Critica della critica dello “spettacolo”. Intervista di Jérôme Game a Jacques Rancière
Critica della critica dello “spettacolo”
Intervista di Jérôme Game a Jacques Rancière
Traduzione di Alessandro Simoncini
Jérôme Game: ne Lo spettatore emancipato [1] la sua prospettiva è quella di una critica della critica dello spettacolo: a tal fine, prima di tutto, ricostruisce il reticolo dei presupposti teorici di questa critica. Può precisare in che cosa consiste e come agisce questo reticolo?
Jacques Rancière: In breve, funziona abbastanza semplicemente nella misura in cui, all’inizio c’è la condanna del teatro in quanto luogo dello spettatore; è una condanna che risale almeno a Platone e consiste essenzialmente in due tesi fondamentali.
In primo luogo essere uno spettatore è cosa cattiva, perché lo spettatore è uno che guarda e che, di conseguenza, si pone di fronte alle apparenze – e quindi, al contempo, non coglie la verità che evidentemente abita altrove, dietro l’apparenza o sotto ciò che egli vede. La prima tesi fondamentale, quindi, dice che essere spettatore è guardare, e guardare è male perché equivale a non conoscere. La seconda tesi, che alla prima è legata, anche se può esservi dissociata, consiste nel dire: “essere uno spettatore è cosa cattiva perché lo spettatore è seduto, non si muove”. Di conseguenza essere spettatore significa essere passivo e, evidentemente, ciò che è buono è attivo.
La questione dello spettatore, fin dall’inizio e per lungo tempo, è stata inquadrata da queste due coppie di opposizioni fondamentali: guardare-conoscere, da una parte, ed essere attivo-essere passivo dall’altra. Credo che la cosa importante, in fondo, sia la mobilità di un simile dispositivo teorico: questo funziona innanzitutto nel quadro platonico, in cui si tratta ordinare la città – “ciascuno al suo posto” – e dunque di bandire il teatro per il semplice fatto che questo è appunto il luogo degli sdoppiamenti, il luogo capace di far sì che non si sappia più chi è chi o chi fa che cosa e, di conseguenza, il luogo attraverso cui l’ordine della città viene minacciato.
Allo stesso tempo, però, questa opposizione è passibile di essere costantemente riprodotta e dislocata, e quindi di farsi nuovamente carico di tutti i valori del progresso, della rivoluzione e dell’emancipazione. Lo si vede già molto chiaramente nel XVIII secolo in Rousseau, che riprende questa critica dello spettacolo – ma privilegiando l’opposizione guardare-agire rispetto a quella guardare-conoscere – per concludere che se si cercherà qualcosa nel teatro, è perché, appunto, vi si è rinunciato nella vita concreta. Di conseguenza, ciò che Rousseau oppone alla scena teatrale, è la festa popolare di Ginevra o la festa civica dell’antica Sparta. In questo egli resta imbrigliato nell’opposizione platonica, infatti allo sdoppiamento teatrale Platone contrapponeva già il coro o la città, che stanno raccolti in sé e non si pongono in alcun modo di fronte a se stesi, che non guardano spettacoli, ma sono attivi.
Quello che Rousseau riprende è ciò che non cessa mai di essere ripreso: questa critica della mimesis che nel XIX secolo diventa il cuore della critica sociale. Si può pensare al modo in cui Feuerbach e Marx la recuperano, con l’idea che il fondamento del dominio sia la separazione tra l’uomo e la sua essenza, la quale è proiettata laggiù, lontano, di fronte a lui. A partire da qui, il platonismo diviene rivoluzionario denunciando tutti questi individui-spettatori, che cioè innanzitutto vivono nell’ignoranza, dominati perchè stanno come ingranaggi entro un luogo nel quale spalancano gli occhi come dei cretini senza assolutamente vedere come funziona la macchina. In secondo luogo, poi, ciò che è più radicale – che Marx mutua da Feuerbach e che Guy Debord riattualizzerà nel nostro tempo con tutti gli ornamenti che conosciamo – è questa idea che essere spettatori è come stare di fronte alla propria stessa vita e alla propria stessa attività ora divenute estranee. Che cosa succede allora? Che la critica platonica della mimesis diventerà la spiegazione dei motivi del malessere sociale. Con la evidente conseguenza che ogni critica sociale vorrà sottrarre gli spettatori alla loro ignoranza e, di seguito, alla loro passività. E, per liberare gli ignoranti, occorrerà innanzitutto costituirli come tali.
J. G. : Dopo Artaud e Brecht, lei evoca in particolare il caso di Debord a proposito di un paradosso: da una parte, Debord considera la verità come una non-separazione, ma, dall’altra, ritiene cattiva la contemplazione di apparenze separate dalla loro verità. In altri termini, più sembra antiplatonico, meno lo è davvero. Può spiegare meglio il funzionamento di questa contraddizione?
J. R. : C’è una frase celebre di Guy Debord che sembra essere antiplatonica, in cui dice: “più l’uomo contempla e meno è”, dunque vi è opposizione tra l’essere e il vedere [2]. Ma alla fine l’assunto verrà rovesciato, perché quello che allo spettatore manca è precisamente la coscienza del fatto che ciò che ha di fronte a sé è la sua realtà, la sua essenza, la sua vita, la sua azione, le quali si ritrovano separate e gli sono divenute estranee. In quel momento la critica della mimesis diviene essenzialmente – ed è lo stesso titolo di un film di Debord – critica della separazione, cioè un modo di concepire lo spettacolo come il male assoluto, identificandolo con il processo tramite cui l’uomo proietta la propria essenza fuori di sé. A partire da questo, prendono forma una distanza e un’impotenza radicali: dal momento che tutti sono nello spettacolo, non c’è ragione perché nessuno gli sfugga mai, nemmeno colui che conosce la ratio dello spettacolo.
C’è un’altra frase di Debord che dice: “nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso” [3]. Grosso modo significa che comprendere la razionalità dello spettacolo non ne modifica il dominio. Ciò che resta, dunque, è infine l’autorità della voce che enuncia il potere dello spettacolo. Questo è particolarmente chiaro quando si guardano i film di Debord, perché lì si trova effettivamente una sfilata di immagini che potremo definire in un certo senso indifferenti (anche se questo non è assolutamente vero, ci tornerò); lì conta solo la voce fuori campo che dice: “siete davanti a queste immagini a guardare come dei cretini, proprio mentre queste immagini, in qualche modo, sono la vostra stessa morte”. Questa voce che dice la separazione, in un certo senso la consacra: dice infatti che siamo tutti dentro le immagini – ci saremo sempre –, ma non ce ne sottrae. Da un altro lato, però, il film affida ancora a delle immagini il compito di dirci che esiste una soluzione, ossia: non bisogna più guardare, bisogna agire.
È molto interessante vedere come nei film di Debord, e in particolare ne La società dello spettacolo, vi sia una serie di citazioni dai westerns. In prima battuta si potrebbe credere che tutto ciò sia parodistico, come quando si vede Errol Flynn che carica così, con la spada sguainata; si potrebbe credere che Debord prenda in giro questi cretini imperialisti americani e le loro mitologie eroiche, ma non è affatto vero. Al contrario, Debord ci propone queste cariche come esempi, ci dice che è proprio ciò che bisogna fare: bisogna agire come Errol Flynn, occorre essere come John Wayne, che si gettano all’attacco dei sudisti o degli indiani. È questo il modello per la sola cosa da fare: l’assalto dei guerrieri proletari contro il dominio dello spettacolo. Al tempo stesso, certo, tutto ciò resta ancora uno spettacolo capace di confermare l’autorità della voce che dice: “saremo sempre dentro lo spettacolo”.
A partire da ciò, si può capire come il situazionismo sia diventato ciò che è ai nostri giorni, nella sua versione banalizzata: la critica del consumatore democratico abbrutito dai media. Dietro c’è la maniera in cui tutta la tradizione critica marxista ha assorbito un certo numero di presupposti in egualitari: ci sono gli attivi e i passivi; ci sono quelli che guardano e quelli che sanno. Grosso modo, ciò significa che ci sono i capaci e gli incapaci. A partire da ciò sono possibili molte strategie: o si pensa ad un’avanguardia che riunisca le persone capaci per mettere nella testa degli incapaci i mezzi di emanciparsi, oppure si assume la posizione del grande signore disincantato, il quale constata che effettivamente il momento dell’azione è passato e che ormai i suoi contemporanei sono destinati a rimanere per un tempo indefinito all’interno dello spettacolo.
J. G.: Lei collega una simile questione a quella dell’emancipazione intellettuale, per come l’ha analizzata ne Le maître ignorant [4] indagando la figura di Jacotot. Lei differenzia la denuncia dell’alienazione (Brecht, Debord) dalla riappropriazione del rapporto a sé permessa dalla logica dell’emancipazione, ciò che lei chiama “soggettivazione”. In effetti, il problema è che, denunciando la passività, si presuppone una differenza essenziale: la differenza attivo/passivo, con il partage tra posizioni e capacità attinenti. Al contrario, per lei l’emancipazione concepisce l’atto di guardare come l’azione che trasforma o conferma questa assegnazione a ciascuno di un posto determinato. Può tornare su ciò che ri-distribuisce il sensibile tramite questa riappropriazione individuale, e pone così di nuovo la questione del potere dell’uguaglianza come principio di una nuova modalità del comune?
J. R.: Che cosa sta al cuore della critica di Jacotot [5] e di ciò che egli apporta di positivo, ossia l’idea dell’emancipazione intellettuale che lui oppone a quella di istruzione del popolo? Ciò che vi è di essenziale, in Jacotot, è l’idea che in realtà tutto dipende dal punto di partenza. O si parte dalla disuguaglianza o si parte dall’uguaglianza. Il pedagogo ordinario – non semplicemente nel senso del professore ma anche del pedagogo politico, del capo di partito come pedagogo del popolo o del militante che vuole fargli maturare una coscienza – parte sempre dall’ineguaglianza. La logica abituale della pedagogia è quella che consiste nel dire: “si comincia con dei bambini che non sanno ancora nulla, persone del popolo piene di pregiudizi e incapaci di vedere ciò che gli sta di fronte, e poi, poco a poco, progressivamente, ordinatamente, li si condurrà dalla loro situazione di ineguaglianza verso un’altra di uguaglianza”. Ma di sicuro – nella misura in cui il pedagogo è sempre quello che organizza il viaggio dall’ineguaglianza verso l’uguaglianza – la prima si riprodurrà indefinitamente all’interno dello stesso meccanismo che pretende di abolirlo. La riduzione delle disuguaglianze diventa così la verifica interminabile della disuguaglianza stessa.
È interessante il fatto che nel teatro si è visto lo stesso processo. È molto curioso che i riformatori del teatro, in particolare dall’inizio del XX secolo, hanno voluto sostanzialmente importare la critica del teatro all’interno del teatro stesso. Platone, Rousseau dicevano: “il teatro è cattivo, rende le persone ignoranti e passive”. E alla fine il teatro si è proposto di essere lui stesso, in qualche modo, il riparatore dei danni provocati, diciamo il pedagogo che renderà attive le persone. Si sa quanta importanza ha avuto nel XX secolo questa idea che il teatro dovesse sottrare gli spettatori alla loro passività. Può essere l’idea di Artaud che non vi siano più spettatori di fronte ad una scena, che essi siano al contrario come circondati dall’azione, presi nel cerchio dell’azione e al contempo restituiti alle loro energie vitali, che si erano perdute nello spettacolo; può essere l’idea di Piscator che il teatro deve essere qualcosa di simile ad un’assemblea del popolo; possono essere tutte queste pratiche molto intense in Unione sovietica negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione, al tempo di Meyerhold, quando si trattava più o meno di trasformare la scena teatrale in un’azione comunitaria. C’è sempre questa idea che il teatro è in sé una comunità, che questa comunità è perduta, che bisogna ritrovarla e ritrovarla precisamente abolendo la separazione tra il vedere e l’agire. Il problema, si sa, è che, malgrado tutto, nel teatro capita la stessa cosa che nella logica della pedagogia. Capita, cioè, che per rendere attivi gli spettatori, i registi devono dispiegare una gran profusione di mezzi, di edifici spettacolari, di proiezioni cinematografiche, di interventi sulla scena da parte di quella stessa vita che si supponeva esterna, e così via. E capita che tutti questi mezzi per rendere attivo lo spettatore sono in effetti degli strumenti per aumentare la potenza della macchina teatrale e per rinforzare ancora di più lo spettatore nella sua posizione: quella di colui che sta a bocca aperta davanti a ciò che gli accade.
Io non sono storico dell’arte, filosofo dell’arte, etc.; lavoro sull’esperienza estetica in quanto essa produce uno scarto in rapporto alle forme dell’esperienza ordinaria. In fondo, che cosa c’è al cuore del regime estetico dell’arte? Appunto il fatto di costituire una specie di sfera d’esperienza che rompe in rapporto alle logiche del dominio (lei faceva riferimento al libero gioco, questo concetto mutuato da Kant e da Schiller che definisce appunto l’uscita da una situazione di dipendenza gerarchica, il gioco dello spettatore libero rispetto alla forma che gli sta di fronte). Bourdieu e i sociologi si burlati di tutto ciò dicendo: “guardate come sono cretini e ingenui questi filosofi, non sanno che in realtà gli operai e i borghesi hanno ciascuno i propri gusti, i propri modi di vedere, le proprie maniere di giudicare e così via”.
Ora, ciò che sta al cuore di questa rottura rappresentata dall’esperienza estetica, è proprio il fatto che le cose vengono prese dal verso opposto. Invece di dire: “sapete bene che in realtà tutte le persone si danno un senso in base a ciò che più gli va, e così via”, ciò che si propone è proprio un’esperienza di deregolamentazione dei sensi, non secondo le modalità di Rimbaud (sempre che ciò valga per lui), ma nel senso di una forma d’esperienza che rompa rispetto alle forme ordinarie dell’esperienza, che sono quelle del dominio. È questo che io ho commentato, infatti l’ho vissuto e compreso attraverso tutta la storia dell’emancipazione operaia.
Che cosa presuppone all’inizio l’emancipazione operaia? Non di sapere che c’è lo sfruttamento, il dominio del capitale e tutto ciò. Questo chiunque lo sa e gli sfruttati l’hanno sempre saputo. L’emancipazione operaia è la possibilità che si producano modalità del dire, del vedere, dell’essere che rompano con quelle imposte dall’ordine del dominio. Dunque la questione non è di sapere che si è sfruttati: in un certo senso la questione è quasi di ignorarlo. E al cuore dell’emancipazione operaia c’è questa specie di decisione di ignorare, in qualche modo, che si è destinati a lavorare con le proprie braccia mentre altri godono i benefici dello sguardo estetico.
È questo che ho commentato in Le Spectateur émancipé attraverso questo piccolo testo di un operaio falegname sul quale ho del resto lavorato molto, Gabriel Gauny, il quale racconta la sua giornata di lavoro. È in una casa borghese, fa i parquets, è sfruttato dal padrone, lavora per i proprietari, la casa non è sua; e tuttavia descrive il modo in cui si impadronisce dello spazio, del luogo, della prospettiva che la finestra dischiude. Alla fine, che cosa vuol dire tutto questo? Che opera una specie di dissociazione tra le sue braccia e il suo sguardo, per appropriarsi di uno sguardo che è quello dell’esteta.
Certo, a tal proposito Bourdieu direbbe: “ecco come viene ingannato!”. Ma io direi che bisogna prendere le cose dal verso opposto: ciò che conta è proprio il fatto di dis-adattarsi, di dis-identificarsi in rapporto a un modo di identità, a un modo di essere, sentire, percepire, parlare che appunto aderisce all’esperienza sensibile ordinaria così com’è organizzata dal dominio. Per me tutto ciò è stato estremamente importante. Emancipazione significa questo. L’emancipazione è questa specie di rottura, di opposizione a un modo di organizzazione del sensibile che si trova come spezzato, nel senso più materiale del termine, per il fatto che le braccia fanno certamente il loro lavoro, ma poi gli occhi se ne vanno altrove.
Non ho citato a caso questo testo, che ha sì l’aria insignificante ma appare nel giugno del 1848 durante la rivoluzione in un giornale operaio rivoluzionario che si chiama Le Tocsin des travailleurs. Questa piccola descrizione dall’andamento anodino delinea un tipo di esperienza individuale condivisibile, capace di far sì che qualcosa come una voce degli operai possa prendere forma. Perché una voce degli operai non è: “gli operai si mettono insieme e si griderà ai quattro venti la nostra infelicità, etc.”. No, piuttosto è: “sulla base di una trasformazione del nostro stesso rapporto alla nostra condizione, ci si costruisce una capacità collettiva di dire”.
J. G.: La presunta arte critica non è che il “doppio – lei scrive – dell’ordine delle nostre società oligarchiche”, alle quali oppone la “qualità degli uomini senza qualità”. Il suo bersaglio è la sociologia (lei dice che viene inventata quando l’ordine borghese si inquieta): la costituzione e la riproduzione di un capitale culturale è la ripetizione di un medesimo partage attraverso il tempo, mentre la partizione del sensibile è un gioco che ad ogni tappa reinventa le proprie regole. Ma che ne è allora, per questo specifico partage, del problema del tempo o piuttosto della durata?
J. R.: Vi sono momenti privilegiati per questo tipo di esperienza. Ciò che descrivo, questa specie di acquisizione di uno sguardo che si dissocia dal resto del corpo, è contemporaneo a tutta una serie di trasformazioni nello statuto delle opere, dei testi, delle immagini. È il momento in cui le opere abbandonano il loro destino di decorare i palazzi dei principi, di illustrare i misteri della fede e così via, e se ne vanno in questi musei, questi luoghi dove sono separate dal loro destino, dalle loro funzioni, e si trovano offerte allo sguardo di non importa chi.
Questo non significa che non importa chi ci andrà. Anche se nel XIX secolo molti ci andavano, più che nel XX, perché non c’erano ancora le politiche per farceli andare, le quali presupponevano appunto che li si fosse messi alla porta prima per farceli entrare dopo e meglio (che è poi sempre la logica della pedagogia). Dunque, in questo momento si verificano degli snodi temporali privilegiati. Ma questo si riproduce costantemente. Ciò che vi è di importante in quello che chiamiamo “arte contemporanea” è questa specie di alterazione dei confini: non si sa più molto bene quando si è nell’arte e quando non vi si è più. E questo è notevole, dal momento che sappiamo quanto tempo c’è voluto per costruire delle mediazioni.
Il problema non è quello di provare a segnare il cammino tra l’arte, qua, e qualcos’altro, là, di organizzare tutto questo cammino tappa per tappa. L’interesse subentra dove l’arte si fa indeterminata, perde i propri confini. Prenda l’esempio della musica oggi. Che cos’è musica colta e che cosa non lo è? Sono molti quelli che vogliono ascoltare della musica colta senza sapere che cosa sia. Una musica elettronica è colta o no? È “cultura giovanile” o è una forma della musica colta? Non si sa più molto bene e io credo che siano importanti tutte queste forme di alterazione e di spostamento capaci di far sì che non ci sia da un lato l’arte e poi lo spettatore che gli sta di fronte, ma che esistano forme di esperienza che siano modi di trasformazione dei regimi di percezione, di affezione e di parola.
J. G.: Lei sviluppa la potenza del singolare egalitario come principio di una pratica dell’eterogeneo o dell’ibrido proprio al regime estetico delle arti, tramite la quale gli effetti delle opere non possono essere anticipati e quindi strumentalizzati a vantaggio dell’idea. Scrive: “di fronte all’iper-teatro che vuole trasformare la rappresentazione in presenza e la passività in attività, [una maniera di comprendere e di praticare il mélange dei generi] propone al contrario di revocare il privilegio di vitalità e di potenza comunitaria accordato alla scena teatrale per rimetterla su un piano di uguaglianza con la narrazione di una storia, la lettura di un libro o lo sguardo posato su una immagine. Propone insomma di concepirla come una nuova scena dell’uguaglianza in cui delle performances eterogenee si traducono le une nelle altre”. Può commentare questa insistenza: contestare che ciascuno abbia un destino sociale e possa costruire, persistere nel costruire, una sensibilità, qualunque sia il contesto?
J. R.: In quella che chiamerei la “politica pedagogica”, c’è sempre una specie di presupposto vitalista. Affinché sia popolare, comune e politica al contempo, si pensa che una pratica debba essere vivente; di conseguenza si attribuisce un privilegio alle forme che dispiegano dei corpi, alle cose che si muovono sulla scena: teatro, danza, performance e così via. Allo stesso tempo si definisce qualcosa come una specie di potenza, di vitalità collettiva. C’è sempre questa idea che il teatro sia un luogo naturalmente comunitario, che bisogna restituirgli la sua vitalità.
In fondo questo implica un pensiero dell’emancipazione inteso come il processo attraverso cui il grande corpo collettivo ritrova la sua unità. È per questo che, in modo un po’ provocatorio, ho rovesciato le cose, dicendo: “no, bisognerebbe che il teatro o le forme viventi fossero un po’ come quei libri che si guardano e si sfogliano con più o meno attenzione e di cui si costruisce la storia a partire dalla storia stessa”.È quanto accade molto spesso al cinema, dal momento che questo non esisterebbe se non ci fosse l’attività degli spettatori, i quali costantemente rifanno i film alle spalle del cineasta. Ripeto, ciò che conta per me è di ripensare i percorsi dell’emancipazione non come la leva di un grande corpo collettivo, ma come la moltiplicazione delle forme di esperienza che possono tessere un’altra forma di comunità.
J. G.: Già in Malaise dans l’esthétique [6] lei elabora diversi modi di razionalizzazione dell’indeterminazione propria al regime estetico, che condurrebbero oggi ad un regime etico. Può tornare sull’ulteriore giro di vite che Le Spectateur émancipé opera a proposito di ciò che lei chiama la “dialettica inerente alla denuncia del paradigma critico” o della grande questione: “come pensare un regime del vedere (della sensazione) che sfugga al sospetto di idealismo (la paura di essere vittima di un’illusione più o meno elaborata)”; ma anche “come pensare la produttività del sensibile all’opera nell’attività dello spettatore emancipato, la sua potenza immanente, non ricoperta dalla malinconia di una “radicalità infine radicale”, e dalla sua impotenza tautologica, all’opera soprattutto – dice lei – in Baudrillard, Boltanski/Chiapello, Sloterdijk e Bauman? “La malinconia – scrive – si nutre della propria stessa impotenza. Le basta di poter convertire quest’ultima in impotenza generalizzata e di riservarsi la posizione dello spirito lucido che getta uno sguardo disincantato su un mondo in cui l’interpretazione critica del sistema è diventata un elemento del sistema stesso”. Può precisare i diversi fronti e il balletto dialettico tra malinconia di sinistra e furore di destra,che – dice lei – sono le due facce della stessa medaglia e conducono quindi alla stessa conclusione?
Martha Rosler, Bringing the War Home: Balloons |
J. R.: Non invierò il proprio pacco a ciascuno per dire perché ciò che pensa non va bene. No, non è il mio obiettivo. Piuttosto, ciò che mi interessa è questa specie di configurazione globale con la quale si ha a che fare; mi interessa vedere come, nell’arco di quarant’anni, i temi progressisti degli anni ‘50-‘60 – la denuncia della mitologia della merce à la Barthes, quella della società dei consumi à la Baudrillard o quella del feticismo delle merci – tutto questo, un po’ alla volta, si è trasformato. Perché? Perché, infine, in un certo modo, queste critiche – un tempo considerate capaci di insegnare alle persone che erano prese in un mondo niente affatto buono e che andava cambiato – funzionavano solo per il fatto che la gente sapeva (o pensava di sapere) abbastanza bene che non solo bisognava cambiare quel mondo ma anche come cambiarlo. Ma, a partire dal momento in cui svanisce questa certezza sullo scenario nel quale ci si trova – sul fatto che si stesse andando nello stesso senso di marcia della storia e che questa procedesse verso un cambiamento radicale – che cosa succede? Succede che queste procedure cominciano a rovesciarsi su se stesse. Ed è quello che ho illustrato sul piano prettamente visuale, attraverso il modo in cui il fotomontaggio militante degli anni 1970 – quello del genere di Martha Rosler, la
quale ci mostra il povero vietnamita con suo figlio morto nel bel mezzo di un elegante salotto americano – vede trasformarsi il suo significato pur restando formalmente uguale.
Ho commentato questo fatto attraverso una fotografia di Joséphine Meckseper che ci mostra i manifestanti contro la guerra in Irak con un’enorme pattumiera che deborda in modo evidente proprio davanti a loro. Di qui si comprende subito – ed è sempre la stessa cosa – il rapporto tra società di consumo e militanza, ma il rapporto è rovesciato; ormai la pattumiera è in primo piano per dire: “ecco la vostra realtà, dietro voi potete sempre manifestare e far credere che siete oppositori dell’ordine esistente, ma in realtà siete complici in quanto consumatori, etc.”. Ciò che mi interessa, è che in fondo le procedure formali restano le stesse. È il senso che si ritrova completamente invertito. La critica, cioè, diventa una specie di deplorazione passiva. Ossia non dice più: “guardate come è triste, queste persone sono vittime della società dei consumi, ed ecco perché occorre che ci lottino contro”, ma: “ad ogni modo guardate come stanno nella società dei consumi, ci sono dentro fino al collo e sono pure felici”.
È questo ribaltamento che ho commentato attraverso l’analisi di diverse figure. Se si pensa a Sloterdijk il riferimento va al tema dello sgravio, che compare soprattutto in Écumes [7]: le nostre società – sostiene il filosofo – sono società dello sgravio, in esse c’è sempre meno realtà e sempre meno povertà. In questa idea c’è una specie di convinzione assoluta che la povertà sia scomparsa, che la realtà sia scomparsa, e che in fondo sono quelli in cattiva fede a farci credere che la povertà e la realtà esistano. C’è dunque come una specie di spirale della critica: non è più la critica della falsa ricchezza alla Guy Debord, ma la critica della falsa povertà. Questa sorta di malinconia di sinistra dice: “ad ogni modo le persone sono troppo felici. Non solo sono troppo felici ma fanno credere di essere tristi, fanno credere che c’è la povertà e così via”.
Lei vuole che si parli un po’ di Boltanski e Chiapello. Non si può fare in due minuti la critica di un mattone così alto [8], ma, in fondo, la tesi centrale è sempre quella dell’infinita capacità della macchina di recuperare tutto: il capitalismo in difficoltà si è salvato perché ha recuperato lo spirito di creatività dei ragazzi del ’68 che esigevano lavoro “creativo” e cosi via. Ora ce l‘hanno con tutte le varie forme del lavoro flessibile, etc. In un certo senso è una barzelletta perché, da una parte, nel ’68 le persone non domandavano affatto lavoro creativo: richiedevano piuttosto la distruzione del sistema capitalista (e non è certo la stessa cosa). E poi, d’altra parte, perché malgrado tutto la flessibilità che viene praticata oggi ha un significato completamente diverso dall’appello alla libera creatività lanciato dai ragazzi della rivoluzione anti-autoritaria.
Non si entrerà qui nei dettagli, ma è importante il modo in cui il discorso critico – che in principio era teso verso un obiettivo di emancipazione – sia diventato un discorso che si avvita su se stesso finalizzato a spiegare il motivo per cui ogni emancipazione è comunque impossibile dal momento che tutti sono catturati nella macchina e questa gira su se stessa, e quelli che pretendono di criticarla non fanno invece che rinforzarla, e cosi via.
J.G. : Con un’immagine sorprendente, lei evoca Marx come la “voce ventriloqua” ingerita, in realtà digerita, da questa arte critica. Il capitalismo di mercato è uno stomaco infinito e l’arte critica il suo enzima ingordo; di conseguenza ogni dissenso ed ogni distacco critico risultano difficili: può precisare il suo punto di vista in proposito?
J. R. : In effetti, fin dall’inizio nel movimento di emancipazione sociale c’è una duplice possibilità: o si pensa l’emancipazione come qualcosa di fondato sulla capacità di non importa chi – quindi basata su tutte queste forme di metamorfosi dell’esperienza (per esempio, l’operaio che esce dalla propria identità e si appropria dello sguardo, del linguaggio, del pensiero dell’altro) -, o si parte dalle incapacità. Partire dalle incapacità significa partire dall’idea che tutti questi sfortunati sono ingannati dalla macchina, stanno immersi nell’ideologia e che, di conseguenza, bisogna farceli uscire. Evidentemente, per estrarli dall’ideologia, occorre dapprima immergerveli un po’ più a fondo per provare che sono ormai completamente sommersi. È la grande logica della maggior parte dei discorsi che si vogliono emancipatori, ossia: le persone sono dominate perché non sanno che sono dominate, e non sanno che sono dominate perché sono dominate. È grosso modo la logica di Althusser, quella di Bourdieu, una logica molto, molto ampia, la quale ha dovuto nutrirsi di tutta una serie di elementi che gli erano in realtà forniti dall’altro versante, dal pensiero del dominio.
La mia idea è che dobbiamo renderci conto che tutti questi temi ripresi senza fine – i consumatori abbrutiti assorbiti dalle merci, mistificati dalle immagini, etc. – sono stati innanzitutto dei temi reazionari. Nel XIX secolo, al tempo dell’emancipazione operaia, ma anche al tempo della moltiplicazione della parola scritta nei testi romanzeschi – il tempo in cui la città moderna assume le sue movenze e in cui, di conseguenza, c’è spettacolo ovunque, si ha una sorta di estetizzazione dei comportamenti della vita quotidiana, e così via -, al tempo di Madame Bovary per dirla in breve, si assiste proprio allo sviluppo di una specie di critica, di una sociologia o di una scienza politica borghese che dicono: “attenzione! È qualcosa di drammatico perché tutte queste persone del popolo, che cominciano ad interiorizzare testi che gli fanno sognare altre cose, che visualizzano immagini di una felicità impossibile, usciranno dalla loro condizione, assorbiranno immagini, parole, frasi, discorsi che non sono state prodotte per loro, dal momento che loro non hanno il cervello per tutto questo”.
Questo timore che i poveri non si sottraggano alla loro condizione si presenta come una preoccupazione paterna; si dice: “bisogna evitare che le persone, i poveri si stanchino troppo, bisogna evitare la loro eccitazione nervosa”. È facile vedere come tutto questo attraversi anche scrittori progressisti à la Zola: si osserva dal basso il paese, la società che improvvisamente mirano a volersi appropriare di altri testi, immagini, forme di vita. La critica della società dei consumi è innanzitutto una critica spaventata da tutte queste nuove forme di esperienza, e forse c’è un nesso tra Madame Bovary, che cerca di sapere quello che possono voler dire le parole che ha letto nei libri (come felicità, estasi, ebbrezza), e questi proletari che vogliono materializzare parole come libertà, uguaglianza, emancipazione dei lavoratori. Bisogna saper vedere questa tensione, che è presente fin dalle origini nella grande tradizione della critica sociale e – nello stesso tempo – di quella dell’arte critica, che ne riprende le premesse.
Campement Urbain, Je et Nous. Construction de la cabane du gardien de solitude |
J. G. : Ne Lo spettatore emancipato lei impiega parole terribilmente lucide sulle procedure della critica sociale che hanno “il fine di curare gli incapaci, quelli che non sanno vedere, che non capiscono il senso di ciò che vedono, che non sanno trasformare il sapere acquisito in energia militante”. Lei dice anche: “e i medici hanno bisogno di questi malati da curare. Per curare le incapacità, hanno bisogno di
riprodurle indefinitamente. Ora, per assicurare questa riproduzione basta che a turno, periodicamente, si trasformi la salute in malattia e la malattia in salute. […] La macchina può funzionare così fino alla fine dei tempi, capitalizzando sull’impotenza della critica che svela l’impotenza degli imbecilli”. Ciò che può davvero agire contro questo schema è una “vacanza”. Lei lo dice a proposito di un collettivo di artisti, Campement urbain, il quale riconfigura la percezione che si può avere di ciò che si è convenuto definire la “crisi delle banlieues”. Spazio paradossale, inutile, improduttivo, che evoca il rapporto comunità/solitudine e la nozione di una comunità del dissenso. Può tornare su questo caso?
J. R. : Tentosempre di evitare scrupolosamente di dire: “Bene, ecco è così che bisogna fare, ecco quello che fanno i buoni artisti, ecco quello che è la buona politica dell’arte, e cosi via”. Perché quello che mi interessa, le opere che guardo, io le guardo in rapporto ai problemi che pongono, al modo in cui li pongono. Non mi interesso per forza a delle opere per dire: “ecco, questa è la cosa buona da fare”, ma piuttosto per dire: “attraverso questa opera si vede un po’ quali sono le poste in gioco”.
Campement Urbain, Je et Nous. Cabane du gardien de solitude |
È per questo che nel mio libro parlo di questa esperienza del gruppo Campement urbain, non per fargli pubblicità. Io stesso ho sentimenti un po’ contrastanti rispetto a ciò che fanno. È un collettivo che pratica queste forme di arte che vanno verso l’esterno e hanno lanciato un progetto in connessione con i cosiddetti gruppi “problematici” della popolazione delle banlieues, in questo caso della banlieue di
Parigi, nel famoso 93, a Sevran-Beaudottes. Il loro progetto è di mobilitare un gruppo della popolazione per immaginare un luogo.
È interessante che questo progetto consista nel costruire un luogo che appartenga a tutti, ma che al tempo stesso non possa essere occupato che da una persona alla volta. Un luogo in cui ci si possa isolare. Da un certo punto di vista, questo è completamente paradossale perché si dice sempre: “quello che succede nelle banlieues, voi sapete perché accade: è a causa della perdita del legame sociale, dunque bisogna ricostruire il legame sociale”. Quindi si spediscono spesso gli artisti nelle banlieues per ricostruire il legame sociale tramite laboratori di scrittura o altre cose dello stesso tipo. Loro prendono le cose in modo diametralmente opposto, dicendo: “il problema non è di tessere il legame sociale, ce n’è troppo; il problema è quello di creare qualcosa che inneschi una rottura, perché – appunto – in queste banlieues la questione non è che manchi il legame, ma che non se ne possa scegliere la forma”. Creare insieme un luogo dove si possa essere soli è come inventare un’altra forma di sociabilità, scelta e non imposta.
Di questa esperienza (ancora in corso) mi interessa che è quasi un commento a Kant. Sembra paradossale ciò che dico, ma il progetto si chiama “Io e Noi”, cioè consiste in fondo nel creare un luogo per l’individuo isolato che sia immediatamente connesso a una specie di proprietà collettiva. È esattamente la formula kantiana del giudizio estetico: io giudico per tutti, condivido a priori il mio giudizio con tutti quando dico “è bello”. Questo non vuol dire che tutti lo troveranno bello – non è questo il problema -, vuol dire che io prefiguro qualcosa di simile ad un’altra forma di comunità. Ancora una volta, io non pretendo di fornire modelli; per me ciò che conta è che questo progetto mostra come si pongono i problemi.
Si può parlare anche dei tre film che il regista portoghese Pedro Costa ha girato sulla vita e sulla morte di una bidonville nei dintorni di Lisbona, abitata essenzialmente da migranti capoverdiani e da qualche marginale drogato autoctono. Ciò che vi è di interessante e di molto forte in questi film è che – di nuovo – Costa fa una scelta contraria a quella normale. Normalmente si dice: “non bisogna estetizzare la povertà”. Si dice sempre: “attenzione, bisogna rappresentare la povertà così com’è: miserabile”. Ora, al contrario, Pedro Costa si sforza di valorizzare tutto quello che è contenuto, in termini di ricchezza sensibile, nell’esperienza delle persone che vivono in queste miserabili bidonvilles. E questo fa sì che l’immagine, da cima a fondo, sia assolutamente superba e che denunci precisamente, attraverso la sua bellezza, questa specie di assegnazione delle parti che si opera sempre quando si dice: “per i poveri niente bellezza, per i poveri serve il reale; bisogna mostrare la loro sofferenza e il modo in cui possono liberarsene, e non divertirsi a mostrare che anche per loro i riflessi del sole fanno belle le cose, non mostrare che pure loro condividono una certa ricchezza del sensibile”. Quello che è fantastico nei film di Pedro Costa è che, appunto, viene operata tutta una serie di alterazioni. In primo luogo tra il documentario e la fiction. Ci ricordiamo la celebre frase di Godard “la fiction è per gli israeliani, il documentario per i palestinesi” (significa che il documentario è per le vittime; se si parla delle vittime si fa un documentario, è la realtà, non la si abbellisce).
Mario Ventura Medina nel film di Pedro Costa Juventude em Marcha |
Ora, nei film di Pedro Costa c’è questa alterazione del rapporto tra documentario e fiction, tra l’estetico e il sociale. E poi c’è anche una specie di rovesciamento delle posizioni perché l’eroe del terzo film, Juventude em Marcha, è un migrante capoverdiano, Ventura, un vecchio muratore che ha avuto un incidente, che ha una certa ferita nel cranio. La cosa straordinario è che non è assolutamente lo sfortunato migrante il personaggio da compiangere, bensì una specie di signore, di sublime errante, di re Lear o di Edipo che attraversa il film. C’è una sequenza assolutamente straordinaria: Ventura è a Lisbona, è al Museu Gulbenkian, grande silhouette nera tra un Rubens e un Van Dyck; il guardiano del museo, anch’egli nero, lo accompagna, come se gli dicesse in silenzio: “bene, ascoltami vecchio, esci un po’ da qui, non è proprio il tuo posto”. Ma è interessante il fato che in realtà l’immagine visualizza il contrario: dice che non è lo sfortunato ad essere privato delle ricchezze dell’arte, al contrario la sua presenza giunge a rovesciare il rapporto e a dire che, alla fine, questa ricchezza dell’arte è incapace di rappresentare la ricchezza d’esperienza della quale occorrerebbe dar conto.
J. G. : In definitiva, dopo aver esaminato lo scacco di un certo tipo d’arte critica, lei evoca il suo possibile effetto residuale in termini sensoriali piuttosto che intellettuali e aggiunge: “questo effetto non può essere una trasmissione calcolabile”. Scrive anche: “il lavoro critico […] è anche quello che esamina i limiti propri alla pratica artistica, che rifiuta di anticipare il suo effetto e tiene conto della separazione estetica tramite cui questo effetto si trova ad essere prodotto”. Non è tuttavia contingenza o relativismo, solo “si passa da una modalità del sensibile ad un’altra modalità del sensibile”. Può precisare un po’ questo lavoro di cambiamento di contesto, di scala e di ritmo fatto di chocs o di rotture nel tessuto del sensibile, nelle percezioni e nella dinamica degli affetti che sembra creare una specie di mondo il cui criterio sarebbe la finzione?
J. R. : È il paradosso che vive l’arte contemporanea: si continua sempre a fare come se la politica dell’arte fosse personificabile da un artista che dice: “io mostrerò questo, farò passare questo messaggio, produrrò questo risultato”. È quanto si vede costantemente con tutte queste istallazioni che ci dicono: “bene, metterò nel museo una piccola cabina in cui si sentono dei suoni disco, questo criticherà la società dei consumi, oppure prenderò un clip un po’ rielaborato, etc. per mostrare come gli individui siano vittime dei media”, e cosi via. E l’effetto viene sempre presupposto.
Ora, che cos’è precisamente la rottura estetica? È il fatto che non si può presupporre l’effetto. Non che io cada in estati davanti all’indecidibile: non è questo il problema. Non si tratta di questo. Si tratta semplicemente di dire che, come nella relazione pedagogica, il maestro parla ma non fa mai passare il suo sapere nella testa dell’allievo, così allo stesso modo l’artista elabora grandi strategie del tipo “ecco, metto questo, questo e questo così per provare questa cosa e le persone la vedranno così e la comprenderanno proprio in questo modo”, ma ciò non accade.
Alla fine dei conti, l’artista dispone i suoi elementi e in seguito gli spettatori, i visitatori vengono. E sono loro che, con la propria storia, la propria esperienza e così via, scelgono come ricomporre quegli elementi, come assemblare ciò che vedono. E in effetti il problema è di riuscire ad oltrepassare questa specie di sovraccarico pedagogico, che è spesso la peculiarità degli artisti ma anche delle persone da museo. Tutte queste politiche fanno sempre come se si potesse predeterminare l’effetto. A dire il vero, tuttavia, l’emancipazione comincia proprio quando c’è rottura tra causa ed effetto. È in questa apertura che si iscrive l’attività dello spettatore.
J. G.: Durante tutta questa discussione si è parlato dell’opera dal punto di vista ex post (una volta che essa è stata prodotta). Sarebbe interessante anche parlare ex ante del momento in cui l’opera d’arte viene creata: che ne è in quel momento del problema relativo al nesso choc sensoriale (o distanza estetica)/effetto di senso (o effetto politico)? Che fare dell’indecidibile che l’opera può rappresentare (come reagire a quell’indecidibile, come manipolarlo)? Come mantenerlo (compresa la sua “novità”)? Da qui, implicitamente, la questione dello statuto e delle modalità di una critica (o di un pensiero dell’arte) che giudicherebbe la potenza che le opere hanno di mantenere questo indecidibile con prove alla mano, cioè mediante i loro effetti: qual è qui il criterio?
J. R. : Non credo che vi siano criteri. C’è un insieme di decisioni. La prima è che si vuol dire o mostrare qualcosa del mondo nel quale si è, in se stessi, spettatori. È la reazione propria che si ha nei confronti del mondo in cui si vive, della distribuzione dei posti e delle identità che lo costituiscono. Si predispone l’opera secondo la modalità più propria ad attribuire a questa parola, a questa pittura, a questa performance, etc. il mondo sensibile alternativo in essa potenzialmente presente. Ma al contempo si decide che non si è padroni del suo effetto, che non ci si rivolge ad un pubblico predeterminato per produrre un effetto predeterminato. Pedro Costa segue la sua idea, fa il suo film affrontando l’imprevedibilità del suo personaggio, costruendo un mondo sensibile per il suo sguardo, la sua parola, le sue deambulazioni. Questo mondo sensibile alternativo contiene anche uno spettatore possibile.
Ciò detto, evidentemente, quando il film giunge davanti alle commissioni, i commissari dicono “Oh la la! È un film da festival, è buono per le mostre. Quindi non per la distribuzione. Passerà una settimana in una piccola sala per gli esteti, poi basta”. La decisione estetica e politica dell’artista è di ignorare l’alternativa nella quale la logica dominante lo rinchiude, di continuare a costruire il suo mondo e il suo popolo. È qui che la “critica” assume il suo senso. Evidentemente non è un lavoro da specialista che giudica le opere e avverte un pubblico predeterminato della sua probabile reazione. È un lavoro che amplia le proposte di mondi alternativi che le opere costruiscono. È dunque, sempre, anche un lavoro d’artista.
Jacques Rancière è filosofo e insegna all’università di Paris 8-Saint Denis. Allievo di Luois Althusser, ha pubblicato una trentina di opere, tra cui Le Maître ignorant; Les Noms de l’histoire; La Mésentente ; Le Partage du sensible; La Haine de la démocratie; Et tant pis pour les gens fatigué. Entretiens.
Jérôme Game è scrittore. Collabora alle riviste Inventaire-Inventionet Action Poétique, ed è co-fondatore del quartetto poetico-musicale <sense high/sense low<. Recentemente ha pubblicato Ça tire seguito da Ceci n’est pas une liste; Flip-Book e Ceci n’est pas une légende ipe pe ce (DVD di video-poemi).
L’intervista è stata pubblicata grazie alla cortese autorizzazione degli autori e della Revue Internationale des Livres et des Idées (RiLi: www.revuedeslivres.net.) alla quale restano tutti i diritti. Prima pubblicazione in francese: Critique de la critique du “spectacle”. Entretien avec Jérôme Game par Jacques Rancière, in La Revue Internationale des Livres et des Idées, n° 12, juillet-août 2009, ora anche in Jacques Rancière, Et tant pis pour les gens fatigués. Entretien, Paris, Editions Amsterdam, 2009.
Note
[1] J. Rancière, Le spectateur émancipé, Paris, La fabrique, 2008.
[2] G. Debord, La Società dello Spettacolo (1967), Milano, Baldini e Castoldi, 1997, p. 63. In realtà, con riferimento allo “spettatore” e non all’ “uomo”, Debord scrive “plus il contemple, moins il vit” (“più egli contempla, meno vive”) (n.d.t.).
[3] Ivi, p. 55.
[4] J. Rancière, Le Maître ignorant : Cinq leçons sur l’émancipation intellectuelle, Fayard 1987 [trad. it. Il maestro ignorante, Milano, Mimesis, 2008].
[5] Joseph Jacotot è il personaggio collocato da Rancière al centro deLe maître ignorant . All’inizio del XIX secolo, con la sua esperienza eretica, questo “maestro ignorante” mise in crisi le basi teoriche della prassi pedagogica tradizionale (n.d.t.).
[6] J. Rancière, Malaise dans l’esthétique, Paris, Galilée, 2004 [trad. it. Il disagio dell’estetica, Pisa, Ets, 2009].
[7] P. Sloterdijk, Sphère III. Écumes, Paris, Éditions Maren Sell, 2006
[8] L. Boltanski e È. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Paris, Gallimard, 1999.
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