine, o non semplicemente almeno, ma della sua stessa materia riflessa nella fonte; in altre parole egli dispiega la sua immaginazione materiale, si sogna cioè tutt’uno con la materia: «E ancora più profondo è il significato della storia di Narciso, che non potendo afferrare la figura dolce e tormentosa che vedeva nella fonte, vi cadde dentro e annegò. Ma quella stessa immagine noi la vediamo in tutti i fiumi e negli oceani. È l’inafferrabile fantasma della vita, ed è questa la chiave di tutto». Così dice Ismaele, la voce narrante di Moby Dick. E «l’inafferrabile fantasma della vita» che, attraversando tutto, cancella le tracce superficiali dei passaggi e dei drammi, lo troveremo evocato nell’ultimo tuffo del capitano Achab, alla fine della sua caccia alla Balena, ricongiunto col suo avversario che è, anche qui, il suo Doppio animale. Il capitano maledetto e la balena bianca appartengono allo stesso Totem, sognano lo stesso sogno.
D’altra parte non è necessario essere Narciso, e tantomeno essere narcisisti, per vivere questa fascinazione del ritorno all’elemento primordiale: dopo aver immerso le mani e umettato le labbra in un bacino incontrato in sogno, Novalis viene preso da un «desiderio irrefrenabile di bagnarsi». Nessuna visione lo invita. È la sostanza stessa che egli ha toccato con le mani e con le labbra che lo chiama a sé. Lo chiama materialmente; in virtù, così sembra, di una fascinazione magica. Il sognatore si spoglia e si immerge nel bacino. Solo allora giungono le immagini, escono dalla materia, nascono come da un germe, da una realtà sensuale primitiva, da un’ebbrezza che non sa ancora come proiettare se stessa.
Come quella di Novalis, la sensibilità di Narciso non è comune, è irenica; ed è per questo che la trasposizione in chiave psicotica del mito non ne dispiega tutta la potenza Immaginale ma, soprattutto, non ci serve per «diventare Narciso»: assumere la capacità di «materializzare-maternizzare» l’acqua che è in noi e farne un riflesso del nostro rapporto con la sostanza-Madre. «Le vostre sorgenti non sono affatto sorgenti. L’elemento stesso! La materia prima! È la madre dico, di cui ho bisogno!» esclama Claudel nelle Grandi Odi. E dunque, se leggiamo il mito da questo punto di vista, forse potremmo parlare più di una metafora del ricongiungimento con i «Beni Comuni» – non un bene in comune ma ciò che col quel bene abbiamo in comune – che di «narcisismo».
Come nota giustamente Bachelard, se Narciso fosse stato «solo un narcisista», si sarebbe innamorato della sua figura riflessa in uno specchio. Lo dice bene questo verso di Mallarmé: «Oh specchio, fredda acqua della noia nel tuo riquadro gelato…». Nell’introduzione a L’erreur de Narcisse, Louis Lavelle sottolinea la naturale profondità del riflesso acquatico, il senso di infinito del sogno che tale riflesso suggerisce: «Se ci si immagina Narciso di fronte allo specchio, la resistenza del vetro e del metallo oppone una barriera alle sue imprese. Contro di esso batte la fronte e i pugni; girandogli attorno non trova nulla. Lo specchio tiene prigioniero dentro di sé un retroterra che gli sfugge, nel quale vede se stesso senza riuscire a catturarsi e vede altresì che è separato da lui da una falsa distanza, che egli è in grado di ridurre ma mai di superare. Al contrario, la fonte è per lui un cammino aperto…». Lo specchio della fonte è pertanto l’occasione per una immaginazione aperta. Non si sogna profondamente con degli oggetti, per sognare profondamente bisogna sognare con della materia.
Sognare con della materia dunque, per sognare la materia, o, forse, finalmente, per farci sognare dalla materia: immaginare il Mondo come parte di noi e noi come parte del Mondo. Certo a questa particolarità dell’immaginazione poetica si riferisce Shakespeare quando, nella Tempesta (atto IV), fa dire al mago Prospero: «Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni».
E dunque, nell’ultimo viaggio, Narciso, il «sognatore della materia acqua», non rincorre solo un impossibile «narcisistico» amore per se stesso, ma un vero desiderio di ricongiungimento col Mondo attraverso l’essenza acquorea della sua stessa natura. Ed in questo ricongiungimento totale e totalizzante la sua solitudine invero sdoppiata si ricompone poiché, nella stessa immagine, convivono sia la madre che la ninfa Eco, riflesso aereo di quello acquatico. Eco non è una ninfa lontana: vive sul fondo della sorgente. Eco è incessantemente con Narciso. È lui, ha la sua voce ed il suo viso: ciò che è in alto è come ciò che è in basso.
E infine: Narciso non ama solo la propria estetica, ma nella sua stessa bellezza egli vede riflessa quella del Mondo: Narciso non dice: «Mi amo così come sono» ma, «Sono così come mi amo», esisto perché mi amo. Non lo implica forse anche il motto delfico, come dice Foucault nelle suo La cura di sé del 1984? O, ancora più luminoso, o forse numinoso, l’evangelico precetto del Cristo: «Ama il prossimo tuo come te stesso»? In questo modo la vita si illustra; la vita si copre di immagini. Meditando sulla propria immagine, Narciso medita sul proprio avvenire; il narcisismo determina allora una specie di catrottomanzia naturale. Nell’idromanzia sembra dunque che venga attribuita una doppia vista all’acqua tranquilla, perché essa ci rivela la copia di noi stessi. Siamo così di fronte ad un’interpretazione dello sguardo acquoreo di Narciso che potrebbe essere quello di ognuno di noi davanti ad uno specchio d’acqua cheta e riflettente; una rêverie sulla nostra bellezza come parte della bellezza del Mondo: della capacità di partecipare alla bellezza del Mondo con la nostra stessa bellezza. «La fontaine où il se regarde est une source où il naît lui-même peu à peu à la vie: l’eau filtre sans cesse, ride la surface et l’empêche de fixer son tremblant contour», dice ancora Lavelle.
È lo «sguardo dell’anima» di cui ci dice Platone nel Sofista (253-B); ad indicare questo momento complesso il filosofo usa la parola ópsis, che vuol dire a un tempo «atto del vedere, visione, occhio e sguardo». Attraverso l’ópsis ciò che è immateriale, l’anima, l’essenza, diventa reale e visibile, ci ricorda Giorgio Colli nel suo Filosofi sovrumani.
E allora, non siamo forse tutti Narciso mentre ci contempliamo nell’acqua che ci aspetta? Quell’acqua che Paul Claudel definisce «lo sguardo della terra, il suo apparato per guardare il tempo»? Il poeta, infatti, ci chiede «di accostarci quanto più possibile a queste acque che abbiamo delegato alla contemplazione di ciò che esiste». Di fronte a queste acque narcisistiche, sembra proprio che «l’occhio proietti della luce, che rischiari da solo le proprie immagini». Non era forse lo stagno di Delfi null’altro che l’occhio della ninfa-pitonessa? E non è forse ogni stagno un occhio che ci guarda, che ci ri-guarda? Che attende da noi il medesimo rispetto e riguardo, ed in cambio ci offre una visione, non del futuro, ma finalmente del tempo che non osiamo più vivere: il presente?
E dunque, in fondo, Narciso è solo un essere che cerca la propria origine, la propria acqua, e che della propria origine essenziale si innamora; come tutti possiamo fare di fronte ad uno specchio di acque riflettenti. Lo sguardo acquoreo che anima dall’interno la visione della materia essenziale, il «richiamo» al quale Narciso risponde, non ha forse lo stesso fascino per ognuno? La Madre Ninfa ed il Padre Fiume, non sono forse i Genitori Invisibili di noi tutti? L’occhio dello stagno segreto nel bosco, presso il quale la ninfa Eco viveva, è il nostro stesso occhio contemplativo delle bellezze del Mondo, di noi come Mondo nel Mondo. Cosa rimanda Eco se non il nostro nome segreto mentre lo sussurriamo nel silenzioso istante che precede il salto?
[cite]
tysm literary review
vol. 18, issue no. 21
february 2015
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