L’idea del grottesco
in Kayser, Bachtin e Braibanti
Enrico Valtellina
Da quando Marcuse non vede più negli occhi della piccola prostituta il lampo balzachiano dell’infinito, non c’è dubbio che il margine che tiene lontano l’uomo dal suo grottesco sia molto diminuito.
Virginia Finzi Ghisi (Introduzione a Braibanti, 1969)
Grazioso lascito rinascimentale della cultura nazionale al mondo, il grottesco, termine denso che andremo ad approfondire, apparve come noto quando Filippino Lippi, Morto da Feltre, Pinturicchio e Raffaello si calarono nella Domus Aurea, giusto allora scoperta sotto quelle che erano ritenute le terme di Tito sul colle Oppio, grottesche figure la adornavano. Lo spirito delle raffigurazioni divenne un paradigma dalla straordinaria fortuna nei secoli a venire.
Grutesco, grotesco, grotesque, Grotesk. Il grottesco in pochi decenni si è adattato all’espressività di tutte le lingue europee. Nato come categoria estetica, tipologia della rappresentazione, anziché languire nei libri di storia dell’arte, si è diffuso e ricorre nel linguaggio pubblico, connotazione caratterizzante su moltissimi livelli della significatività sociale. Si percepisce, ma come elemento sfuggente la codificazione. Da qui la difficoltà dell’impresa di mapparlo, di coglierne i sensi, di definire l’idea, l’orizzonte semantico che lo evoca. Impresa votata al fallimento più grottesco, matrice di ricorsività tra eccedenze discorsive, delirio nell’incanto del senso. Pinskij sostiene che “il grottesco in arte è affine al paradosso in logica” (cit. in Beltrame, 1996), e in qualche modo è vero, ma il grottesco non è solo in arte, e non è solo l’inciampo di una forma, ma una positività, la matrice e l’effetto di una configurazione specifica. Per porre i termini in cui è stata elaborata la questione del grottesco analizzerò brevemente due testi cardine come Das Groteske di Wolfgang Kayser e L’opera di Rabelais e la cultura popolare di Michail Bachtin, a seguire, con qualche riferimento consolidato, procederò al confronto con un autore del massimo valore ma ingiustamente trascurato dalla critica, Aldo Braibanti, che al grottesco ha dedicato la tesi di laurea, testo contenuto nell’antologia curata da Virginia Finzi Ghisi Le prigioni di stato.
Wolfgang Kayser, docente di estetica a Gottinga, pubblica il suo libro sul grottesco nel 1957. La sua ricognizione si muove all’interno della teoria dell’arte e ripercorre la storia della rappresentazione grottesca. Individua lo sviluppo del concetto dalla caratteristica originaria della decorazione grottesca (differenziata dal moresco e dall’arabesco), “sogni dei pittori”, in cui coesistono in una disposizione aleatoria figure vegetali, animali e umane in forme e proporzioni differenti, fino alle manifestazioni nell’arte novecentesca, lungo un itinerario che da Bruegel a Rabelais, da Callot a Bosch, da Hogarth al romanticismo, da Hugo a Poe, da Hoffman a Jarry, da Ensor a Redon, vede l’dea del grottesco differenziarsi e connotarsi sempre di nuovo toccando di volta in volta il tragico, il realismo, il mostruoso, il comico o il fantastico. Per i nostri interessi è di particolare importanza la parte conclusiva del libro, il cui titolo dichiara gli intenti: “tentativo di determinazione della natura del grottesco”. Kayser si domanda: “c’è qualcosa di comune nei quadri, nelle stampe e nelle opere letterarie che abbiamo analizzato? Ha un senso che il linguaggio, i cui usi abbiamo investigato, suggerisca la parola “grottesco” sempre di nuovo, malgrado l’infinità delle variazioni nel suo significato?” (Kayser, 156) La risposta è affermativa, e per Kayser il fatto che il grottesco riguardi i tre ambiti del processo creativo, dell’opera e della sua ricezione, dimostra che il concetto porta le caratteristiche necessarie ad una nozione estetica fondamentale. Kayser analizza le componenti tipiche della rappresentazione grottesca, animali, reali o immaginari, di cui il pipistrello, bestia crepuscolare e inquietante, che nello stato di sonno pende a testa in giù come materia morta, è l’immagine archetipica, il regno vegetale, componente fondamentale del decorativo grottesco originario, la commistione di utensili meccanici e di elementi viventi, la marionetta, emblema del grottesco “tecnico” (Kayser, p.159), la follia come straniamento dall’ordine del mondo. Da ciò segue la definizione cardine di Kayser: “Il grottesco è una struttura. Possiamo definire la sua natura con un’espressione che abbiamo già incontrato frequentemente: il grottesco è il mondo estraniato. […] Per appartenervi, è necessario che ciò che era conosciuto e familiare, improvvisamente si riveli estraneo e sinistro”. Mutamento repentino il cui effetto non è la paura della morte, bensì il peso di vivere in questo mondo trasformato. Abolizione delle distinzioni, delle proporzioni, dell’ordine rassicurante del mondo, dissoluzione dell’identità. In questo senso “il grottesco è la rappresentazione dell’“es”” e la sua cifra è l’assurdo. Due le tipologie individuate, il grottesco “fantastico” e il grottesco “satirico”. A questa seconda specie appartiene l’apparentamento al comico, ma è un comico in trasformazione continua nella direzione del satanico. Da ciò procede un’altra definizione: “le configurazioni del grottesco sono un gioco con l’assurdo” (p.161) per quindi giungere a un’ultima caratterizzazione fondamentale: “la configurazione del grottesco è il tentativo di dominare e sottomettere l’elemento demoniaco del mondo” (p.161).
Il testo di Kayser viene sottoposto ad analisi critica da parte di Michail Bachtin in un suo libro assolutamente straordinario. Linguista1, critico letterario2, semiologo, critico della psicoanalisi3, teorico del dialogo, marxista atipico, straordinaria personalità eccentrica dell’unione sovietica, grande tra i più grandi, Bachtin venne bocciato all’abilitazione accademica. Per ottenerla aveva presentato una ricerca su Rabelais. Oggi L’opera di Rabelais e la cultura popolare: riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale è considerato un testo di riferimento, esito felice come pochissimi della critica culturale e letteraria del secolo scorso. Il libro parla di Rabelais e del suo mondo, Gargantua, Pantagruelion, Thélème, parla della cultura popolare, del carnevale, del riso, dell’episteme rinascimentale4. Parla del corpo. Corpo carnevalizzato, corpo grottesco. «Alla base delle immagini grottesche sta una concezione particolare dell’insieme corporeo e dei suoi limiti. I confini fra il corpo e il mondo e fra i diversi corpi nel grottesco sono tracciati in modo completamente diverso rispetto alle immagini classiche e naturalistiche» [OR, 345]. Eccedente, escrescente, ramificato, metaforico (naso/fallo, ventre prominente/ventre gravido), aperto, il corpo grottesco è luogo di flussi e scambi. Corpo in divenire, «non è mai dato né definito, costruisce e si crea continuamente, ed è esso stesso che costruisce e crea un altro corpo; inoltre questo corpo inghiotte il mondo ed è inghiottito da quest’ultimo» [OR, 347]. Corpo liminare, articolato su protuberanze e orifizi, smembrato e ricomposto, palcoscenico per la rappresentazione di morte, generazione, rigenerazione. Tema portante dell’arte e della letteratura nel corso di tutta la sua storia, il grottesco è legato al linguaggio non ufficiale dei popoli, alle forme sovversive popolari dell’ingiuria e del riso, alla categoria fondamentale dell’analisi bachtiniana del mondo carnevalizzato, il basso-materiale-corporeo.
Il grottesco rinascimentale è inoltre legato alla paura cosmica, nella sua rappresentazione lo spirito popolare «determina un’autocoscienza veramente umana liberata da ogni paura. … Il cataclisma cosmico, rappresentato con le immagini del basso «materiale» e corporeo, è abbassato, umanizzato e trasformato in uno spauracchio comico. La paura cosmica è stata vinta dal riso.» [OR, 368]. Rabelais ha dato compiuta espressione allo spirito del grottesco rinascimentale, erede della cultura popolare medievale, concezione estetica che Bachtin chiama realismo grottesco.
Dalla fine del XVI secolo un dispositivo di controllo sul linguaggio si dispiega progressivamente, censurando ogni riferimento esplicito alla genitalità e alla corporeità. A qualche affresco vengono dipinte braghette. La quadratura dell’età classica rende progressivamente incomprensibile la comicità strabordante rabelaisiana, il corpo diventa monadico, ipostasi presente a sé del soggetto economico. Il grottesco della modernità si trasfigura, dall’interindividuale che lo caratterizzava nel rinascimento, si ripiega sull’individuo, Sterne ha dato compiuta espressione a questa rappresentazione nel Tristram Shandy. Bachtin segue la storia successiva dell’espressione grottesca, dal moderno all’ultramoderno, ovvero Brecht e Jarry.
Bachtin riconosce a Kayser il merito di avere intrapreso il primo tentativo serio di mettere in luce l’essenza del grottesco, ma ritiene inadeguate le sue conclusioni. La lettura del grottesco in Kayser è modellata sul grottesco romantico e modernista, non è applicabile alle epoche precedenti, in cui la natura del grottesco è parte della cultura comica popolare, “nel grottesco romantico questa natura si è indebolita, impoverita e, in un certo senso, è stata fraintesa” (Bachtin, 1979, 55). Non cogliendo la natura carnevalesca del grottesco medievale e rinascimentale, lo riduce a tedio e paura, e se tale rappresentazione è valida per il grottesco modernista, perdita di mondo, non può cogliere la contestuale funzione di prefigurazione del nuovo. “In realtà, il grottesco, ivi compreso il grottesco romantico, rivela la possibilità di un mondo completamente diverso, di un altro ordine, di un’altra struttura di vita. Esso oltrepassa I confini dell’unità, dell’indiscutibilità, dell’immutabilità fittizia del mondo esistente e, generato dalla cultura comica popolare, rappresenta sempre – in una forma o in un’altra, con un mezzo o con un altro – il ritorno dell’età dell’oro di Saturno, la possibilità viva del suo ritorno” (Bachtin, 1979, 56). La critica a Kayser prosegue serrata, ma per le nostre finalità credo possa bastare, le caratterizzazioni del concetto ci sono, si ritrovano con molteplici varianti negli autori in bibliografia, ma per lo più con Kayser e Bachtin le abbiamo esposte, possiamo dunque passare oltre e vedere come il tema del grottesco si articoli nell’opera di Aldo Braibanti, mirmecologo, spinozista, partigiano, poeta. La sua opera merita approfondimento, per quanto seria, personale e assolutamente eccentrica rispetto al panorama culturale del secondo dopoguerra italiano. Una via filosofica all’arte, una via artistica all’eccedenza del concetto.
Il testo di Braibanti è precedente rispetto a quelli di Kaiser e Bachtin, risale al 1951, non può quindi giovarsi delle ricerche dei due autori ma, per le sue finalità, la sorte del grottesco nella storia dell’arte è di importanza relativa. Conosceva e cita altrove il testo di Gino Gori sul grottesco nell’arte, ne apprezza l’impresa ma coglie i limiti della riduzione dello spirito del grottesco all’ambito dell’artistico. Il luogo privilegiato del grottesco è la vita, lo spazio interindividuale è dove si dispiegano le sue epifanie. Il testo si apre con la proposizione XV del quinto libro dell’Etica di Spinoza, “Chi conosce sé e i propri affetti in modo chiaro e distinto, ama dio, e tanto più quanto più conosce sé e i suoi affetti”, vedremo come tutto il discorso braibantiano sul grottesco si muova sul piano individuato dalla citazione spinoziana. Il discorso parte dalla percezione del senso comune del grottesco, tanto infallibile quanto non esplicitabile, se non attraverso formulazioni parziali, “vi è dunque qualcosa di comico o di tragico, di capriccioso o di calcolato, di attraente o di repellente, di inetto o di finalistico nel “grottesco”, ma sempre e solo come elemento accessorio e contaminatore” (Braibanti 1969, 2). Elemento presente e sfuggente, inciampo del senso, “dramma” nel senso di azione, che può declinarsi in tragedia o commedia, il grottesco si nega alla sua esplicitazione, ma il tentativo di inseguire una sua definizione serve a “chiarire ulteriormente la coscienza della problematicità della vita” (p.4). L’insoddisfazione delle caratterizzazioni del senso comune, sempre parziali, si somma alla omnipervasività potenziale del grottesco, ogni situazione, ogni persona, ogni esperienza può improvvisamente volgersi in grottesco, partecipare del collasso dell’ordine delle cose, essere vista con le “lenti deformanti” del grottesco, per poi eventualmente tornare al suo aspetto consono. “Ogni ricerca che miri a fondare una tipologia sul “grottesco”, a non vederlo come un momento di passaggio del dramma morale e una possibile età della storia psicologica di ogni individuo, ogni ricerca del genere è destinata a fallire” (p.5). Il grottesco si distanzia tanto dal riso, in cui l’intelligenza “vuole castigare tipicamente l’irrigidirsi e il meccanicizzarsi della tensione vitale” (formulazione che ricalca le osservazioni bergsoniane), quanto dal tragico, che vuole risolvere in catarsi il travaglio individuale, può accompagnarsi a elementi comici o tragici, ma conserva la sua specificità una volta separato da questi, emerge come turbamento incomprensibile, disagio morale non ulteriormente riducibile ad altro stato emotivo.
L’esperienza quotidiana offre infinti spunti al grottesco, lo scarto tra la posa e il ruolo, il disseccamento dello slancio vitale nell’inadeguatezza. “La mediocrità si avverte sempre come un senso di “grottesco”: essa ci mostra l’uomo che ha rinunciato, l’uomo che ha dimenticato sia le sue possibilità che la sua stessa rinuncia” (p.11). Luoghi di evenienza del grottesco sono altresì la politica e la religione (noto di passaggio come grottesco sia la connotazione che immediatamente si accompagna alla figura di personaggi della storia della criminalità politica come Mussolini, Idi Amin Dada, Bokassa o Berlusconi), “grottesco” appare a Braibanti “quel senso tragico, catastrofico che accompagna sempre il pretesto dogmatico oppure la paura di spezzare i limiti della convenzione” (p.11). La messa in scena di una sacralità fittizia chiamata a santificare l’autorità costituita, tanto più quando residuale, si rovescia ad ogni passo nella figura del grottesco: “la scuola che educa alla schiavitù e al conformismo, la famiglia che si arroga diritti di proprietà sui figli e sul loro pensiero, la chiesa che fa della pietà un raffinato strumento di violenza, di ricchezza e di dominio, lo Stato che trasforma il patto sociale in ambiguo dovere, in gerarchia esterna, cristallizzata e inappellabile: ecco solo alcuni esempi che si prestano a un’indagine grottesca. E non si dimentichino l’antropomorfizzazione del divino, l’esaltazione della personalità nella storia (col suo rovescio dei regni di utopia), l’idea del primato dell’uomo nell’universo, e gli stessi fondamenti della metafisica, e le resistenze della cattedra ufficiale di fronte alla scienza relativa ed evoluzionale e all’analisi del subcosciente” (p.12).
L’anali del grottesco volge quindi la sua attenzione alla vita emotiva, dall’analisi di situazioni di vita in cui si manifesta, Braibanti giunge a definire il grottesco come tonalità emotiva fondamentale, “avvertire il grottesco è dunque in ultima analisi avvertire quel disagio interiore che una causa esterna ci ha rivelato e che sfugge all’esame e all’intervento della nostra intelligenza” (p.14). Ho utilizzato una formulazione heideggeriana, la traduzione usuale di grundstimmung, per raccordare il grottesco all’angoscia, relazione che viene individuata e problematizzata. “L’angoscia è l’incontro con l’infinito, o meglio, è il riflesso sul piano emotivo dell’idea dell’infinito” (p.16), quando la reazione di fronte all’angoscia è la negazione dello slancio vitale e l’atrofizzazione in forme ossificate, calcinate, l’effetto è il grottesco. Braibanti individua tre vie che conducono al grottesco, la prima è quella ora esposta, l’incapacità di riscattare l’angoscia con la fede nella vita, la ricerca di ancoraggi fittizi, regole, forme, istituzioni. “La seconda via è quella di chi crede raggiunta la fede nella vita una volta per sempre” (p.19), la chiusura nell’illusione e nel dogma, è il grottesco dell’uomo con una verità definitiva. “La terza via è quella di chi ritiene la fede il termine supremo del dramma morale, e su essa fonda non solo il suo sistema, ma spesso tutta la sua vita pratica. Si sommano così le due tipologie precedenti, la fede si irrigidisce in dogma, in verità assoluta, svuotata di senso del reale. “Fede è sempre fede nella vita: ma la vita è per noi “questa” vita: il “grottesco” è dunque lo stato emotivo di chi scopre in sé stesso o nell’altro il fallimento della fede, che non è riuscita a superare la speranza, o non è diventata azione, o non ha saputo riconoscersi come frammento” (p.20). Il grottesco si delinea come rinuncia assoluta, fallimento e ripiegamento antivitale. “Ciò che non può divenire se stesso, l’inutile sforzo, la rinuncia cinica, soffice e paludosa, l’alto morbido sonno senza sogni: ecco il “grottesco”. Divenire se stessi vuol dire trovare volta per volta il proprio cammino nella continuità del processo, la propria creatura nell’infinita creazione, attingere all’ideale originario non tanto la giustificazione quanto la concreta presenza” (p.23).
Concludo l’analisi del testo, che pure si sviluppa ulteriormente con digressioni nella storia della filosofia morale, nell’estetica e nella psicologia, e si correda di una seconda parte in cui si sviluppano motivi per articolare secondo nuove coordinate i discorsi, perché mi pare che sia delineata la caratterizzazione braibantiana del grottesco.
Cosa resta dei tre studi intrapresi in questo testo? Delle suggestioni parziali, delle caratterizzazioni differenti su piani distinti dell’esperienza di un termine complesso, forse non ha molto senso l’analisi comparata delle ricerche sul grottesco, e l’esito non può che caricarsi in qualche modo dei caratteri di ciò che si vuole indagare. A ciascuno il suo grottesco, il collasso della propria possibilità.
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4Non ci sono tracce di reciproche letture tra Bachtin e Foucault, non di meno saltano all’occhio significative convergenze teoriche. Con ogni probabilità Foucault conosceva l’opera di Bachtin, divulgata nell’accademia parigina dagli allievi bulgari di Roland Barthes, Julia Kristeva e Tzvetan Todorov, in anni in cui Foucault e Barthes erano ancora amici.
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