Liber novus: il Libro rosso di Carl Gustav Jung
Paulo Barone
Liber novu, che sembra evocare sfondi iniziatici e aromi sapienziali; non ultimo il costo, per così dire elevato, a dispetto intrepido della crisi sistemica in cui versa oggi la «galassia Gutenberg». Che si tratti, però, di un libro insolito, démodé, strappato quasi a forza dalla penombra in cui stava adagiato, è soprattutto confermato, ben oltre le sue apparenze, dalla particolare genesi materiale ed editoriale che lo caratterizza. Nell’ottobre del 1913, durante un viaggio in treno da Zurigo verso una piccola località situata qualche decina di chilometri più a nord, Jung è improvvisamente sopraffatto da una ‘visione’ in cui l’Europa affonda sotto il peso di una spaventosa alluvione, riducendosi a un cumulo di macerie e di cadaveri galleggianti su un mare di sangue. Un paio di settimane dopo la visione si ripete con tinte ancora più fosche e intense, mentre una «voce interiore» gli dice che quella scena sarebbe senz’altro accaduta. È un periodo cruciale della vita di Jung. L’anno precedente ha mandato in stampa Simboli della trasformazione, ma già al termine della sua stesura aveva cominciato ad avvertire un senso di vuoto. Sempre nell’ottobre del 1913 scrive a Freud per ratificare la fine del loro rapporto (fino a dimettersi da presidente dell’Associazione psicoanalitica internazionale nell’aprile del 1914).
Per quanti successi e soddisfazioni professionali abbia sin lì conseguito, il treno esistenziale di Jung ha in realtà imboccato un binario morto. Fantasie, visioni, sogni di analogo carattere catastrofico intanto si susseguono. Decide allora, senza farne menzione con nessuno, di trascrivere questo materiale su alcuni quaderni di colore scuro, denominati per l’occasione Libri neri (che alla fine saranno sette). In quel momento non si tratta altro che di semplici taccuini privati. E non potrebbe essere altrimenti, dato che lo stesso Jung ritiene di aver sviluppato una «psicosi ipercompensata», o di stare «facendo una schizofrenia», come dichiarò in una intervista a Mircea Eliade nel 1952 (e successivamente anche nella sua, cosiddetta, autobiografia). Soltanto il 1 agosto 1914 – allo scoppio, cioè, della prima guerra mondiale – Jung si persuade del valore sostanzialmente premonitorio delle sue visioni deliranti rispetto al delirio effettivo in cui cade l’Europa in guerra. Ed è a questo preciso punto che comincia a nascere il libro in questione. Con caratteri mezzo gotici Jung ricopia a mano il materiale dei taccuini (dei «Libri neri») su dei fogli di carta pergamena, che confluiranno poi in un grande volume rilegato in pelle rossa (quello che sarà chiamato appunto «Libro rosso»), sommando a ciascuna fantasia, visione o trascrizione onirica un commento, un’aggiunta in forma di dialogo, o talvolta traducendo il tutto con illustrazioni e disegni realizzati da lui stesso.
L’esperimento più difficile
Il nucleo rappresentato dai taccuini si ferma, però, agli anni 1917-18. A crescergli attorno è la parte dei commenti – scritti e illustrati – che lo dipanano e lo amplificano. Verso la fine degli anni ’20 anche questa concrescenza, tuttavia, si arresta. Prende avvio l’interesse di Jung per l’alchimia e il Libro rosso entra nella sua fase dormiente, sospesa, da cui, di fatto, non uscirà più. Lo stesso ritorno di Jung sull’opera in rosso nel 1959, due anni prima di morire, con una nota scritta a mano che si voleva conclusiva, si arresta bruscamente con la frase: «So che è stata un’impresa spaventosamente inadeguata, ma nonostante il molto lavoro e le distrazioni le sono rimasto fedele, anche se io mai un’altra possibilità…». Epilogo, dunque, che mentre da un lato testimonia la considerazione costante in cui Jung tenne quest’opera, dall’altro, con il suo arresto quasi mimetico, sembra suggellarne definitivamente il carattere interrotto e lo statuto incerto ed enigmatico. Non è un caso, allora, che gli eredi di Jung abbiano tanto esitato nell’autorizzare la sua pubblicazione (temendo chissà che e alimentando, invece, una morbosa, curiosità e illazioni d’ogni sorta). Non era forse più giusto lasciare il libro ancora nell’ombra e aspettare per la sua «consultazione 50, 80 o più anni», come ebbe a dire anche Jung, visto il suo contenuto piuttosto intimo e facilmente equivocabile? O invece, sull’altro piatto, non si è sempre e solo trattato, riguardo alla pubblicazione, di una pura questione di opportunità, dal momento che Jung stesso fece leggere parti consistenti del libro alla ristretta cerchia dei suoi collaboratori? (E comunque, almeno i cinquant’ anni sarebbero scaduti nel 2011). Come spesso capita, a decidere per il sì è stata l’evidenza pragmatica con cui Sonu Shamdasani – il curatore, storico della psichiatria a Londra – ha dimostrato agli eredi riottosi che ampi stralci del libro si trovavano già disponibili al pubblico senza alcun controllo, né guida. E così nel 2009 si è avuta l’edizione inglese e adesso questa italiana. È altresì vero, tuttavia, che nessuna risposta articolata sarebbe stata in grado di sciogliere il dubbio che sorge da quelle due domande contrapposte. Perché il Libro rosso non è né uno scrigno di segreti inconfessabili da custodire gelosamente, né un manuale di consultazione pubblica da mandare in giro il prima possibile, ma un testo di confine, una soglia, un libro interstiziale. Il dubbio – animato come è dall’interno – rimane perciò irrisolto e si traspone, ora che il libro è fuori, sul modo di farne uso. Come leggerlo? A quale regola attenersi per evitare di cadere vittima di tesi univoche e precostituite, per evitare di lasciarselo scappar via, di travisarlo, visto che occupa di per sé una posizione tanto delicata e sfuggente? Come accostarvisi?
In quegli anni di disorientamento, al limite del crollo psichico, Jung conduce «il suo esperimento più difficile» alla ricerca di un proprio mito personale. Ne deriva un testo complesso. Stratificato dal punto di vista cronologico e strutturale, ma anche da quello stilistico ed espressivo. Nella «nota alla traduzione» all’edizione Bollati-Boringhieri del Libro rosso (Torino, 2010), Maria Anna Massimello e Giulio Schiavoni (ai traduttori va aggiunto Giovanni Sorge) ricordano opportunamente come Jung avesse dichiarato di prediligere nella sua scrittura uno stile «equivoco e ambiguo», ricco di sottintesi, evocativo, più «letterario che scientifico», «per rendere giustizia alla natura della psiche». E traducendo Il libro rosso individuano la compresenza di almeno tre registri espressivi: quello letterale-narrativo, quello di commento analitico-concettuale e quello mantico-profetico. Le influenze e i riferimenti, spesso impliciti, sovrabbondano. Sono evidenti quelle dello Zarathustra di Nietzsche, del Faust di Goethe, della Commedia di Dante. È forte la coloritura religiosa, biblica, gnostica, cabalistica, ma anche orientale, hindu e buddhista. L’influsso della mitologia. L’associazione di testo e immagine ricorda le opere di William Blake, ma il segno pittorico anche le coeve avanguardie artistiche. Dinnanzi a un simile testo, multimediale e multiculturale ante litteram, può sembrare retrospettivamente chiaro come in esso siano contenute, allo stato nascente, tutte le linee-guida della psicologia analitica junghiana, la parte consistente del suo metodo.
In corto circuito con l’attualità
Nell’esperimento con se stesso Jung sta di fatto utilizzando una tecnica di sospensione della coscienza in favore dell’emersione di immagini originarie provenienti dall’inconscio collettivo, secondo l’idea che il confine tra coscienza e inconscio sia sempre determinato da fattori storici e che sia dunque sempre mobile e relativo. Per quanto riguarda, poi, la solita accusa con cui ci si sbarazza di Jung, e cioè che gli ‘archetipi’ sarebbero già formati nel contenuto, nonostante le molte oscillazioni riscontrabili a riguardo Jung ha più volte dichiarato esattamente il contrario. L’inconscio di Jung funziona come «uno stomaco vuoto», secondo l’espressione di Lévi-Strauss. In base a questa ‘tecnica’ è anche evidente come la coscienza che Jung crede di dover ‘sospendere’ non sia solo la propria, ma quella storica e culturale contemporanea, quella del moderno in vista di una nuova, rinnovata (Liber novus, appunto).
Dal momento che il materiale emergente è piuttosto magmatico, sembra del tutto plausibile il proposito di disciplinare il testo, di aiutarne la comprensione con una rete di rimandi interni e con un apparato critico, chiarificatore quanto possibile. Cosa che il curatore Shamdasani fa con un’attenzione e un’acribia degne di menzione: pettina e accarezza il testo in lungo e in largo – sin quasi a monumentalizzarlo – allo scopo di far emergere il contesto in cui le intuizioni di Jung presero forma (analogamente a ciò che Michele Ranchetti, con ben altro passo, tentò di fare con il testo freudiano), ma anche allo scopo di dimostrare l’assoluta autonomia del ‘sistema junghiano’ rispetto all’opinione diffusa che ne decreta la nascita a rimorchio di quello di Freud.
Jung genio rotondo e impermeabile? Per quanto suffragabile – Jung stesso stabilì come suoi antecedenti Janet, Bleuler e Flournoy – sconsiglierei decisamente di seguire una simile tesi. Se c’è infatti una caratteristica che contraddistingue Jung e che andrebbe valorizzata al massimo è proprio la sua speciale posizione di vicinanza laterale e di dipendenza dal sapere psicoanalitico, il solo capace di lavorare dall’interno l’impasto concreto dei singoli fenomeni psichici e senza il quale Jung osserverebbe il mondo da distanze siderali, privo di contatto. Come Benjamin definì Kafka un autore che era vissuto in un mondo complementare a quello a lui contemporaneo, così si dovrebbe definire Jung un autore vissuto in un luogo supplementare al mondo moderno, a cui è rimasto adiacente e che ha incorporato ritraendosene. Del resto, basta dare un semplice sguardo al Libro rosso per rilevare, tra i suoi temi dominanti, l’urgenza di trovare un’alternativa inconscia al tempo presente, ormai precipitato in un vicolo cieco; la necessità di distinguere – in vista di questa alternativa – tra follia e psicosi ordinaria (e non tra normalità e follia, come per il sapere psichiatrico e psicologico); l’esaurimento del Cristianesimo storico e il ripensamento della fede religiosa in generale; la necessità di trovare un’etica di fronte al mondo sulla scorta dei primi tre punti.
Soltanto la costitutiva dipendenza e la cronica porosità di Jung permetterebbero a questi temi di intrecciarsi senza acrobazie con alcune traiettorie teoriche potenzialmente limitrofe. Per esempio, la traiettoria foucaultiana (a partire dal Foucault dell’Introduzione a Sogno e esistenza di Binswanger centrata sul valore del sogno e dell’immaginazione). La traiettoria lacaniana (soprattutto l’ultimo Lacan , dove predomina il registro del Reale, «ciò che non funziona», «ciò che non fa senso»). La traiettoria orientale (soprattutto quelle componenti capaci di non sedurre esoticamente l’identità occidentale in crisi).
Che cosa avrebbero in comune tutte queste traiettorie se non il fatto di fare i conti, ciascuna a suo modo, con la perdita di consistenza del mondo attuale, con la sua evanescenza? E non è proprio l’evanescenza di ogni forma di vita contemporanea ad azzerare la distanza di Jung da questo mondo? Ma come valorizzare una simile problematica senza emanciparsi dal mito personale di Jung, senza decostruire il suo stile?
Il Libro rosso potrà definirsi il Libro ‘nuovo’ di Jung a patto che il suo stare all’origine dello sviluppo successivo e il suo essere postumo siano usate come due leve simultanee per mettere il suo pensiero alle strette sino a trasformarlo in un susseguirsi di soglie, di ‘immagini-di-pensiero’, in una linea interstiziale. Che poi è la fisionomia più affascinante del Libro rosso, la medesima con cui si presenta la evanescente scena contemporanea.
[da il manifesto, 21 novembre 2010]
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