L’inchiesta prima di tutto: Vittorio Rieser
di Damiano Palano
In una famosa fotografia scattata all’inizio degli anni Sessanta, probabilmente nel settembre 1962, si trova fissato un frammento della vita dei «Quaderni rossi», una delle riviste che più ha inciso nella storia intellettuale italiana del secondo dopoguerra (e forse dell’intero Novecento). L’uno accanto all’altro, con le spalle rivolte al muro e gli occhi diretti verso un oggetto che rimane fuori dal campo, nella foto sono ritratti Gaspare De Caro, Raniero Panzieri, Toni Negri e Mario Tronti.
Con l’eccezione di De Caro, che dopo aver fornito alcuni contributi importanti negli anni Sessanta preferì assumere una posizione più defilata, gli altri tre protagonisti dell’immagine sarebbero stati ricordati – e sono ancora oggi in gran parte considerati – come i principali esponenti del cosiddetto «operaismo» italiano.
E una simile ricostruzione ha senza dubbio più di qualche fondamento, perché il contributo dei tre intellettuali – ognuno dei quali ha proceduto peraltro in direzioni politiche molto differenti – ha davvero impresso un’impronta indelebile a quella rilettura del marxismo in cui si può intravedere il tratto forse più originale della «Italian Theory» (sempre che una simile formula abbia davvero qualche utilità).
Ma se si volesse ricostruire la genesi dell’operaismo, e se si volesse dar conto della sua ricchezza, sarebbe necessario riconoscere anche la pluralità di prospettive e di percorsi che convissero all’interno di un filone assai più eterogeneo di quanto le etichette facciano talvolta supporre.
A dispetto del ruolo che Panzieri e Tronti ebbero nel definire le ipotesi iniziali, e degli sviluppi apportati da Negri tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, sarebbe per esempio indispensabile riconoscere che il concetto di «composizione di classe» – un concetto davvero centrale per l’operaismo – ebbe la sua genesi soprattutto nelle ipotesi e nelle ricerche condotte da Romano Alquati nella prima metà degli anni Sessanta, e che molte intuizioni di Sergio Bologna ebbero una funzione essenziale nell’indirizzare il suo sviluppo ulteriore, così come per la sua problematizzazione critica. Ma un quadro che volesse davvero restituire la complessità e la ricchezza dell’operaismo italiano non potrebbe neppure dimenticare il contributo di Vittorio Rieser.
Nonostante il percorso teorico e politico di questo «intellettuale militante» si sia ben presto allontanato da quelle traiettorie che abitualmente sono considerate come una filiazione (più o meno diretta) dell’esperienza avviata dai «Quaderni rossi», Rieser mantenne infatti ben salde alcune delle idee maturate all’inizio degli anni Sessanta. E, soprattutto, non abbandonò mai la convinzione che l’«inchiesta», che Panzieri indicò come punto di partenza del lavoro dei «Qr», fosse lo strumento imprescindibile per avviare qualsiasi progetto politico.
A pochi mesi dalla sua scomparsa – avvenuta il 22 maggio 2014 – un ricco volume curato da Matteo Gaddi offre l’occasione per ricostruire il percorso di Rieser, ripubblicando alcuni suoi interventi recenti, ma raccogliendo soprattutto le testimonianze di quanti ebbero occasione di lavorare con lui nel corso di più di mezzo secolo, come per esempio Goffredo Fofi, Giovanni Mottura, Francesco Ciafaloni, Liliana Lanzardo e Bianca Beccalli[1]. I contributi accolti nel volume non sono comunque interessanti solo perché forniscono una testimonianza umana, ma anche perché iniziano a offrire alcuni elementi preziosi per la ricostruzione dell’itinerario di quello che – con le parole di Fofi – può essere considerato come «uno dei più bei personaggi espressi dalla storia del movimento operaio nella seconda metà del Novecento»[2].
Un intellettuale militante
Nato a Torino nel 1939, Rieser cominciò molto presto il suo impegno politico, già nella seconda metà degli anni Cinquanta, all’interno dell’Unione Socialisti Indipendenti (Usi), una piccola formazione antistalinista fondata nel 1951 da Valdo Magnani e Aldo Cucchi. La prima esperienza che avvicinò Rieser al metodo dell’inchiesta – uno strumento che sarebbe poi rimasto centrale – avvenne però in Sicilia, al seguito di Danilo Dolci, nel 1956. Alcuni giovani militanti torinesi che avranno poi un ruolo importante nella nascita dei «Quaderni rossi» – come Giovanni Mottura ed Emilio Soave – svolsero a Palermo e in alcuni piccoli centri siciliani un’inchiesta, cui Dolci fornì comunque una chiave molto diversa da quella in seguito adottata per le inchieste operaie[3].
Per Mottura la collaborazione con Dolci si sarebbe protratta ancora per alcuni anni, fino al 1959, ma per Rieser – che fra l’altro conobbe Fofi proprio in Sicilia – si concluse già nel 1956, e da quel momento le sue energie si indirizzarono prevalentemente verso la dimensione della fabbrica. Dopo la confluenza dell’Usi nel Psi, avvenuta al congresso del 1957, Rieser (sempre insieme a Mottura) aderì alla corrente che faceva capo a Lelio Basso e che avrebbe trovato una sede di dibattito teorico importante con la fondazione di «Problemi del socialismo». Proprio in questo periodo Rieser, Mottura e Pugliese iniziarono a «organizzare una presenza studentesca a supporto delle lotte operaie, con la Cgil torinese, quella di Garavini, Alasia, Pugno»[4]. E in quella stessa fase, Mottura ebbe anche modo di prendere parte all’inchiesta sugli operai della Fiat promossa da Giovanni Carocci e pubblicata su «Nuovi Argomenti»[5].
I primi contatti con la realtà sindacale – e in particolare con la Fiom – dovevano gradualmente consolidare un piccolo gruppo di giovanissimi militanti di provenienza eterogenea, ma accomunati da una forte avversione allo stalinismo, che affiancavano alla formazione teorica il contatto con la fabbrica e con le rivendicazioni dei lavoratori: «da un lato, uno studio di storia del movimento operaio, centrato in particolare sulla rivoluzione russa (e largamente ispirato – e direttamente guidato – da un’impostazione “eterodossa”, trozkista o anarchica); dall’altro, […] uno studio dei problemi sindacali, in cui i dirigenti della Cgil torinese, da Garavini ad Alasia a Pugno a Fernex, ci spiegavano i principali elementi della contrattazione e la situazione delle fabbriche»[6].
Il piccolo gruppo assunse un ruolo diretto in alcune vertenze contrattuali del 1959, anche perché l’azione di quel nucleo di studenti (per quanto non certo cospicuo) riusciva a compensare l’assenza del sindacato in molte realtà torinesi. In uno dei primi scritti di Rieser, apparso proprio su «Problemi del socialismo» e dedicato a uno sciopero alla Magnadyne di Torino (una fabbrica di televisori con una quota elevata di manodopera femminile), si può già ritrovare non solo una traccia significativa di quelle esperienze di intervento, ma anche l’anticipazione di motivi che, di lì a poco, diventeranno centrali per la riflessione dei «Qr».
Stilando un bilancio delle mobilitazioni cominciate nel ’59, Rieser notava infatti che nel corso della vertenza erano emersi «non solo una generica combattività ‘spontanea’, ma un tipo di partecipazione politica organizzata in forme autonome (le assemblee di sciopero), e – entro certi limiti – una notevole capacità di decisione e di giudizio sulla linea dei sindacati»: elementi che addirittura sembravano suggerire che andasse emergendo l’«embrione di una nuova forma di organizzazione permanente»[7].
Rieser e i «Quaderni rossi»
Una sollecitazione decisiva a ripensare le modalità di questo intervento giunse senza dubbio dall’incontro con Panzieri, che si era trasferito a Torino per lavorare all’Einaudi nel 1959 e che ben presto trovò in Rieser, Mottura e Pugliese un piccolo nucleo con cui impostare il lavoro da cui sarebbero poi scaturiti i «Qr», e da cui sarebbe nato anche il progetto di un’inchiesta sugli operai della Fiati. Come ricordava Rieser nel 2001: «Lì l’influenza di Panzieri è stata determinante, nel senso che noi lavoravamo in quel momento con il sindacato non sulla Fiat ma in altre fabbriche torinesi, sostanzialmente quelle dove c’erano già delle lotte, e dicevamo “continuiamo a fare il lavoro su queste cose, alla Fiat come si fa?”.
Panzieri, invece, diceva: “no, dobbiamo affrontare la questione e il nodo della Fiat, e l’unico modo per farlo è lo strumento dell’inchiesta”. Quindi, a quel punto sull’inchiesta alla Fiat si coagularono tutti»[8]. Al gruppo dei giovani torinesi si aggiunsero anche altri elementi, destinati ad avere un ruolo fondamentale nella vita della rivista. Tra questi – oltre al gruppo romano, composto soprattutto da Tronti, Asor Rosa, De Caro, Rita Di Leo – non certo secondario fu l’apporto di Alquati, Emilio Soave e Romolo Gobbi, che provenivano da un percorso diverso rispetto a Rieser e Mottura, e che vissero peraltro la loro esperienza nella rivista con una certa estraneità.
Sul primo numero dei «Qr», oltre al contributo molto evidente del mondo sindacale torinese e al fondamentale saggio di Panzieri sull’uso delle macchine nel neo-capitalismo, spiccava senza dubbio un importante testo proprio di Alquati, nel quale si prefiguravano molti di quei tratti delle «forze nuove» della Fiat destinati a emergere negli anni seguenti[9]. Il saggio di Alquati era in realtà il testo di una relazione presentata a un convegno sulla Fiat organizzato dal Psi torinese, ed era dunque il frutto di un’elaborazione indipendente da quella del gruppo guidato da Panzieri.
Ciò nondimeno, in un breve intervento apparso ancora prima dell’uscita del primo numero della rivista, Rieser non si lasciava sfuggire l’importanza delle osservazioni di Alquati, che intuiva – osservando i comportamenti dei nuovi operai – una disponibilità al conflitto tutt’altro che episodica, benché abissalmente distante da quella dei vecchi quadri. In particolare Rieser sottolineava, accanto alle «contraddizioni di fondo della condizione operaia alla Fiat», soprattutto «gli elementi che portavano questo conflitto a uno stadio cosciente», e cioè «il crollo dei ‘miti’, dei modelli di valori con cui la Fiat aveva tentato di integrare l’operaio nel sistema aziendale»[10].
Simili elementi non potevano certo indurre a generalizzazioni eccessivamente schematiche, ma dovevano piuttosto suggerire la necessità di ripensare l’azione sindacale, adeguandola al livello della soggettività operaia e utilizzando politicamente le contraddizioni nei modelli valoriali: «Così come i modelli di consumo sono strumentali per la direzione capitalistica, le loro contraddizioni vanno viste altrettanto strumentalmente dal movimento operaio. I modelli di valori ‘aziendali’ sono lo strumento dell’integrazione (basata su una mistificazione della condizione oggettiva dell’operaio nella produzione capitalistica); le loro contraddizioni devono essere uno strumento per rompere l’integrazione, e per giungere quindi a una coscienza dei problemi di fondo, cioè della struttura del potere capitalistico dentro e fuori la fabbrica».[11]
Benché la posizione di Rieser sembrasse convergere su molti punti con quella di Alquati, tra le due prospettive rimanevano però notevoli differenze, in parte ‘metodologiche’, ma soprattutto ‘politiche’, relative in particolare al modo stesso di intendere l’organizzazione ‘politica’.
Nel primo numero dei «Qr» tali differenze erano però quasi invisibili, e sarebbero emerse solo più tardi, dinanzi peraltro a urgenze politiche. D’altronde, l’editoriale di apertura di Vittorio Foa sposava la visione che avrebbe contraddistinto la riflessione dei «Qr» e anche quei limiti che sarebbero stati in seguito spesso rimproverati all’operaismo degli anni Sessanta: limiti che consistevano innanzitutto nella convinzione che lo sviluppo economico dovesse rendere del tutto obsoleta anche la vecchia distinzione fra un Nord industriale e un Sud arretrato, e in secondo luogo nell’idea che la pianificazione dovesse accrescere sensibilmente il ruolo economico dello Stato (e che si dovesse persino imboccare la via di una gestione ‘autoritaria’ dello sviluppo)[12].
I contributi pubblicati da Rieser sui primi due numeri della rivista in realtà si concentravano sui criteri di definizione del settore e sulla classificazione del lavoro, e in buona parte sembravano applicare a questo tema la chiave fornita da Panzieri nel saggio sull’uso delle macchine[13]. Il settore andava infatti ridefinito «in rapporto agli obiettivi dell’azione sindacale, e non solo in rapporto a certi criteri tecnologici e produttivi che si riflettono nell’attuale spinta contrattuale», e ciò comportava anche che si potesse giungere a una definizione politica del settore, da intendere come «una possibilità obiettiva di connessione e generalizzazione di rivendicazioni, nuove in quanto investono aspetti del processo produttivo che finora non erano direttamente toccati, in modo organizzato, dall’antagonismo di classe»[14].
Sul secondo numero il discorso di Rieser si estendeva – adottando la medesima logica – alla classificazione del lavoro, e anche a questo proposito venivano indicati gli scopi che la classificazione sindacale avrebbe dovuto perseguire: «a) rompere l’“apparenza capitalistica” che tende a nascondere (progressivamente) l’importanza (progressiva) della forza-lavoro. […] b) fornire “prezzi aggiuntivi” al prezzo di mercato della forza-lavoro. […] c) opporsi alla disponibilità di manodopera»[15].
A chiarire quale fosse la prospettiva che Rieser adottava in questa fase è forse però un testo sulle mansioni apparso nel novembre 1961 in «Problemi del socialismo». Criticando la linea seguita a lungo dai partiti di sinistra sulle lotte sindacali, Rieser sottolineava invece come fosse indispensabile tornare alla condizione operaia, soprattutto per individuarvi «quei problemi che più direttamente si legano alla struttura del potere capitalistico nella fabbrica»[16]. La mansione doveva dunque essere considerata sotto il profilo del potere, e dunque come «complesso di decisioni direttamente o indirettamente inerenti alla produzione del prodotto»[17]. Secondo la lettura di Rieser, le trasformazioni produttive rendevano sempre più importanti le decisioni operaie, e ciò tendeva a profilare «una contraddizione potenziale fra la portata crescente delle decisioni ‘tecniche’ degli operai e la concentrazione crescente verso l’alto delle decisioni ‘politiche’»[18].
La contraddizione ‘potenziale’ non si traduceva necessariamente in risultati politici, ma richiedeva comunque un intervento adeguato da parte delle organizzazioni del movimento operaio: «non vi è un rapporto automatico fra questa contraddizione e determinate conseguenze di rottura nel sistema. La contraddizione ‘di per sé’ non giunge a queste conseguenze: essa, ad esempio, non impedisce di per sé il funzionamento della produzione e l’espansione dell’azienda; essa crea senza dubbio anche delle disfunzionalità sul piano tecnico-produttivo, ma tutto ciò non porta a nessuna conseguenza automatica. Le conseguenze possono nascere se su questa contraddizione si inserisce un intervento cosciente delle organizzazioni operaie, che intenda sviluppare il contrasto su un piano politico, di lotta di classe nella fabbrica»[19].
Uno spirito simile emergeva, alcuni mesi dopo, anche da un testo dedicato al ruolo dei trasporti nell’integrazione della classe operaia, comparso sempre su «Problemi del socialismo». Al di là delle conclusioni provvisorie cui Rieser giungeva in quell’intervento, l’ottica era sostanzialmente la stessa che emergeva dal secondo numero dei «Qr», aperto dal famoso testo di Tronti su La fabbrica e la società e contrassegnato dall’attenzione rivolta alla progressiva integrazione dei diversi momenti del ciclo produttivo (anche di quelli disseminati nella società, al di fuori del perimetro della «fabbrica empirica»). E così Rieser, proprio nelle prime righe, osservava che non si potevano comprendere le scelte di innovazione capitalistica senza considerare «la variabile integrazione della classe operaia nel sistema: cioè l’eliminazione di ogni comportamento disfunzionale al sistema da parte della forza-lavoro; al limite, l’eliminazione di questi comportamenti ad opera della forza organizzata della classe operaia stessa»[20].
«Sociologi» ed «hegeliani»
A dispetto delle convergenze su alcuni punti cardine della rilettura di Marx e dell’interpretazione delle logiche del neo-capitalismo, alla fine del 1962 – quando veniva pubblicato l’articolo sui trasporti – la lacerazione tra le diverse anime dei «Qr» era ormai alle porte. Più che vere e proprie divergenze teoriche – che comunque esistevano, ma che per molti versi attraversavano trasversalmente i due fronti contrapposti – a determinare la frattura furono soprattutto i progetti politici differenti. In termini molto schematici, il punto discriminante stava nel progetto di dar vita a un giornale di fabbrica e conseguentemente a un’organizzazione politica vera e propria, contrapposta non solo ai due grandi partiti della sinistra italiana, ma anche esterna al sindacato.
Se Rieser, Mottura, Dario e Liliana Lanzardo (cioè il primo gruppo che si era stretto attorno a Panzieri dopo il suo arrivo a Torino) espresse fin dall’inizio riserve notevoli, l’ipotesi del giornale di fabbrica – che poi sarebbe diventato «classe operaia» – ottenne invece un sostegno convinto da un gruppo in realtà piuttosto eterogeneo, composto fra l’altro da Alquati, dal gruppo romano di Tronti e Asor Rosa, dal gruppo veneto raccolto attorno a Negri (che però sino a quel momento aveva avuto un peso ridotto). E a dare alimento a quell’ipotesi stava soprattutto la convinzione che fossero ormai mature le condizioni per una nuova offensiva operaia. La cosiddetta «rivolta di Piazza Statuto» aveva d’altronde esercitato un’influenza non marginale su molti dei protagonisti dei «Qr». Accusato da alcuni ambienti torinesi di aver fomentato la rivolta, il gruppo prese ufficialmente le distanze dai disordini, che Panzieri in particolare valutò in termini estremamente negativi. Ma quella contestazione confermò comunque la determinazione di quei membri dei «Qr» che puntavano verso una ‘radicalizzazione’.
Un tentativo di mediazione fu compiuto con il fascicolo delle «Cronache dei Quaderni rossi», uscito nel settembre 1962, nel quale venivano anche affrontati i fatti di piazza Statuto. Ad aprire il numero era proprio un lungo articolo di Rieser dedicato a La lotta operaia nella programmazione capitalistica (appunti sulla lotta contrattuale dei metalmeccanici), nel quale, pur sottolineando il grande peso della nuova spinta conflittuale, continuava a rimanere centrale il ruolo del sindacato. Rieser non esaminava puntualmente il corso della lotta, anche se forniva una valutazione negativa dei contratti. Ma soprattutto notava come i partiti della sinistra si fossero rivelati ormai pienamente integrati nella logica della programmazione, e come in questo modo le stesse lotte operaie fossero state utilizzate per rompere le resistenze, provenienti dai gruppi capitalistici più arretrati ai progetti di razionalizzazione dello sviluppo avanzati dal governo di centro-sinistra. L’esito contrattuale, in special modo nel caso dell’accordo preliminare con l’Intersind, aveva infatti dimostrato come, grazie all’iniziativa pubblica, si fosse raggiunto l’obiettivo di «imprigionare l’iniziativa autonoma della classe operaia nel modo meno incerto possibile, cioè servendosi delle organizzazioni, sindacali o politiche, della classe operaia stessa»[21].
Dinanzi a questa situazione, e cioè privi di qualsiasi collegamento con le organizzazioni politiche, i conflitti operai avevano assunto i tratti di mobilitazioni ‘anarco-sindacaliste’, ma proprio il sindacato (ossia la Cgil) aveva in questa occasione raggiunto un punto cardine: «l’affermazione dell’autonomia rivendicativa e di lotta del sindacato e della classe operaia, anche di fronte alla programmazione, può acquistare oggi, nel momento in cui concretamente e in modo massiccio si tenta di negare quest’autonomia, un grande valore di prospettiva per tutto il movimento operaio»[22]. E proprio questo punto poteva rappresentare «il nucleo di partenza di una linea di lotta della classe operaia al nuovo livello politico creato dallo sviluppo capitalistico», oltre che «l’unica base reale da cui può partire la ricerca, faticosa e difficile, di una linea politica anti-capitalistica»[23].
Il nodo emerso in occasione dei rinnovi contrattuali del 1962 era considerato da Rieser, in una prospettiva più ampia, anche in un articolo apparso sul terzo numero dei «Qr». Dal punto di vista teorico, il riferimento era rappresentato dall’idea secondo cui la pianificazione tendeva a integrare all’interno della logica dello sviluppo capitalistico anche le diverse organizzazioni politiche e sindacali, rendendone dunque l’azione funzionale alla logica dello sviluppo. Si trattava di una visione che discendeva dagli articoli di Tronti apparsi sulla rivista – e cioè La fabbrica e la società e Il piano del capitale[24] – ma in generale dall’idea (condivisa dallo stesso Panzieri)[25] secondo cui la dimensione del piano dovesse determinare la progressiva riduzione dell’autonomia di partiti e sindacati[26].
Pur condividendo questo quadro interpretativo – in cui però non era difficile ritrovare le tracce di una difficile mediazione tra posizioni ormai distanti – Rieser segnalava però i margini di autonomia che ancora la Cgil sembrava conservare. In altre parole, se Cisl e Uil sembravano ormai pienamente ‘integrate’ nella logica del piano, la Cgil tendeva a mostrare elementi contraddittori, e dunque la presenza contestuale di integrazione e di autonomia. In particolare, in relazione al rapporto fra incrementi della produttività e aumenti salariali, la Cgil mostrava nelle analisi sulle singole realtà aziendali posizioni ben differenti da quelle articolate a proposito del livello generale, in cui invece venivano adottate pienamente le esigenze di una pianificazione equilibrata dello sviluppo (in funzione della riduzione degli squilibri tra Nord e Sud e in vista dell’eliminazione del monopolio)[27].
Quando il terzo numero dei «Qr» uscì, la frattura si era ormai consumata, perché di fatto Tronti, Alquati e il gruppo veneto erano già impegnati a dar seguito al progetto di «classe operaia», il cui primo fascicolo fu pubblicato alcuni mesi dopo, all’inizio del 1964. Se a decidere la rottura con il gruppo di «classe operaia» fu lo stesso Panzieri[28], in vista del dibattito interno la posizione contrapposta a quella di Tronti fu sintetizzata in una serie di Tesi stese da Rieser insieme a Michele Salvati e dedicate a Lotta operaia e prospettiva politica. Da quelle tesi certo non emergevano chiare indicazioni politiche, ma risultava comunque evidente una certa distanza rispetto alle posizioni di Tronti, soprattutto nel momento in cui veniva evocata l’eventualità di una rottura ‘rivoluzionaria’: «L’apertura di una possibilità rivoluzionaria», si leggeva infatti nelle Tesi, «è […] schematizzabile, in termini molto generali, come nascente dall’incontro tra una incapacità, in un momento storicamente determinato, del capitalismo a realizzare le misure di razionalizzazione che, eliminando certi costi contro cui la classe operaia si batte in quel momento, ne assorbirebbe temporaneamente la lotta, e un certo grado di coscienza politica e di organizzazione operaia, tale da portare quest’ultima a decidere una lotta globale per il rovesciamento del sistema».
A dispetto dello stile burocratico con cui le Tesi erano redatte, ciò che spiccava di più – in relazione a ciò che sarebbe diventato l’operaismo italiano con l’esperienza di «classe operaia» – erano, innanzitutto, l’insistenza sul ruolo della «coscienza politica», e, in secondo luogo, una visione del ruolo dell’avanguardia e della strategia in linea con la tradizione leninista. Se infatti – con una celebre mossa – Tronti avrebbe tramutato il partito in «tattica», consegnando la «strategia» ai comportamenti della classe[29], le Tesi assegnavano all’avanguardia la definizione della strategia, con espressioni da cui trapelava anche una certa infatuazione per l’illuminismo tecnocratico della programmazione. E infatti, al punto 3.7, Rieser e Salvati scrivevano: «Sul piano concettuale, l’elaborazione di una strategia rivoluzionaria ha le caratteristiche di un modello di previsione, articolato in due parti: a) previsione di tipi di sviluppo e di ‘contraddizioni’ oggettive (eliminabili) del sistema capitalistico, in vari ambiti; b) previsione di sviluppo delle lotte operaie in rapporto a essi, e dei tipi di organizzazione politica legati alle lotte. […] La verifica dei modelli di previsione formulati avviene nell’impostazione e realizzazione di lotte operaie che siano al tempo stesso, coerenti con tali modelli e coerenti con i criteri politici che si sono scelti. I margini di realizzabilità di lotte di questo tipo sono, ovviamente, variabili. In base alla verifica e falsificazione delle previsioni, operata dalle lotte operaie (sia da quelle impostate coerentemente con i criteri politici dello schema, sia dalle altre), si opereranno modifiche e sviluppi nel modello di previsione, da cui la strategia viene orientata»[30].
Il tentativo di sanare la frattura con l’avvio di un giornale di fabbrica, «Cronache operaie», si rivelò un fallimento, e di quella pubblicazione uscì di fatto solo un numero, nell’autunno del 1963. La scissione del gruppo di «classe operaia» è stata rievocata in molte occasioni, e spesso – nelle ricostruzioni retrospettive – sono state sottolineate le divergenze teoriche tra Panzieri e la visione ‘hegeliana’ che emergeva dagli scritti Tronti[31]. Accanto a questa prima motivazione, si trovava però soprattutto un altro elemento di contrasto, che verteva direttamente sul profilo politico del gruppo, nonché sull’ipotesi di dar vita a un giornale che avrebbe sancito definitivamente la rottura con le formazioni ufficiali del movimento operaio.
E, d’altronde, fu lo stesso Panzieri a indicare nella riunione in cui decise la rottura i termini della divergenza: la lettura di Tronti era «un riassunto affascinante di tutta una serie di errori che in questo momento può compiere una sinistra operaia», «una filosofia della storia, una filosofia della classe operaia»; mentre ciò cui i «Qr» potevano puntare era soltanto «un lavoro di formazione di un’avanguardia rivoluzionaria non di massa, le cui tesi politiche per un periodo prevedibilmente lungo non possono coincidere con il movimento reale, ma possono mirare solo in prospettiva a questa coincidenza»[32]. Il lavoro comune, anche solo limitato a una riflessione teorica, diventava per questo impossibile, almeno agli occhi di Panzieri. E così i due percorsi da quel momento si divaricarono nettamente.
Dopo Panzieri
Dopo la scissione della componente di «classe operaia», il percorso dei «Qr» fu messo a dura prova dall’improvvisa morte di Panzieri. Come ricorda oggi Liliana Lanzardo, Rieser rifiutò di sostituire ufficialmente Panzieri «nella continuità del lavoro della rivista e del gruppo»[33], ma ciò nonostante non cessò di essere una delle sue colonne portanti. Nel quarto numero appariva d’altronde un suo lunghissimo articolo, dedicato a Sviluppo e congiuntura nel capitalismo italiano, nel quale svolgeva un’analisi ad ampio raggio delle prospettive dello sviluppo capitalismo in Italia e dunque dei margini che si aprivano per il conflitto di classe sul breve-medio periodo[34].
E l’anno seguente, nell’aprile 1965, teneva una relazione al seminario dei «Qr» in cui, dopo un’analisi della situazione interna e internazionale, si delineavano alcuni possibili rapporti operativi non solo con «classe operaia», ma anche con alcune formazioni maoiste (e in particolare con le Edizioni Oriente)[35]. Già da questi elementi si potevano d’altronde riconoscere i segnali di un mutamento di sensibilità da parte dei «Qr»[36]. Un mutamento che certo non determinava l’abbandono delle ipotesi originarie, ma che tendeva a riflettersi in una maggiore attenzione verso la dimensione internazionale dello sviluppo e verso le proposte di revisione del marxismo che provenivano dalla «rivoluzione culturale» di Mao.
Se il quinto numero della rivista era interamente dedicato al tema dell’inchiesta (con un importante contributo dello stesso Rieser su Informazioni, valori e comportamenti operai[37], nell’ultimo fascicolo comparivano due articoli di Edoarda Masi dedicati rispettivamente agli Insegnamenti teorici del comunismo cinese e a Rivoluzione nel Viet-nam e movimento operaio occidentale[38]. In quell’ultimo numero, Rieser tornava invece sulla congiuntura internazionale, nel tentativo di prevedere quali fossero i margini di azione negli anni successivi[39].
Ma si poteva intravedere anche in alcuni suoi contributi il fascino che sulla sua elaborazione esercitavano le posizioni cinesi. L’interesse nei confronti di Mao – del tutto assente invece presso la componente, peraltro eterogenea, che diede vita a «classe operaia» – era d’altronde già affiorato fin dal 1963, quando la prima «Lettera dei Quaderni rossi» presentava un testo di Edoarda Masi Su alcuni temi rilevanti nelle posizioni del Partito comunista cinese[40], e sarebbe costantemente riemerso negli anni seguenti. Se lo stesso Rieser firmò alcune delle «Lettere», centrate sul sindacato e su momenti congressuali del Psi[41], l’interesse per la lotta anti-imperialista ricompariva infatti nel documento, firmato Quaderni rossi, Note per una discussione su «Problemi della lotta anti-imperialista e situazione nel Medio Oriente», del giugno 1967[42], e nel testo I cinquant’anni della Rivoluzione d’Ottobre di Dario Lanzardo[43], oltre che nel fascicolo monografico di «Quaderni piacentini» Imperialismo e rivoluzione in America Latina, realizzato in collaborazione con i «Qr» e con «Classe e Stato» (un fascicolo alla cui redazione partecipò lo stesso Rieser)[44].
L’esperienza della «rivoluzione culturale» avrebbe in effetti avuto per Rieser un valore centrale, e ancora nel 2001, ricostruendo le principali matrici teoriche del suo percorso, sarebbe tornato su questo aspetto: «rispetto ai grandi pensatori e leader politici del marxismo, io ho cominciato con Marx attraverso Panzieri, poi sono arrivato a Mao dopo, quando Raniero era già morto, diciamo all’epoca delle rivoluzione culturale, e da lì sono giunto anche a Lenin. Quindi, la risposta che do è di tipo maoista: la soggettività deve essere molto reale, non è qualcosa di costruito dall’avanguardia, dal partito. La soggettività nasce dalle contraddizioni di classe e però molto spesso è disorganica, contraddittoria, che esprime una spinta o rivoluzionaria o comunque di trasformazione: il compito del partito è di tradurla in progetto, cioè di sistematizzare gli elementi e di riproporla a livello di massa. Secondo me, dal punto di vista teorico l’impostazione maoista resta l’unica valida, perché in Lenin c’è un’accentuazione kautskiana molto forte sul ruolo dell’avanguardia, mentre la risposta di Mao è la più realistica»[45].
L’esplosione
Dopo la conclusione delle attività dei «Quaderni rossi», Rieser – come si è d’altronde visto a proposito del numero sull’imperialismo in America Latina – si era avvicinato al gruppo dei «Quaderni piacentini», cui peraltro collaborava anche Goffredo Fofi. Dopo aver presentato sulla rivista alcuni testi inediti di Panzieri, tra cui la famosa relazione su Lotte operaie nello sviluppo capitalistico[46], Rieser pubblicava per esempio un articolo in cui sintetizzava alcuni elementi di analisi sulle traiettorie del capitalismo europeo, già ampiamente trattati sul sesto numero dei «Qr». La congiuntura, secondo Rieser, tendeva a esasperare i margini di intensificazione del lavoro sugli impianti esistenti, senza al tempo stesso poter offrire contropartite rilevanti. Ma questo alimentava una forte risposta operaia, difficile da mediare. «L’attuale fase della razionalizzazione», scriveva per esempio, «stimola la reazione operaia proprio là dove il capitalismo è più vulnerabile anche dalle forme spontanee, meno organizzate, di lotta: cioè al livello dell’organizzazione del lavoro»[47].
Ciò naturalmente non comportava una debolezza della controparte, ma certo consegnava margini notevoli all’azione operaia, che – nel quadro di una progressiva integrazione delle forze politiche e sindacali – si trovava priva di forme organizzate capaci di esercitare un ruolo di guida. Dinanzi a una simile situazione, pur prendendo le distanze dalle posizioni di «classe operaia», Rieser riteneva fosse indispensabile costruire margini di azione al di fuori delle organizzazioni consolidate: «è necessario cioè ripartire dalle radici della spontaneità operaia, con i problemi sindacali che ne vengono posti, e cercare di farle ripercorrere un cammino di crescente coscienza ed organizzazione politica»[48].
Inoltre, anche se ammetteva che le rivendicazioni puramente economiche assumevano un profilo direttamente ‘politico’, pensava però che la spontaneità non fosse sufficiente, e che fosse dunque comunque necessario cercare di costruire un’organizzazione più stabile, almeno tendenzialmente alternativa a quelle ufficiali. Pur consapevole delle enormi difficoltà, argomentava infatti la necessità di «iniziare un graduale e metodico lavoro di ‘ricollocamento’, che si sviluppi contemporaneamente in due direzioni: verso la creazione di forme organizzative operaie in fabbrica, capaci di cominciare a rispondere sindacalmente ai problemi creati dalla razionalizzazione capitalistica […], e verso la politicizzazione graduale degli elementi di reazione spontanea al sistema che esistono ora»[49].
Il terreno su cui praticare quel lavoro di sperimentazione era rappresentato dai giornali di fabbrica, di cui erano esempio «Il potere operaio» toscano, ma soprattutto la «Voce operaia», un foglio torinese realizzato direttamente da operai (cui Rieser aveva fornito un supporto importante). Ma ben presto i ritmi – che Rieser prevedeva piuttosto lenti – subirono un’improvvisa accelerazione, dovuta all’esplosione della contestazione studentesca, che in Italia ebbe un epicentro proprio a Torino. Rieser – che allora era assistente di Sociologia – giocò un ruolo significativo nel sostenere la necessità che gli studenti si volgessero verso la dimensione di fabbrica, per trovare un terreno su cui rilanciare il carattere della contestazione[50]. Il movimento torinese appariva invece nel suo complesso piuttosto lontano dalle posizioni di Rieser, se non altro perché per tutta la prima fase – dall’autunno 1967 fino alla primavera dell’anno seguente – il tema principale fu rappresentato dalla lotta contro l’«autoritarismo»[51].
Iniziative come quella della Lega Studenti-Operai ebbero dunque scarso impatto sulla gran parte del movimento torinese, almeno fino ai primi mesi del 1969[52]. Proprio in quel periodo Rieser firmò insieme a Mario Volterra una lunga analisi, dedicata a Movimento studentesco, Pci e centro-sinistra, nella quale si consideravano le diverse alternative che la contestazione universitaria si trovava di fronte. Se per un verso venivano ribadite le linee di interpretazione dello sviluppo capitalistico già svolte in precedenza, il dato più rilevante era in questo caso rappresentato dalla comparsa proprio di un soggetto come il movimento studentesco, che pareva offrire le condizioni di un’estensione del fronte antagonista. Come scrivevano Rieser e Volterra, «si aprono […] possibilità concrete di tradurre in pratica il potenziale allargamento dello schieramento rivoluzionario che – teoricamente – il processo di proletarizzazione dovrebbe produrre nelle società capitalistiche avanzate»[53].
Ma le potenzialità non equivalevano necessariamente a risultati politici, perché andavano già prendendo corpo tendenze che puntavano a ridimensionare la portata antagonista della protesta studentesca e a funzionalizzarne la spinta alle esigenze stesse delle pianificazione dello sviluppo. Ed era a questo proposito che, nell’analisi di Rieser e Volterra, faceva la comparsa il discorso ‘maoista’ sulla «linea di massa». In questo senso, in un passaggio cruciale, scrivevano infatti: «Per costruire un minimo di strategia e di organizzazione unitaria è necessario, ancora una volta, partire da una analisi delle classi nella società in cui agiamo: da una analisi delle classi nel senso maoista, cioè un’analisi politica che individui il tessuto di contraddizioni in cui le varie classi si situano nel momento attuale e la posizione in cui ciascuna di esse si colloca (o può collocarsi) rispetto a una linea rivoluzionaria.
Quest’analisi è particolarmente possibile ora (o meglio, può dare ora risultati diversi e più precisi che nel recente passato) anche in seguito all’azione del Ms: che, portando alla luce, estendendo e intensificando i conflitti esistenti nella società, spinge via via strati sociali (finora passivi o in posizione ambigua) a prendere posizione – in toto o spaccandosi all’interno o per ora in loro parti minoritarie – schierarsi nella lotta da una parte o dall’altra. Proprio per questo collegamento oggettivo esistente tra l’azione del movimento e l’attuale configurazione dello schieramento di classe, il Ms può effettuare quest’analisi partendo da un’analisi della natura e delle ragioni della ragioni della ‘disponibilità politica’ mostrata dai vari strati sociali rispetto all’azione del Ms (senza ovviamente far poi di questo l’unico criterio di misura della più generale ‘disponibilità rivoluzionaria’ di ciascun strato)»[54].
Benché in queste argomentazioni fossero evidenti le influenze maoiste, in realtà per Rieser l’enfasi sull’analisi della realtà di classe equivaleva, ancora una volta, alla riaffermazione della centralità dell’inchiesta, come strumento attraverso cui pervenire alla definizione della linea politica e delle modalità organizzative. Se Rieser e Volterra indicavano al movimento studentesco la necessità di rinnovare il proprio repertorio di azione e soprattutto di trovare una connessione con le lotte operaie, gli eventi dei mesi successivi sancirono in effetti una almeno parziale saldatura di queste due componenti, attorno alle lotte Fiat.
E, sul numero successivo dei «Quaderni piacentini», lo stesso Rieser poteva riassumere, in una lunga intervista, le sequenze del conflitto, destinato a conoscere una prima vetta negli scontri di corso Traiano, il 3 luglio 1969[55]. In quella fase, alle porte della Fiat erano ormai arrivati molti dei frammenti della galassia operaista, e iniziava a prendere avvio la divaricazione tra quelle due anime da cui, di lì a poco, sarebbero nati tanto Potere operaio quanto Lotta continua. Forse fu lo stesso Rieser, insieme a Mario Dalmaviva, a coniare la formula «La Lotta continua», firmando con questa sigla i volantini dell’assemblea operai-studenti[56]. Nonostante alcuni elementi di vicinanza (tra cui una certa sensibilità ai temi della «rivoluzione culturale»), Rieser non aderì mai al gruppo di Sofri.
Naturalmente conservò una distanza ancora maggiore da «La classe», il giornale che di lì a poco si sarebbe trasformato in «Potere operaio». Rispetto alle impostazioni di quest’ultimo gruppo, Rieser esprimeva chiaramente il proprio dissenso già nell’estate 1969, nonostante riconoscesse a «La classe» il merito di aver compreso la centralità delle rivendicazioni salariali. La distanza di Rieser stava però tutta nel giudizio di «spontaneismo» che dava del gruppo che faceva capo a Negri e Bologna, e – più precisamente – che fosse necessario lavorare per costruire delle avanguardie capaci di dare continuità alle rivendicazioni. In particolare, Rieser riteneva cruciale costruire «avanguardie di massa», costituite sui luoghi di lavoro da elementi che fossero in grado di operare «una certa unificazione delle parole d’ordine», di «svolgere un’azione di collegamento», di «creare embrioni di organizzazione che abbiano certe possibilità di durata in fabbrica»[57].
Ma, oltre a questo, era anche necessario pensare a vere e proprie «avanguardie politiche», in fondo molto simili alle avanguardie della tradizione marxista-leninista: «Non possiamo assolutamente rinviare il processo di formazione e di chiarificazione interna di una avanguardia politica composta da studenti e da operai che, senza illudersi di poter prevedere e pianificare il futuro in misura troppo elevata, sappia però valutare giorno per giorno e con un minimo di anticipo tutti i problemi e le decisioni di lotta a cui ci si trova di fronte, che sappia estrarne il significato politico più profondo e proporlo a livello nazionale, e che sappia vedere quali sono le indicazioni di prospettiva che tutta quest’esperienza di lotta dà, da un lato per la formazione del partito, e dall’altro in indicazioni di strategia, di azione di questo partito»[58].
I problemi sollevati da Rieser non erano molto diversi da quelli che, di lì a pochi mesi, avrebbero affrontato anche Lotta continua e Potere operaio, perché in effetti i motivi teorici della loro divaricazione furono proprio relativi al modo in cui concepire l’«avanguardia» su cui costruire l’organizzazione[59]. Nella realtà la divaricazione aveva naturalmente anche altre motivazioni, ma entrambe le formazioni – con qualche rilevante differenza – ritennero che l’organizzazione dovesse essere costruita a partire dalle avanguardie ‘interne’, e cioè le avanguardie emerse nelle diverse situazioni conflittuali.
La posizione di Rieser, pur riconoscendo la centralità delle avanguardie ‘interne’ (che definiva come «avanguardie di massa»), riaffermava però la necessità di un altro livello di avanguardia, caratterizzato anche da una preparazione teorica e da una militanza specifica al di fuori del luogo di lavoro e dentro un’organizzazione specificamente politica[60]. E proprio una simile convinzione doveva progressivamente allontanare Rieser dalle componenti dell’operaismo (e del futuro «post-operaismo»), per spingerlo verso un recupero più esplicito del leninismo e, qualche anno più tardi, verso l’approdo a una formazione come Avanguardia operaia, che a Milano aveva in qualche misura combinato alcune dimensioni in senso lato ‘operaiste’ con un’impostazione marxista-leninista (contrassegnata peraltro da un marcato antistalinismo)[61].
Il lavoro di porta
La militanza a tempo pieno di Rieser – che aveva abbandonato l’attività di assistente all’Università di Torino per insegnare alla scuola serale, proprio per poter continuare il ‘lavoro di porta’ alla Fiat – si scontrò però, dopo l’esplosione conflittuale del ’69, con una nuova difficoltà. Sebbene Rieser avesse avuto un ruolo significativo nelle attività dell’Assemblea operai-studenti, la sua decisione di non entrare nei due principali gruppi che presero forma dalle lotte alla Fiat – Potere operaio e soprattutto Lotta continua – fece sì che per un periodo la sua militanza assumesse il profilo di un lavoro di inchiesta quasi individuale[62]. Il piccolissimo gruppo raccolto attorno a Rieser, che tentava di introdurre nelle lotte di fabbrica alcune tematiche maoiste, si incontrò con il percorso del Collettivo Lenin, una formazione che a Torino conobbe un certo sviluppo tra il 1969 e il 1973, quando confluì in Avanguardia operaia[63].
Nel Collettivo (che era nato da un precedente collettivo di formazione cattolica, approdato allo studio di Lenin e Mao), Rieser trovò il potenziale su cui costruire quell’«avanguardia politica» che a suo avviso risultava tanto importante per poter sfuggire ai rischi di un riassorbimento dell’ondata conflittuale. Ma, se per un verso la formazione teorica rimaneva fondamentale per la costruzione di un’«avanguardia politica», per l’altro era ancora più importante consolidare ciò che aveva definito come un’«avanguardia di massa», e cioè uno strato di militanti direttamente operativi negli ambiti lavorativi (e non necessariamente emanazione dell’organizzazione strettamente politica)[64].
In effetti, uno degli obiettivi fu proprio la costruzione dei Cub, i Comitati Unitari di Base, che – a differenza di quanto era avvenuto a Milano, dove erano nati come organismi ‘spontanei’ già nel 1968 – ebbero uno sviluppo piuttosto tardivo, e anche per questo il Collettivo Lenin riconobbe la necessità di operare all’interno dei consigli di fabbrica e di riconoscere anche la legittimità dei delegati (e dunque la necessità di interagire con le strutture sindacali)[65]. Se questi erano gli obiettivi, non è difficile riconoscere nello stile di lavoro del Collettivo la forte impronta che derivava a Rieser dall’esperienza dei «Qr» e che si traduceva, ancora una volta, nella centralità dell’inchiesta, riletta ora nella chiave maoista della «linea di massa», e considerata – si leggeva per esempio in un documento del 1972 – come l’«unica maniera per conoscere bene quali sono le esigenze e le idee degli operai» e come il solo strumento per «stabilire un corretto rapporto con le masse»[66].
Il radicamento dei Cub nella realtà torinese, avvenuto soprattutto tra il 1972 il 1973, indusse il Collettivo Lenin a ricercare un coordinamento nazionale con altre formazioni che portassero avanti una linea analoga, e una simile sponda venne trovata soprattutto in Avanguardia operaia, che a Milano aveva in effetti sostenuto i Cub fin dal loro apparire. Da questo avvicinamento, scaturì nel 1974 la vera e propria confluenza del Collettivo Lenin in Avanguardia operaia, nella cui organizzazione Rieser assunse un ruolo di primo piano. Dopo aver partecipato nel 1975 alle elezioni amministrative a Torino, sostenendo una lista denominata «Democrazia operaia», in vista delle elezioni politiche del giugno 1976 Ao diede vita – insieme a Lotta continua e Pdup – al cartello elettorale «Democrazia proletaria», che aveva come obiettivo il sostegno a un governo di sinistra (alternativo alla linea del «compromesso storico»), ma la cui avventura si risolse in una clamorosa sconfitta[67].
Dopo le elezioni del 20 giugno 1976 Lotta continua avviò il processo di scioglimento, sancito alcuni mesi dopo dal congresso tenuto a Rimini, ma anche Avanguardia Operaia – seppure più lentamente – iniziò a incamminarsi verso quel processo che avrebbe condotto alla fusione col Pdud e alla formazione di Democrazia proletaria (non più cartello elettorale, ma vero e proprio partito), nel 1978. Al dibattito post-elettorale prese parte ovviamente anche Rieser, che inizialmente considerò la sconfitta come «profondamente salutare» per le forze della sinistra radicale[68]. In realtà, la discussione interna si sarebbe ben presto rivelata lacerante, anche perché – in vista della fusione col Pdup – venne da alcune componenti messa in radicale discussione la stessa esperienza dei Cub.
In questa fase di dibattito, protrattasi per più di un anno, Rieser – che faceva parte del Comitato Centrale di Ao – si schierò contro il segretario Aurelio Ciampi, che aveva avviato un processo parallelo di unificazione con la componente del Pdup che faceva capo a Lucio Magri[69]. Nel marzo 1977, in occasione del suo quinto congresso, Avanguardia Operaia decise comunque lo scioglimento, finalizzato alla costruzione di un’organizzazione più ampia, che divenne l’anno seguente Democrazia proletaria[70]. Rieser – che peraltro dopo l’ingresso in Ao, anche per le necessità del suo ruolo politico, si era trasferito all’Università di Modena, lasciando Torino e la scuola serale – entrò nella nuova formazione, senza però assumere mai incarichi direttivi.
Dentro le trasformazioni
La fine dell’esperienza di Avanguardia Operaia coincise per molti versi con la conclusione dell’attività politica diretta di Rieser (che comunque, verso la fine degli anni Ottanta, si iscrisse al Pci e poi, nel decennio seguente, a Rifondazione comunista, senza però mai assumere ruoli ufficiali). Ciò nondimeno, la ricerca ‘militante’ non si arrestò, e Rieser di fatto proseguì il lavoro di inchiesta soprattutto partecipando, fin dai primi anni Ottanta, all’Ires-Cgil di Torino, presso il quale trascorse anche un lungo periodo di distacco sindacale, dal 1989 fino al 1999[71]. Tra le numerose indagini di questa fase spiccano ricerche sui delegati sindacali, sulle trasformazioni del mondo operaio e, ancora una volta, sugli stabilimenti Fiat, radicalmente modificati dalla ristrutturazione degli anni Ottanta[72]. Ma anche negli ultimi anni della sua vita – ormai in pensione e alle prese con i problemi di salute – Rieser tornò nuovamente sui temi che lo avevano accompagnato per più di mezzo secolo, confermando ancora una volta la centralità dell’inchiesta come strumento conoscitivo e come via preliminare alla definizione di ogni disegno progettuale, che fosse politico o sindacale, e che si distendesse sui tempi lunghi delle prospettive strategiche o rimanesse circoscritto sui tempi rapidi di un intervento puntuale.
Nel 2010, introducendo Lotte operaie nella crisi, un volume di Matteo Gaddi dedicato all’analisi di alcune realtà aziendali del Nord colpite dalla crisi, Rieser tornava a ribadire la centralità dell’inchiesta come strumento su cui incardinare qualsiasi discorso politico e sindacale. L’iniziativa di Gaddi – che in qualche modo raccoglieva l’eredità di Rieser, seguendone anche le indicazioni di metodo – nasceva anche dalla presa d’atto che, con la scomparsa dalla geografia parlamentare italiana della sinistra radicale, fosse indispensabile tornare a ricostruire un progetto politico partendo dalle fondamenta, ossia proprio dalla dimensione del lavoro.
Rispetto alle vecchie inchieste degli anni Sessanta e Settanta, naturalmente i materiali che Gaddi proponeva non potevano che registrare la realtà di un contesto completamente mutato, che presentava innanzitutto l’assenza quasi completa di quadri militanti in grado di poter fornire un anello di connessione materiale tra i ‘ricercatori’ e i lavoratori, e proprio per questo gli interlocutori erano soprattutto lavoratori iscritti al sindacato (dunque soggetti già relativamente ‘politicizzati’). Si trattava inoltre di quelle che Rieser definiva «inchieste lampo», ossia inchieste realizzate in tempi molto rapidi, con l’obiettivo di un intervento immediato in una situazione di emergenza, a cui dovevano seguire anche inchieste a più ampio raggio[73]. Il punto principale era però che si trattava di materiali di inchiesta dal profilo chiaramente ‘politico’, e cioè finalizzati non a ‘fotografare’ una situazione, ma a fornire strumenti conoscitivi in vista di un’azione in un contesto specifico, oltre che, in secondo luogo, a costruire uno strato intermedio di militanti, capaci di utilizzare l’inchiesta come strumento di lavoro principale[74].
Presentando una sezione della rivista «Progetto lavoro», in cui apparivano elementi di indagine raccolti soprattutto dallo stesso Gaddi[75], Rieser scriveva d’altronde che lo strumento dell’inchiesta era necessario per fornire conoscenze ai lavoratori e ai militanti sindacali, ma sottolineava anche – in evidente polemica con molte interpretazioni provenienti dall’operaismo – come l’inchiesta dovesse essere il frutto tanto delle esperienze dei lavoratori, quanto – al tempo stesso – dei dati complessivi a disposizione degli «specialisti»: «Una conoscenza vera delle condizioni di lavoro nasce solo dall’esperienza-conoscenza dei lavoratori; ma, al tempo stesso, va ‘completata’ con informazioni e dati sulla produzione, i suoi mercati, la situazione finanziaria, le leggi che agiscono sull’economia, che vanno ricavati da altre fonti. Noi quindi non crediamo in un ‘sapere operaio’ auto-sufficiente, contrapposto alla ‘scienza borghese’, come hanno teorizzato alcuni settori dell’operaismo e alcune ideologie superficiali legate al movimento del ’68. Pensiamo […] che la conoscenza derivante dall’esperienza dei lavoratori vada integrata con il sapere tecnico derivante dalle conoscenze di specialisti ed esperti, e che solo da una sintesi, autonoma e critica, di questi due filoni di conoscenza possa derivare una base conoscitiva adeguata all’azione di classe»[76].
L’accenno polemico alle concezioni del «sapere operaio» sviluppate da «alcuni settori dell’operaismo» non era certo sorprendente per quanti conoscevano il percorso intellettuale e politico di Rieser, e d’altro canto anche il riferimento alle «conoscenze di specialisti ed esperti» sembrava riproporre proprio quella idea ‘neo-illuministica’ delle scienze sociali che spesso venne rimproverata ai «Qr» dopo la rottura tra Panzieri e il gruppo composito che diede vita a «classe operaia». Se infatti molti critici – sviluppando le critiche già accennate dallo stesso Panzieri – avrebbero in seguito accusato Tronti di costruire una filosofia della storia idealistica[77], gli esponenti dell’operaismo – o quantomeno dell’operaismo che prese forma con la «rivoluzione copernicana» proposta da Operai e capitale, avrebbero continuato a considerare negativamente la fiducia risposta da Rieser e dai «Qr» nella sociologia (e più specificamente nella «sociologia borghese»). Il più deciso in questa critica fu naturalmente Alquati, che fin dall’inizio aveva polemizzato con le concessioni eccessive alle scienze sociali di matrice statunitense fatte da Rieser e dagli altri giovani raccolti attorno a Panzieri (per questo definiti spesso, non senza un tono spregiativo, «sociologi»)[78]. E ancora oggi, d’altronde, nella completa ricostruzione della storia dell’operaismo italiano compiuta dallo studioso australiano Steve Wright, l’ultima fase dei «Qr» viene ricordata, seppur solo tangenzialmente, per l’«uso acritico della sociologia»[79].
In effetti negli scritti di Rieser degli anni Sessanta – almeno fino al momento in cui nel 1969, per seguire il «lavoro di porta» alla Fiat, non abbandonò l’università, dedicandosi quasi a tempo pieno all’attività politica – si poteva riconoscere l’influenza della sociologia italiana del periodo. E in particolare si poteva intravedere più di qualche eco del contributo di intellettuali come Luciano Gallino e Alessandro Pizzorno, che andavano introducendo in Italia molti temi della sociologia industriale statunitense.
Quel contributo, che pure proveniva da intellettuali vicini alla sinistra, si era scontrato alla fine degli anni Cinquanta con la severa opposizione degli ambienti vicini al Pci, in cui erano ancora forti le resistenze alla sociologia della tradizione crociana. In un intervento scritto a quattro mani con Laura Balbo, Rieser nel 1962 faceva il punto del dibattito, sottolineando in particolare come spazi di dibattito significativi giungessero dalla riflessione della scuola dellavolpiana, e in particolare di Lucio Colletti e dello stesso Tronti, in cui – pur rimanendo un pregiudizio nei confronti delle scienze sociali – la rilettura non ideologica del marxismo poteva aprire direzioni di ricerca sociologica. Ma Balbo e Rieser riconoscevano soprattutto la validità di una prospettiva che integrasse il marxismo – come critica del capitalismo – con le tecniche della ricerca sociologica, e in questo senso per esempio scrivevano: «L’analisi dell’alienazione capitalistica, in particolare, della condizione operaia nella fabbrica, può valersi ora di strumenti ‘tecnici’ offerti dalla moderna sociologia e psicologia; di tali tecniche viene fatto spesso un uso ambiguo e ideologico; in un contesto marxista possono dare risultati nuovi e assai utili. Da un altro lato, è possibile – sul piano formale – una revisione della formulazione linguistica di certe ipotesi marxiane, che ne elimini ambiguità e contraddizioni. Un’operazione del genere può valersi ora di tecniche assai raffinate, e può dare risultati non trascurabili»[80].
La scelta dei temi che indicavano Balbo e Rieser al termine del loro articolo non era certo casuale, perché si trattava per molti versi dei nodi al centro della discussione dei «Qr». Leggendo oggi i carteggi dei protagonisti, è abbastanza evidente che i componenti del gruppo romano – e in particolare Tronti – nutrivano ben più di qualche riserva nei confronti dell’utilizzo che Rieser faceva delle tecniche sociologiche, ma è anche evidente che l’avversario forse più radicale dei «sociologi» era proprio Alquati, che rivendicò fin dal principio l’originalità della propria «conricerca», metodologicamente nettamente contrapposta all’«inchiesta» portata avanti dagli altri componenti dei «Qr», oltre che dallo stesso Panzieri. Su molte di queste divergenze Rieser sarebbe d’altronde ritornato in diverse occasioni, chiarendo in termini retrospettivi alcuni passaggi e soffermandosi anche sui limiti della visione dello stesso Panzieri, che pure rimase sempre un riferimento per l’intellettuale torinese.
In un testo apparso alla metà degli anni Settanta, in cui rievocava tanto Panzieri quanto l’origine dei «Qr», ricordava certo gli apporti positivi della rivista, relativi in particolare all’analisi innovativa delle trasformazioni del capitalismo, al riconoscimento delle nuove forme in cui si esprimeva l’autonomia operaia, alla critica delle visioni del socialismo canonizzate dall’esperienza sovietica e infine alla riproposizione della questione della forma dell’organizzazione politica. Accanto a questi meriti, non nascondeva però i limiti, e in questa rassegna non era certo difficile riconoscere un riflesso delle polemiche che, in quegli anni, Ao andava conducendo sia contro le formazioni dell’estrema sinistra che si richiamavano all’eredità dell’operaismo, sia contro i teorici dell’«autonomia del politico» entrati nel Pci.
Tra questi limiti, Rieser segnalava infatti «una sopravvalutazione degli aspetti programmati e razionalizzatori dello sviluppo capitalistico», «una critica tutta ideologica al riformismo del movimento operaio», «un’esaltazione ideologica, che attribuiva alla coscienza spontanea della classe operaia un livello politico e una sistematicità assai lontani da una realtà che era assai più complessa e contraddittoria», «teorizzazioni spontaneiste sul problema dell’organizzazione», «una visione schematica della realtà di classe, ridotta allo scontro tra classe operaia e classe capitalistica», «una sottovalutazione degli obiettivi democratici della lotta di classe in Italia», oltre che «una percezione unilaterale e deformata di molti aspetti dell’esperienza cinese»[81].
Benché salvasse Panzieri dall’accusa di «spontaneismo» – un’accusa che invece a suo avviso fondata per il gruppo di «classe operaia» – in realtà Rieser sottolineava come una simile tentazione fosse almeno in parte implicita nella stessa generalizzazione tratta dai «Qr» a proposito delle nuove forme di lotta operaia. «La stessa analisi unilaterale del capitalismo italiano», secondo Rieser portava infatti Panzieri «al tentativo di costruire una prospettiva strategica unicamente a partire dai contenuti impliciti nelle lotte di fabbrica: contenuti che egli non mitizza, che cerca di sottoporre a elaborazione; ma un’elaborazione che, proprio perché basata su una visione unilaterale della realtà, finisce per essere fortemente ideologica»[82].
Anche dopo gli anni Settanta la valutazione dell’esperienza dei «Qr» non si sarebbe modificata nelle sue coordinate, anche se naturalmente il mutare del clima politico avrebbe quantomeno indebolito la polemica contro lo «spontaneismo»[83]. Al di là della specifica visione del rapporto tra organizzazione politica e dimensione di massa, che Rieser formulava allora (e in qualche misura avrebbe continuato a formulare anche in seguito) in termini ‘maoisti’, c’erano però alcune differenze più sostanziali che separavano la sua ricerca da quella dell’operaismo (o quantomeno dell’operaismo nato da «classe operaia» e poi declinatosi in molteplici varianti). E queste differenze emersero per molti versi fin dai primi anni Sessanta, nella contrapposizione tra l’«inchiesta» e la «conricerca». Tanto Rieser quanto Alquati sarebbero tornati più voltre a ribadire le rispettive posizioni, e Rieser avrebbe anche riconosciuto come la «conricerca» – ossia una ricerca cui prendessero parte direttamente gli operai, e in cui dunque sparisse la distinzione tra ricercatore e operaio-oggetto della ricerca – fosse senz’altro preferibile, ma richiedesse condizioni molto rare, spesso anzi del tutto assenti[84]. Una ricostruzione di parte, ma comunque indicativa, della contrapposizione era compiuta – solo alcuni anni dopo – dallo stesso Rieser, insieme a Dino De Palma e a Edda Salvadori, sul quinto numero dei «Qr».
Ripercorrendo infatti le tappe di svolgimento dell’inchiesta alla Fiat del 1960-61 – quella da cui erano partite tutte le ipotesi della rivista – i tre ricercatori tornavano sulla contrapposizione, che in parte rifletteva anche le residue ostilità verso la sociologia americana, individuando due diverse visioni dell’inchiesta: «Da un lato si sosteneva che la scelta dei problemi e degli strumenti con cui affrontarli doveva essere condotta sulla base dei nostri problemi politici, e che su quella base l’inchiesta doveva procedere in modo molto rigorosamente sociologico. Si potevano e si dovevano, naturalmente, utilizzare tutte le possibilità di contatto che l’inchiesta offriva per individuare eventuali quadri operai che avrebbero potuto assumere subito un ruolo politico più attivo (non escluso quello di ricercatori): ma l’impostazione dell’inchiesta dovevamo essere noi a darla, molto chiaramente, in partenza, e non poteva sorgere spontaneamente dal susseguirsi di contatti con gli operai»[85].
Al di là delle considerazioni dei protagonisti e dello stesso Alquati (che peraltro avrebbe lavorato per un’intera vita sulla precisazione di cosa si dovesse intendere per «conricerca»[86]), è molto probabile che la divergenza non fosse tanto ‘metodologica’, quanto di carattere strettamente ‘politico’. Per molti versi, infatti, il gruppo dei «sociologi» intendeva l’inchiesta come un lavoro di studio e ricerca sulla soggettività operaia del tutto ‘preliminare’ al lavoro politico e dunque alla costruzione (insieme al sindacato) di determinate linee di azione, anche se era scontato che proprio il lavoro di inchiesta dovesse stabilire o consolidare rapporti con operai che potevano rivestire un ruolo di ‘avanguardie’, o comunque di militanti.
Al contrario, Alquati – in cui, almeno nei primi anni Sessanta, era piuttosto forte l’influenza di un certo ‘anarco-sindacalismo’ di matrice francese e statunitense – pensava verosimilmente la «conricerca» come un lavoro direttamente ‘politico’, non tanto per la partecipazione diretta degli operai, quanto perché doveva puntare a ricostruire il processo produttivo ‘dal basso’ – dal «punto di vista operaio» – connettendo e organizzando quelle tracce di antagonismo che già esistevano. In una simile visione, ovviamente il ruolo dell’organizzazione strettamente ‘politica’ di fatto scompariva, assorbita interamente dall’azione diretta degli operai dentro il processo lavorativo e dentro il tessuto organizzativo che veniva a unificare i diversi punti che ‘bloccavano’ la razionalità del «piano».
Ed era invece proprio questo aspetto che Rieser avrebbe severamente contestato, rimproverando tra l’altro a Panzieri il fatto che un simile spontaneismo fosse una conseguenza dell’interpretazione del neo-capitalismo, in virtù della quale ogni fattore di blocco e resistenza poteva essere considerato come una ‘rottura’. In questo modo, però si tralasciava del tutto il problema dei valori e la questione della coscienza, nella convinzione che dai comportamenti operai scaturisse direttamente una rivendicazione di potere. Nelle premesse e nelle conseguenze del lavoro di inchiesta, sintetizzavano De Palma, Rieser e Salvadori, si nascondeva così una duplice ambiguità: «se da un lato la coscienza politica era vista come un obiettivo da raggiungere, in certa misura indispensabile per la stessa lotta sindacale, dall’altro essa compariva come già implicita nei comportamenti operai di conflitto e di protesta, anche nei loro aspetti più immediati», e proprio per questo la «coscienza politica» compariva «al tempo stesso come obiettivo e come premessa del nostro intervento»[87].
Anche sulla scorta di questo riesame critico dell’inchiesta del 1960-61, Rieser – sempre sul quinto numero dei «Qr» – ebbe cura di chiarire come nel lavoro di indagine dovessero essere tenuti ben distinti i comportamenti dalle informazioni e soprattutto dai valori. Rieser – che peraltro non utilizzò mai il concetto di «composizione di classe» nel significato con cui venne inteso da «classe operaia», soprattutto grazie alla ridefinizione compiuta da Alquati – non negava l’importanza dei comportamenti, ma sottolineava anche come una loro analisi dovesse essere sempre affiancata dall’analisi delle informazioni e dei valori. E, più specificamente, riteneva che il riferimento a informazioni, valori e comportamenti fosse molto più utile e chiaro della contrapposizione tra «forza-lavoro» e «classe operaia» introdotta soprattutto da Tronti, per indicare, rispettivamente, i lavoratori come strumento ‘passivo’ del processo di produzione e i lavoratori in quanto soggetto collettivo, capace di interrompere il processo lavorativo. Una simile contrapposizione rischiava per Rieser di diventare fuorviante, nel senso che suggeriva l’idea che i lavoratori fossero o totalmente integrati, oppure totalmente rivoluzionari, mentre la realtà era ovviamente più articolata, nel senso che – come scriveva – si presentavano «situazioni in cui informazioni, valori e comportamenti peculiari della classe operaia si accompagnano ad altri mutuati da gruppi sociali diversi, e in cui informazioni, valori e comportamenti conflittuali col sistema sociale esistente si accompagnano ad altri integrati nello stesso sistema»[88].
Tutto il discorso di Rieser puntava però a reintrodurre un nodo fortemente presente nella tradizione marxista-leninista e invece fino a quel momento quasi del tutto assente nella riflessione dei «Qr», ossia il nodo della «coscienza di classe», perché a suo avviso proprio su questo elemento l’inchiesta doveva insistere, per poter costruire un progetto politico che andasse oltre l’immediatezza dei comportamenti conflittuali.
Se il modello di coscienza di classe da adottare indicava «il tipo di informazioni e di valori che si considerano adeguati ai nostri obiettivi politici, e indica i problemi a cui tali informazioni e valori si riferiscono», l’inchiesta doveva porsi l’obiettivo «anzitutto di fornire elementi di conoscenza utilizzabili per confrontare il grado attuale di coscienza operaia con quel modello, in secondo luogo di contribuire a creare strumenti di intervento che sviluppino nella coscienza operaia elementi coerenti al modello, in terzo luogo di stimolare direttamente, negli operai intervistati, una presa di posizione di fronte ai problemi contenuti nel modello»[89].
Anche se forse il risultato raggiunto nell’articolo del ’65 non era del tutto soddisfacente, Rieser non avrebbe mai abbandonato la convinzione che, nel lavoro di inchiesta, fosse sempre indispensabile considerare anche il livello della coscienza politica. Anche per questo avrebbe considerato sempre molto criticamente, oltre che la distinzione tra «forza-lavoro» e «classe operaia», anche l’idea che da una determinata «composizione tecnica» della forza-lavoro dovessero scaturire specifici comportamenti conflittuali, e dunque un’altrettanto determinata «composizione politica»[90]. In realtà non tutti i filoni dell’operaismo adottarono quella distinzione e soprattutto l’idea di una relazione necessaria fra la dimensione ‘tecnica’ e quella ‘politica’, perché per esempio Sergio Bologna – che pure ebbe un ruolo determinante tanto nel tratteggiare quello schema, quanto nel delineare la figura dell’«operaio massa» – già all’inizio degli anni Settanta imboccò una direzione piuttosto differente[91].
Ciò nondimeno, rimane vero che l’elemento della coscienza politica nei filoni operaisti – pur non essendo del tutto assente – rimane spesso su un piano secondario (o marginale), a fronte della centralità assegnata ai comportamenti operai e ai ‘residui’ conflittuali sedimentati nella struttura della composizione di classe. Ed era invece proprio sulla centralità della coscienza di classe che Rieser sarebbe tornato quasi costantemente, anche nei suoi ultimi interventi, adottando in questo caso lo schema proposto da Erik Olin Wright, che distingue tre differenti livelli: «la percezione delle alternative», «le teorie sulle conseguenze» e infine «le preferenze»[92].
Il velo dell’«apparenza»
Il costante richiamo all’importanza della «coscienza di classe», la critica serrata contro lo ‘spontaneismo’ e la stessa polemica indirizzata alle visioni ‘operaiste’ del «sapere operaio» – motivi che ritornano nei suoi scritti, dagli anni Sessanta in poi – non deve però indurre l’impressione che il percorso di Rieser possa essere racchiuso entro le coordinate della tradizione marxista-leninista, o dentro i confini del «marxismo ortodosso». Benché Rieser abbia in effetti considerato a lungo (forse sempre, o quantomeno a partire dalla fine degli anni Sessanta) come riferimenti cruciali gli scritti di Lenin e Mao, per comprendere pienamente il suo itinerario è importante ricordare come la sua concezione della «coscienza di classe» fosse molto distante da quella adottata dalle diverse varianti del leninismo, perché quella idea veniva declinata in una variante ben distante da quelle che erano ravvisabili nelle formazioni ‘filocinesi’ degli anni Sessanta.
Per molti versi nella tradizione leninista (o meglio nelle principali varianti di questa tradizione), la coscienza di classe viene ad assumere due differenti profili, che si sovrappongono spesso ambiguamente l’uno sull’altro: innanzitutto, la coscienza di classe è, in termini politici, la coscienza della propria forza, del proprio ruolo, del proprio compito, che l’Arbeiterklasse conquista nel corso di una lunga stagione di conflitti, i quali – in linea tendenziale – conducono i singoli operai e le singole frazioni in cui è divisa la classe lavoratrice a riconoscere gli interessi comuni e a difenderli collettivamente; in secondo luogo, in termini ‘filosofici’, la coscienza di classe è invece la conoscenza non mistificata della società capitalistica, una conoscenza che consente di comprendere quale sia il ‘reale’ interesse della classe lavoratrice, non sulla base di un’identità politica comune, bensì sulla scorta di un’analisi di lungo periodo condotta con gli strumenti della teoria marxista da parte di un gruppo ristretto di individui, che – proprio perché dotati dei mezzi analitici adeguati e della «teoria rivoluzionaria» – possono assumere il ruolo politico di avanguardia.
Benché questo schema sia evidentemente semplificato, esso riesce forse a cogliere un’ambiguità che percorre – più che semplicemente la tradizione leninista – l’intera traiettoria del marxismo. Ma, soprattutto, non è difficile ritrovare una formulazione nitida della connessione tra la centralità della teoria marxista e la legittimazione del ruolo dell’avanguardia politica nelle pagine leniniane di Che fare?, perché in questo caso la battaglia contro lo «spontaneismo» e il «tradeunionismo» è combattuta proprio in nome di una visione la cui superiorità politica si gioca sul terreno della capacità di visione (e previsione). E ciò significa che l’idea secondo cui «la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica»[93] si può reggere solo sull’idea che quella coscienza politica – che può essere portata «dall’esterno» – sia in realtà il prodotto di una conoscenza non mistificata della realtà dello sviluppo capitalistico e delle sue tendenze, e che proprio per questo sia superiore scientificamente alle posizioni che assecondano le tendenze ‘spontanee’ al «tradeunionismo».
Al di là della legittimità di una simile ricostruzione, il punto è che proprio distinguendo queste due differenti concezioni della «coscienza di classe» si può forse comprendere appieno il ‘leninismo’ (riletto in chiave ‘maoista’) di Rieser, e dunque cogliere senza deformazioni il significato del suo costante richiamo alla «coscienza di classe». In effetti, Rieser fu per molti versi ‘leninista’ nel rivendicare la centralità del ceto politico, ossia nell’affermare la necessità di quadri preparati teoricamente, in grado di influire «dall’esterno» sui lavoratori e sulle loro decisioni. Proprio per questo, polemizzò sempre contro lo ‘spontaneismo’, che esaltava l’azione ‘autonoma’ della classe operaia, trascurando tanto l’importanza dei livelli di mediazione politica e sindacale, quanto il peso della formazione teorica dei quadri.
Al tempo stesso – e vale la pena sottolinearlo, perché si tratta di un aspetto forse non opportunamente segnalato – Rieser non condivise mai la convinzione ‘leninista’ secondo cui la teoria sarebbe l’unico strumento capace di squarciate il velo ideologico che occulta la realtà e di mostrarne dunque il volto non mistificato. E proprio per questo non concepì mai la «coscienza di classe» come una forma di conoscenza ‘non mistificata’ consentita dalla teoria, né tanto meno intese dunque l’avanguardia come la ristretta cerchia di dirigenti capaci di guidare le masse grazie alla superiorità del loro sapere.
Per cogliere questo aspetto della riflessione di Rieser sono cruciali alcuni suoi scritti della metà degli anni Sessanta, in cui – in modo molto più organico di quanto avrebbe fatto in seguito – si concentrò su due concetti della teoria marxista e sulla loro utilizzabilità sotto il profilo dell’indagine sociologica. In un contributo apparso nel 1965 sui «Quaderni di Sociologia», Rieser si dedicava infatti a un esame puntale del concetto di «alienazione», svolgendo una breve rassegna sia dell’uso che ne aveva fatto Marx nei suoi scritti, sia delle interpretazioni che ne erano state date dai successivi autori marxisti e dalla sociologia. La tesi generale di Rieser era che il concetto di «alienazione» fosse eccessivamente pregno di densità filosofica, e che soprattutto – riferendosi all’espropriazione di un’«essenza» originaria che caratterizzerebbe l’essere umano – potesse essere applicato a molte realtà, col risultato di smarrire la specificità che l’alienazione presentava nel modo di produzione capitalistico. E proprio per questo, come d’altronde Rieser avrebbe fatto anche in seguito, la soluzione consisteva nell’intendere l’alienazione in relazione alla struttura di potere all’interno del quale il lavoratore si trova inserito, e dunque, in particolare, «alla sua esclusione da determinati poteri di decisione che sono prerogativa della direzione di fabbrica o – in un ambito più vasto – di una ‘élite di potere’»[94].
Nel corso della discussione, Rieser evocava anche il problema – che affiorava, pur sporadicamente, nelle pagine marxiane – del rapporto fra realtà ed apparenza: in altre parole, Marx rilevava che dalla condizione di alienazione degli operai all’interno della fabbrica non discendeva necessariamente un comportamento antagonista, perché il loro antagonismo poteva essere limitato dal fatto che avessero una conoscenza ‘mistificata’ della realtà. Dunque, per Marx sembra esistere «una struttura oggettiva con due facce, quella ‘reale’ e quella (altrettanto oggettiva della prima) ‘apparente’: il carattere ‘antagonistico’ o meno degli atteggiamenti operai dipende dal fatto che essi abbiano coscienza soltanto della faccia ‘apparente’ (mistificata) di tale struttura, o giungano alla coscienza di quella ‘reale’»[95]. Se in Marx la visione duplice della realtà sociale rimaneva in fondo marginale, in molti marxisti successivi doveva invece diventare fondamentale, ed era proprio per segnalare le implicazioni deleterie di questa operazione che Rieser attaccava forse l’espressione filosofica più elegante del Linkskommunismus degli anni Venti, ossia il György Lukáks di Storia e coscienza di classe, e in particolare la sezione dedicata alla «reificazione»[96].
Nel discorso di Lukáks – osservava Rieser – la reificazione appariva come «l’alienazione più la mistificazione di cui il capitalismo la riveste»[97], ma l’ambiguità dei concetti comportava una serie di problemi, il principale dei quali consisteva nella difficoltà di comprendere in quale modo si potesse uscire dalla condizione di «reificazione»: quest’ultima, infatti, in parte appariva come un risultato ‘oggettivo’ del modo di produzione capitalistico, mentre dall’altro sembrava una condizione dalla quale il proletariato (e non la borghesia) poteva uscire, perché, come scriveva il filosofo ungherese, «il pensiero proletario ha per scopo il rovesciamento fondamentale dell’insieme della società».
Per fondare questo passaggio, Lukáks tornava alla connessione tra alienazione e antagonismo del giovane Marx, una soluzione che – agli occhi di Rieser – comportava una serie di limiti: «la coscienza rivoluzionaria del proletariato e il successo dell’azione che ne consegue sembrano essere il prodotto necessario dello sviluppo storico, l’esito a cui inevitabilmente porta, attraverso un capovolgimento dialettico, proprio il raggiungimento della massima reificazione. L’ambiguità di tale posizione appare nel momento stesso in cui il fine pratico del proletariato (il rovesciamento del capitalismo) è considerato come un dato: il raggiungimento del grado di coscienza e di organizzazione necessario per realizzare tale fine diviene allora assai meno precario, perché la chiarezza e l’intensità del fine determina una progressiva selezione dei mezzi atti a raggiungerlo»[98].
Lo spunto polemico di Rieser contro il giovane Lukáks, e contro la concezione della «coscienza di classe» che emergeva dai suoi scritti degli anni Venti, non era affatto un motivo occasionale, e d’altronde veniva ulteriormente ripreso in un articolo di poco successivo, dedicato esplicitamente al nodo dell’«apparenza» nell’analisi marxiana[99]. In questo testo, altrettanto importante di quello sull’alienazione per la piena comprensione delle categorie interpretative adottate in seguito da Rieser, venivano ripercorse le differenti sequenze in cui Marx sviluppava l’idea secondo cui la totalità sociale si presenta con due facce, una reale e una mistificata, e soprattutto erano esplorate le tappe da toccare per superare l’«apparenza» (e per svelare la realtà che struttura le relazioni sociali).
Se Marx aveva iniziato a svolgere la propria idea dell’«apparenza» in relazione alla critica dell’economia politica, mostrando come le categorie economiche occultassero la realtà dei rapporti sociali, questo schema era stato poi esteso anche alle modalità con cui le differenti classi concepiscono le dinamiche economiche, il salario o il mercato. In altre parole, a questo punto, il problema non era più quello di una spiegazione scientifica, incapace di cogliere le ‘leggi’ fondamentali del modo di produzione capitalistico, bensì quello della rappresentazione della società e dei suoi meccanismi da parte dei singoli lavoratori. Ancora una volta, Lukáks era indicato come il filosofo che con maggiore convinzione aveva sviluppato questa idea, già implicita in Marx, giungendo in particolare a formulare la nozione di «reificazione» (come sintetizzava Rieser, infatti, «reificazione = alienazione + apparenza»)[100].
Il punto era però che, per effetto di una simile operazione, la dimensione oggettiva della reificazione tendeva a confondersi, e a diventare non distinguibile, dalla dimensione soggettiva, ossia dalla concreta rappresentazione che i soggetti storici danno della realtà in cui sono inseriti. In sostanza, il fenomeno della reificazione discendeva da una logica oggettiva, ma in questo modo non poteva che essere teoricamente rimosso un altro processo cui pure Marx accennava in diversi punti, ossia il processo soggettivo grazie al quale i diversi soggetti sociali procedono – attraverso la propaganda, l’educazione, la manipolazione – a diffondere una determinata rappresentazione della realtà. E questo, di fatto, impediva anche di considerare la «coscienza di classe» come un prodotto storico, ossia come l’esito di dinamiche soggettive, dal momento che le sue caratteristiche venivano semplicemente derivate da ‘leggi’ oggettive.
Come scriveva nitidamente Rieser: «nel rapporto tra ‘apparenza’ e ‘realtà’ che si istituisce nell’analisi marxiana, entrambi i termini del rapporto sono oggettivi. È oggettiva l’apparenza in cui i dati di una determinata realtà sociale si presentano tra loro non connessi, o connessi solo in modo parziale e deformato, come è oggettiva la legge che li connette nel loro rapporto reale. Ora, da ciò deriva anche la possibilità di sviluppare sistematicamente il rapporto tra ‘apparenza’ e coscienza di classe. Se l’apparenza avesse solo una dimensione soggettiva (consistesse cioè in una ‘visione della società’ o di parti di essa, che risulti ‘falsificabile’ in base a certi criteri), essa sarebbe osservabile soltanto attraverso una rilevazione empirica della ‘visione della società’ propria delle varie classi in una determinata situazione. Nell’impostazione marxiana invece essa è rilevabile a prescindere da quest’analisi empirica, e quest’ultima anzi è in certo modo deducibile dall’apparenza stessa, oggettivamente intesa»[101].
Memoria, identità e coscienza
Molto probabilmente era anche per lo sguardo critico con cui si rivolgeva a Marx, e ai ‘residui’ filosofici del suo discorso, che Rieser poteva essere considerato negli anni Sessanta – dagli esponenti dell’operaismo di «classe operaia» – come il caposcuola dei «sociologi», ossia di una rilettura del marxismo troppo influenzata dalla sociologia statunitense e soprattutto dalle sue esigenze di aderenza al dato ‘empirico’. In effetti, la critica che Rieser muoveva ad alcune nozioni marxiane e alla lettura di Lukáks era orientata proprio dalla necessità di condurre indagini empiriche i cui risultati non fossero predeterminati da categorie come «alienazione» e «apparenza».
Queste categorie finivano infatti con l’assumere come presupposto logico ciò che invece sarebbe dovuto emergere come esito dell’indagine (rendendo così persino superfluo quel lavoro di inchiesta che per Rieser era centrale). Più che essere il frutto di un’infatuazione per il metodo delle scienze sociali – un’infatuazione che, pur non essendo mai acritica, è riconoscibile negli scritti degli anni Sessanta, ma che in qualche misura sarebbe sempre rimasta un riferimento metodologico – quella critica alle componenti più filosofiche dell’armamentario concettuale marxiano si collocava al cuore di una visione della realtà del conflitto di classe in cui andavano innanzitutto comprese le concrete modalità storiche della coscienza di classe: modalità che non potevano essere interpretate né come conseguenze necessarie della struttura ‘oggettiva’ della società capitalistica, né tanto meno come un insieme di comportamenti soggettivi ‘determinati’ – come in alcune varianti schematiche dell’operaismo – dalla struttura ‘tecnica’ del processo lavorativo. Ed è in questa chiave che deve essere riletto un denso saggio apparso al principio degli anni Ottanta sulla nuova serie dei «Quaderni piacentini», dedicato alla memoria storica e alla coscienza di classe.
Rileggendo oggi quel contributo è piuttosto evidente quali fossero i bersagli polemici contro i quali Rieser allora indirizzava le proprie considerazioni. Si trattava innanzitutto di quelle posizioni che, tentando di ridurre la portata della sconfitta politica sancita simbolicamente dal fallimento dell’occupazione della Fiat nel 1980, consideravano la «memoria» come un peso per l’articolazione dei nuovi percorsi politici, già sperimentati dai soggetti sociali emergenti[102]. Ma si trattava anche di quelle tendenze storiografiche che, alla ricerca di comportamenti antagonisti al di fuori della dimensione della fabbrica, giungevano a riscoprire nelle tradizioni del mondo contadino i segni – certo sbiaditi – di comportamenti antagonisti alla logica della modernizzazione capitalistica. Entrambe queste tendenze, insieme a ciò che rimaneva dell’operaismo e della «storia militante» degli anni Settanta, si erano incontrate al convegno su Memoria e nuova composizione di classe organizzato nell’ottobre 1981 a Mantova dall’Istituto Ernesto de Martino e dall’Associazione Primo Maggio (senza peraltro trovare alcun punto di mediazione)[103]. E nonostante il convegno non venisse citato, era piuttosto chiaro che i suoi lavori costituivano il riferimento implicito dell’intervento di Rieser, che in effetti poneva al centro proprio il rapporto tra i «mutamenti nella composizione di classe» e gli «elementi di sconfitta politica del progetto di trasformazione emerso dal ’68 in poi».
Tra i rischi che Rieser segnalava, a proposito della ricerca sulla memoria, stavano innanzitutto l’idealizzazione del passato e la convinzione ideologica che, «scavando nella memoria storica si possa arrivare a una sorta di ‘purezza originaria’ dell’identità e della coscienza di classe, non contaminate da stratificazioni successive e da sovrapposizioni esterne»[104]. Per evitare simili rischi sottolineava come in realtà il rapporto tra memoria e identità fosse spesso molto articolato, e non fosse riconducibile a uno schema binario, centrato sulle dimensioni della continuità e della discontinuità, come d’altronde mostravano i due tipi di identità (e di memoria) della classe operaia torinese e di quella emiliana. Ma era inevitabilmente al nodo della coscienza di classe che approdavano le considerazioni di Rieser.
E in questo senso tornava a criticare – come d’altronde aveva fatto già negli anni Sessanta – i limiti di quella visione ‘operaista’, secondo cui «lo sviluppo della coscienza di classe come un processo che trae origine dalle condizioni di lavoro, più precisamente dall’esperienza del dispotismo di fabbrica, arriva alla coscienza della natura di classe di questo dispotismo e alle lotte conseguenti, attraverso l’esperienza di queste lotte […] si estende poi come coscienza di classe in senso pieno all’area della società e del potere politico»[105]. In una simile visione – di cui Rieser riconosceva comunque i meriti, soprattutto politici – la «memoria» in quanto tale aveva un peso secondario, nel senso che rientrava al massimo «in termini di esperienza di lotta». Ma dopo la metà degli anni Settanta l’emergere di un nuovo quadro, l’irrompere della frammentazione e il declino della ‘centralità operaia’ avevano incrinato la linearità dei questo schema, col risultato di far riemergere il nodo rimosso della memoria. Per ripensare la connessione tra memoria, identità e coscienza di classe secondo Rieser era invece necessario prendere atto dell’ambivalenza che il concetto di «coscienza di classe» aveva sempre avuto nella tradizione marxista: un’ambivalenza che certo rimandava alle ambiguità segnalate negli articoli sull’«alienazione» e sull’«apparenza» degli anni Sessanta, ma che in questo caso era riferita soprattutto al fatto che la coscienza di classe era stata concepita, per un verso, in relazione alla «contrapposizione tra classe operaia e classe capitalistica», mentre, per un altro, in rapporto al «problema politico della rivoluzione»[106].
In altre parole, la coscienza era stata intesa, da una parte, come l’identità collettiva della classe operaia, capace di sostenere il suo conflitto col capitale, mentre, dall’altra, era stata concepita – in termini vicini a quelli del giovane Lukáks, e in generale a quelli del marxismo-leninismo – come una conoscenza ‘scientifica’ delle leggi di sviluppo del capitalismo e, dunque, di una visione capace di individuare quale fosse il percorso da seguire (per procedere verso la ‘rivoluzione’ e per evitare le derive ‘tradeunionistiche’). Ma, in entrambe le declinazioni, una sola era la ‘vera’ coscienza di classe, mentre le altre potevano essere liquidate come varianti della ‘falsa coscienza’.
E proprio questo rischio sembrava riaffiorare anche nelle discussioni sulla memoria, perché spesso pareva di assistere a una riproposizione surrettizia dell’idea che esista «un’‘unica vera coscienza possibile’, legata a una definizione e misurazione della coscienza di classe non solo in riferimento ai livelli di identità e contrapposizione di classe concretamente esistenti, ma a un modello strategico precostituito»[107]. Dinanzi a questo rompicapo teorico, la soluzione che Rieser proponeva non era però di rinunciare al concetto, bensì di registrarne la polisemia, e al tempo stesso di rinunciare all’idea che esista una connessione ‘necessaria’ tra i diversi piani. La «coscienza di classe», in sostanza, doveva essere riferita sia al «modo in cui la classe operaia si identifica, distinguendosi e contrapponendosi rispetto ad altre classi», sia col «‘progetto’, con le tendenze di mutamento che da questa identità-contrapposizione scaturiscono», ma sempre senza dimenticare che non vi è mai «una connessione unilineare, un’unica connessione possibile»[108].
L’inchiesta in un mondo in frammenti
I temi che sollevava Rieser all’inizio degli anni Ottanta ritornano anche in alcuni dei suoi contributi più recenti, talvolta stesi solo come appunti di discussione da far circolare tra i suoi contatti più stretti[109]. E forse proprio perché già allora coglievano nitidamente alcune tendenze (non solo economiche, ma propriamente ‘politiche’ e ‘culturali’), quelle pagine meriterebbero oggi di essere rilette, forse conducendo persino più a fondo le indicazioni critiche di Rieser. D’altro canto, le ambiguità del concetto di «coscienza di classe», il suo riferimento (più o meno implicito) alla capacità di squarciare il velo della mistificazione ideologica, così come la tentazione di poter discernere la coscienza ‘autentica’ da quella ‘falsa’, non possono che apparirci oggi sotto un profilo ancora diverso. Perché il tramonto di quella visione della «coscienza di classe» non è solo il frutto della dissoluzione della ‘tradizione marxista’ e della fine dell’illusione secondo cui solo una conoscenza stabilmente ancorata alla critica dell’economia politica può consentire di superare l’«apparenza» e di giungere alla realtà ‘oggettiva’. Il tramonto della visione della «coscienza di classe» è infatti anche il riflesso del crollo dell’immaginario progressista otto e novecentesco, nel quale si innestavano le ambizioni prometeiche del marxismo.
Questa caduta implica soprattutto la rinuncia a pensare che ci sia un orizzonte, più o meno lontano, più o meno chiaramente percepibile, che possa davvero far quadrare il cerchio della complessità, e che dunque solo una visione ‘scientifica’ della realtà – quale che sia la scienza cui si guarda – possa ricomporre anche solo teoricamente i mille frammenti di una realtà composita. Il territorio così insidioso nel quale ci troviamo certo non rende meno utile il lavoro dell’inchiesta (e neppure l’importanza di una formazione teorica). Ma l’inchiesta viene oggi a collocarsi su un terreno completamente diverso da quello in cui era inserita negli anni Sessanta e Settanta, perché il compito dell’inchiesta oggi non può più essere quello di decifrare i bisogni, i comportamenti, le aspettative, le inclinazioni dei lavoratori e delle «masse», per poter poi collocare quegli elementi frammentari alla base di una riflessione tattica, ma dentro il quadro generale di una visione strategica, e dunque in un orizzonte dai tempi lunghi (spesso lunghissimi), il cui punto terminale appariva comunque definito e condiviso.
Per chiunque osservi i conflitti del XXI secolo senza gli occhiali deformati del Novecento, non può più esistere infatti un obiettivo predeterminato di lungo periodo, e persino le linee di fondo di qualsiasi strategia non possono essere predeterminate, o ancorate a una teleologia implicita, se non a una teleologia – qualunque forma essa assuma – che sia costruita ‘politicamente’. Il terreno dei conflitti del XXI secolo è allora il terreno di una radicale completa contingenza, nel senso che le forme storiche della coscienza – di cui Rieser segnalava la complessità – si divaricano forse per sempre dall’orizzonte progettuale che per buona parte del Novecento avevano assunto come riferimento. E su proprio questo terreno si ripropone in forme nuove e più radicali il vecchio nodo – spesso frainteso – dell’«autonomia del ‘politico’». Un nodo in cui il ‘politico’ non è più semplicemente il campo in cui si gioca il conflitto per il controllo delle istituzioni, ma soprattutto la dimensione in cui una teoria può forse costruire un progetto capace di rammendare tutti i brandelli di una realtà frammentata. E, dunque, la dimensione in cui si possono tentare di comporre, in una visione inevitabilmente contingente, tutte le tessere che ogni volta restituisce quell’interminabile lavoro inchiesta di cui Vittorio Rieser, per più di mezzo secolo, non si stancò mai di ribadire la centralità.
Note
[1] M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser. Intellettuale militante di classe, Punto Rosso, Milano, 2015. La figura di Rieser è stata rievocata anche da B. Beccalli, Ricordo di Vittorio Rieser: un intellettuale dai molti talenti, in «il manifesto», 24 maggio 2014 [http://ilmanifesto.info/ricordo-di-vittorio-rieser-un-intellettuale-dai-molti-talenti/], A. d’Orsi, La flânerie di un rivoluzionario. Ricordo di Vittorio Rieser, «Micromega online», 26 maggio 2014 [http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-flanerie-di-un-rivoluzionario-ricordo-di-vittorio-rieser/], G. Mottura, Vittorio Rieser e l’inchiesta, in «Inchiesta», 2014, n. 184 [http://www.inchiestaonline.it/lavoro-e-sindacato/giovanni-mottura-vittorio-rieser-e-linchiesta/].
[2] G. Fofi, Le albe torinesi, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., p. 21.
[3] «L’impostazione ci lascia subito un po’ perplessi» – avrebbe infatti ricordato lo stesso Rieser molti anni più tardi, in un volume curato da Enzo Pugliese – «ad esempio, la domanda “Dio vuole che tu sia disoccupato?” crea imbarazzo sia in noi che la dobbiamo porre, sia in molti dei nostri interlocutori, che non ne capiscono il senso. Ma Danilo sostiene che è quella a cui sono state date “alcune delle più belle risposte” – e questo rivela il criterio che influirà anche sulla presentazione dei risultati: selezionare le risposte “più belle” letterariamente, più che analizzare/organizzare le risposte in modo da costruire un’analisi di come era vissuto il problema della disoccupazione (tema centrale dell’inchiesta). Malgrado questo, si tratta per noi di un’esperienza importante, di confronto con una realtà ben diversa da quella torinese (in particolare per Giovanni, che vedrà da vicino cos’è una cittadina della “provincia mafiosa”)». Cfr. V. Rieser, L’inchiesta nella fabbrica e nella società, in E. Pugliese (a cura di), L’inchiesta sociale in Italia, Carocci, Roma, 2008, ora disponibile anche online, sul sito di «L’ospite ingrato» [http://www.ospiteingrato.org/per-vittorio-rieser/].
[4] S. Dalmasso, Una militanza di classe, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., p. 45.
[5] Cfr. G. Carocci, Inchiesta alla Fiat, Parenti, Firenze, 1960.
[6] V. Rieser, L’inchiesta nella fabbrica e nella società, cit.
[7] V. Rieser, Note sullo sciopero alla Magnadyne, in «Problemi del socialismo», 1961, n. 1, p. 87.
[8] V. Rieser, Intervista (3 ottobre 2001), in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., p. 190. L’intervista è apparsa originariamente nel Cd-rom allegato a G. Borio – F. Pozzi – G. Roggero, Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, Derive Approdi, Roma, 2002.
[9] R. Alquati, Relazione sulle «forze nuove». Convegno del Psi sulla Fiat, gennaio 1961, in «Quaderni rossi», 1961, n. 1, ora in Id., Sulla Fiat e altri scritti, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 27-53.
[10] V. Rieser, La politica della Fiom torinese, in «Problemi del socialismo», 1961, n. 6, p. 675.
[11] Ibi, p. 678.
[12] Ed era in fondo proprio su questa visione che Foa chiudeva il suo intervento: «Questa tendenza porta alla necessità, sempre crescente, di una rigida programmazione della produzione e dei suoi sbocchi, di un sempre più forte condizionamento dei consumi, e quindi di una piena libertà, da parte dell’impresa, rispetto alle sue condizioni interne e rispetto alla vita della società. Ogni elemento di instabilità, per il periodo di ammortamento degli impianti, deve essere eliminato. […] Al limite dell’automazione le tregue saranno richieste per tutto il periodo dell’ammortamento. Ma a quel limite sarà di evidenza solare l’alternativa che già oggi travaglia il movimento operaio e sindacale nei paesi capitalistici avanzati. O tutto il potere sarà consolidato nelle imprese, con la perdita dell’autonomia operaia e sindacale […], oppure un potere di decisione e di controllo, sia pure transitoriamente in termini dualistici di antagonismo continuo, sarà conquistato dalla collettività dei lavoratori-produttori, dallo Stato all’azienda» (V. Foa, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in «Quaderni rossi», 1961, n. 1, pp. 16-17).
[13] Cfr. R. Panzieri, L’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in «Quaderni rossi», 1961, n. 1, pp. 53-72, poi in Id., Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Einaudi, Torino, 1976, pp. 3-50.
[14] V. Rieser, Definizione del settore in una prospettiva politica, in «Quaderni rossi», 1961, n. 1, pp. 75-76.
[15] V. Rieser, Note sulla classificazione del lavoro, in «Quaderni rossi», 1962, n. 2, pp. 144-164.
[16] V. Rieser, La mansione aziendale come problema politico, in «Problemi del socialismo», 1961, n. 11, p. 1132.
[17] Ibi, p. 1135.
[18] Ibi, p. 1139.
[19] Ibi, pp. 1139-1140.
[20] V. Rieser, Il problema dei trasporti e l’integrazione della classe operaia, in «Problemi del socialismo», 1962, n. 11, p. 989.
[21] V. Rieser, La lotta operaia nella programmazione capitalistica (appunti sulla lotta contrattuale dei metalmeccanici), in «Cronache dei Quaderni rossi», settembre 1962, p. 24
[22] Ibi, p. 20.
[23] Ibidem.
[24] M. Tronti, La fabbrica e la società, in «Quaderni rossi», 1962, n. 2, pp. 1-31, e M. Tronti, Il piano del capitale, in «Quaderni rossi», 1963, n. 3, pp. 44-73, poi in Id., Operai capitale, Einaudi, Torino, 19712 (I ed. 1966), rispettivamente alle pp. 39-59, e pp. 60-85.
[25] Cfr. R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del ‘Capitale’, in «Quaderni rossi», 1963, n. 3, poi in Id., Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, cit., pp. 51-85.
[26] Come si leggeva d’altronde sull’editoriale del terzo numero, «le lotte operaie – se non escono dai limiti del piano – possono anche essere utili per il capitalismo: ad esempio, nel momento in cui c’è bisogno di un incremento dei consumi per uno sviluppo capitalistico più avanzato, la lotta operaia può servire ad imporre aumenti salariali anche a quei padroni più ‘arretrati’ che vi si oppongono» (Quaderni rossi, Piano capitalistico e classe operaia, in «Quaderni rossi», 1963, n. 3, p. 12).
[27] Cfr. V. Rieser, Salario e sviluppo nella politica della Cgil, in «Quaderni rossi», 1963, n. 3, pp. 211-236.
[28] Cfr. la testimonianza dello stesso Rieser, riportata in G. Trotta – F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», Derive Approdi, Roma, 2008, pp. 760-761.
[29] Cfr. M. Tronti, Operai e capitale, cit., pp. 256-258.
[30] Tesi Rieser-Salvati, in G. Trotta – F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 303.
[31] Per esempio, si vedano le ricostruzioni di S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta. Introduzione a Raniero Panzieri, Dedalo, Bari, 1976, specie pp. 99-125, F. Schenone, Fare l’inchiesta: i «Quaderni rossi», in «Classe», XI (1980), n. 17, pp. 173-220, S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma, 2008, pp. 85-89, oltre che i materiali raccolti in G. Trotta – F. Milana, (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta, cit.
[32] R. Panzieri, Intervento alla riunione di redazione «Qr»-«Cronache operaie», in Id., La ripresa del marxismo-leninismo in Italia, a cura di D. Lanzaro, Sapere, Milano, 1972, pp. 301-304.
[33] L. Lanzardo, Per Vittorio, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., p. 33.
[34] Cfr. V. Rieser, Sviluppo e congiuntura nel capitalismo italiano, in «Quaderni rossi», 1964, n. 4, pp. 87-211.
[35] Relazione di Vittorio Rieser al seminario del 17-18 aprile 1965 – Torino, Notizie e documenti di lavoro, aprile 1965.
[36] Un bilancio del lavoro compiuto e un programma su quello da fare erano peraltro proposti nell’intervento di V. Rieser, I «Quaderni rossi», in «Rendiconti», 1965, n. 10, pp. 270-288,
[37] V. Rieser, Informazioni, valori e comportamenti operai, in «Quaderni rossi», 1965, n. 5, pp. 77-106.
[38] Cfr. E. Masi, Insegnamenti teorici del comunismo cinese, e Rivoluzione nel Viet-nam e movimento operaio occidentale, in «Quaderni rossi», 1966, n. 6, pp. 351-372, pp. 373- 389.
[39] V. Rieser, Note sulla congiuntura capitalistica internazionale, in «Quaderni rossi», 1966, n. 6, pp. 180-284.
[40] E. Masi, Su alcuni temi rilevanti nelle posizioni del Partito comunista cinese, in «Lettera dei Quaderni rossi», n. 1, 20 novembre 1963.
[41] Cfr. V. Rieser, Sulle attuali vicende del partito socialista italiano, in «Lettera dei Quaderni rossi», n. 2, 30 novembre 1963, Id., Le tesi della Fiom per il XIV Congresso, in «Lettera dei Quaderni rossi», n. 3, 1 gennaio 1964, Id., La lotta degli operai della Olivetti contro il sistema di cottimo, in «Lettera dei Quaderni rossi», n. 4, 20 gennaio 1964. Di poco successivo era anche Id., Problemi attuali della Cgil, in «Problemi del socialismo», 1965, n. 2.
[42] Quaderni rossi, Note per una discussione su «Problemi della lotta anti-imperialista e situazione nel Medio Oriente», giugno 1967.
[43] D. Lanzardo, I cinquant’anni della Rivoluzione d’Ottobre, settembre 1967.
[44] Cfr. Imperialismo e rivoluzione in America Latina, in «Quaderni piacentini», 1967, n. 31.
[45] V. Rieser, Intervista, cit., pp. 195-196. Per un ulteriore approfondimento sulla valutazione della «rivoluzione culturale», cfr. V. Rieser, La classe operaia cinese e la lotta tra le due linee, in «Politica comunista», 1973, n. 5, e 1974, n. 8.
[46] Cfr. R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in «Quaderni piacentini», 1967, n. 29, poi in Id., Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, a cura di S. Mancini, Einaudi, Torino, 1976, pp. 25-50.
[47] V. Rieser, Classe operaia e sviluppo capitalistico europeo, in «Quaderni piacentini», 1967, n. 30, p. 35.
[48] Ibi, p. 39.
[49] Ibi, p. 40.
[50] Cfr. per esempio V. Rieser, Università e società, in «Problemi del socialismo», 1968, n. 35, pp. 341-353.
[51] Cfr. per esempio il testo di G. Viale, Contro l’Università, in «Quaderni piacentini», 1968, n. 33, poi in Id., S’avanza uno strano soldato, Edizioni Lotta continua, Roma, 1973, 19-48.
[52] Si veda su questi tentativi, F. Ciafaloni, Le lotte operaie alla Fiat e il movimento studentesco, in «Quaderni piacentini», 1968, n. 35, pp. 73-80.
[53] V. Rieser – M. Volterra, Movimento studentesco, Pci e centro-sinistra, in «Quaderni piacentini», 1969, n. 37, p. 19.
[54] Ibi, p. 25.
[55] Cfr. V. Rieser, Cronaca delle lotte alla Fiat, in «Quaderni piacentini», 1969, n. 38, pp. 2-29.
[56] Su questa paternità, si esprimeva lo stesso Rieser: «c’era la fase dell’assemblea studenti-operai, la nascita della sigla Lotta Continua, che inizialmente è nata non come sigla di un gruppo: mi ricordava Mario Dalmaviva che, a quanto pare, l’abbiamo inventata io e lui perché ogni giorno si faceva un volantino e, siccome le lotte si estendevano, una volta l’abbiamo titolato La Lotta Continua, dunque era un titolo descrittivo che poi è rimasto. Sofri poi si è impadronito di questo, ha rotto l’unità molto confusa dell’assemblea studenti-operai, ha costruito il suo gruppo e a quel punto io non l’ho seguito nel suo progetto» (V. Rieser, Intervista, cit., in Borio, pp. 199-200). Una versione analoga è stata rievocata anche dallo stesso Dalmaviva: «Gennaio-febbraio 1969. Con Vittorio Rieser e con un operaio che lavorava alla Meccanica di Mirafiori, un militante politico dei gruppi, cominciammo a discutere della situazione alla Fiat, ad andare alle porte e a tenere delle riunioni con pochi compagni che erano interessati a un discorso sulla condizione operaia. […] Decidemmi di fare un volantino […] legandolo alle solite tematiche salariali […] La Lega studenti-operai praticamente non c’era più e dovevamo risolvere il problema della firma. Noi eravamo fondamentalmente studenti o militanti dei gruppi e ci presentavamo senza firma politica. Al primo volantino discutemmo con Vittorio come firmarli. Mica potevamo distribuirlo anonimo. Lui propose “La Lotta continua”, ma il “La” non piaceva e fu cancellato. La nascita di Lotta continua. Eravamo davvero quattro gatti. Vittorio, Dario e Liliana, Ottavio un operaio di Mirafiori, e qualche studente del gruppo di Sociologia» (testimonianza in A. Grandi, Insurrezione armata, Rizzoli, Milano, 2005, pp. 129-130).
[57] V. Rieser, Cronaca delle lotte alla Fiat, in «Quaderni piacentini», 1969, n. 38, p. 26.
[58] Ibidem.
[59] Cfr. per esempio, A. Sofri, Relazione introduttiva, in «Giovane critica», n. 19, 1969, ora in R. Massari (a cura di), Adriano Sofri, il ’68 e il Potere operaio pisano, Massari, Bolsena (Vt), 1998, pp. 305-324, ma anche cfr. L. Bobbio, Storia di Lotta continua, Feltrinelli, Milano, 1989 (II edizione), e D. Giachetti, La carovana di Lotta Continua e l’«eterno» problema dell’organizzazione, nel bollettino del Cipec «Storia cultura politica», s.d., pp. 5-14.
[60] A proposito della questione dell’organizzazione, Rieser partecipò anche a una dicussione condotta sulla rivista delle Edizioni Oriente «Vento dell’Est» nel 1968 (dal n. 7 al n. 10), e, qualche tempo dopo, sviluppò anche una critica alle posizioni ‘maoiste’ de «il Manifesto», per cui si veda A proposito dell’ articolo di M. Salvadori e della tematica de «il manifesto», in «Vento dell’Est», V (1970), n. 17, poi ripreso in M.L. Salvadori – V. Rieser, Rätesystem und Maoismus, Merve, Berlin, 1972.
[61] Cfr. S. Dalmasso, Una militanza di classe, cit., e D. Giachetti, Vittorio negli anni dei Comitati Unitari di Base, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., pp. 69-76.
[62] Cfr. 1969/1977. Lotte operaie a Torino. L’esperienza dei Cub, Comitato Unitari di Base, Punto Rosso, Milano, 2009, pp. 66-67.
[63] «Nato dall’esperienza della Lega studenti-operai che tenta di legare il movimento studentesco, nella sua fase di maggiore espansione, con le lotte operaie» scrive Sergio Dalmasso, «il piccolo movimento politico ha il merito di cercare una solida formazione dei militanti (Marx, Lenin, Mao, un comunismo non staliniano ne sono le basi) e di avere il proprio centro nell’esperienza dei Cub di fabbrica, certo meno radicati e noti di quelli milanesi, ma esperienza significativa e capace di formare quadri politici centrali nelle lotte operaie e nella loro proiezione politica» (S. Dalmasso, Una militanza di classe, cit., p. 47).
[64] Come ricorda in questo senso Riccardo Barbero, l’influenza maoista di Rieser, «tesa a superare vecchie concezioni sul rapporto tra le diverse forme di organizzazione politica e di lotta sindacale», orientò «la discussione sugli organismi politici di base». Cfr. R. Barbero, Vittorio Rieser e il Collettivo Lenin, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., p. 65.
[65] Cfr. D. Giachetti, Vittorio negli anni dei Comitati Unitari di Base, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., pp. 69-76.
[66] Documento del Cub Fiat Mirafiori, 13 settembre 1972, citato in 1969/1977. Lotte operaie a Torino, cit., p. 96.
[67] Per ricostruire gli obiettivi di quell’operazione, può essere utile rileggere V. Rieser, Conferenza stampa radiofonica, in «Quotidiano dei Lavoratori», 4 giugno 1976, citato parzialmente in S. Dalmasso, Una militanza di classe, cit., p. 48.
[68] V. Rieser, Indicazioni per un bilancio critico, in «Quotidiano dei Lavoratori», 23 giugno 1976, citato in 1969/1977. Lotte operaie a Torino, cit., p. 190.
[69] Su questa fase, cfr. per esempio l’intervento sottoscritto da Roberto Biorcio, Vittorio Borelli, Franco Calamida, Vittorio Rieser, Ripresa dell’iniziativa politica e problemi interni al partito, in «Quotidiano dei Lavoratori», 16-17 gennaio 1977. Ma, per un quadro generale, cfr. 1969/1977. Lotte operaie a Torino, cit., pp. 190-193
[70] Su questo processo, si veda W. Gambetta, Democrazia proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi, Punto Rosso, Milano, 2010.
[71] Un quadro molto ricco delle ricerche compiute in questo contesto è offerto da Gian Carlo Cerutti, Trasformazioni del lavoro e relazioni sindacali tra crisi del fordismo e post-fordismo, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., pp. 93-111.
[72] Tra le pagine di Rieser – disperse fra riviste, rapporti di ricerca e pubblicazioni occasionali – possono essere ricordati, per esempio, M. Franchi – V. Rieser, Esperienza e cultura dei delegati. Un’indagine nella realtà metalmeccanica modenese, Bonhoeffer Edizioni, Reggio Emilia, 1984, G. Cerutti – V. Rieser, Fiat: qualità totale e fabbrica integrata, Ediesse, Roma, 1991, G. Cerruti – F. Ciafaloni – F. Liso – V. Rieser, Professionalità in transizione, Ediesse, Roma, 1991, G. Cerruti – V. Rieser, L’imperfetta modernizzazione. Una ricerca sui quadri Fs in Piemonte, Ediesse, Roma, 1995, F. Perini – V. Rieser, Salute, sicurezza e condizioni di lavoro. Un’indagine tra le iscritte e gli iscritti della Cgil Piemonte, Ediesse, Roma, 2004, oltre che l’opuscolo Dentro il lavoro, l’Unità, Roma, 1989 (nel quale sono presentati alcuni primi risultati della ricerca commissionata dal Pci). Forse il testo più significativo di questa fase è però rappresentato da V. Rieser, Fabbrica oggi. Lo strano caso del dottor Weber e di mister Marx, Sisifo, Siena, 1992, parzialmente ripreso anche in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., pp. 206-226.
[73] Cfr. M. Gaddi, Lotte operaie nella crisi. Materiali di analisi e di inchiesta sociale, Punto Rosso, Milano, 2010. Si veda al proposito la lettura proposta in La società dentro la fabbrica. A proposito di alcune inchieste recenti, 18 maggio 2011 [http://www.damianopalano.com/2011/05/la-societa-dentro-la-fabbrica-proposito.html], raccolto anche nell’e-book Al termine della notte. Tracce nella decadenza italiana (2013).
[74] V. Rieser, Prefazione, in M. Gaddi, Lotte operaie nella crisi, cit., pp. 5-23.
[75] Fra i casi considerati da Gaddi su «Progetto Lavoro», per esempio la cantieristica (n. 1, 2010), l’ex distretto tessile della Valseriana (n. 1, 2010), la Bassano Grimeca di Rovigo (n. 3, 2011), l’Elettrolux (n. 5, 2011), Ibm di Vimercate (n. 8, 2011), Invatec-Medtronic di Brescia (n. 10, 2012), CF Gomma di Passirano (n. 10, 2012), Memc di Merano (n. 11, 2012), Porto Marghera e Murano (n. 13, 2012).
[76] V. Rieser, Perché questa sezione della rivista, in «Progetto Lavoro», n. 1, p. 43. Questa visione dell’inchiesta ritorna, in modo piuttosto fedele, anche nel recente volumetto di Matteo Gaddi, Crisi industriale e classe operaia. Spunti per un lavoro di inchiesta, Punto Rosso, Milano, 2015, in particolare alle pp. 106-130. Per alcune notizie, cfr. M. Gaddi, L’ultima fase dell’inchiesta, in Id., (a cura di), Vittorio Rieser, cit., pp. 172-186.
[77] Paradigmatico è in tal senso il vecchio articolo di R. Sbardella, La Nep di «Classe operaia», in «Classe», XI (1981), n. 17, pp. 239-262, ma sulla stessa linea anche A. Mangano, Autocritica e politica di classe. Diario teorico degli anni Settanta, Ottaviano, Milano, 1978, specie pp. 79-131.
[78] Cfr. per esempio R. Alquati, Camminando per realizzare un sogno comune, Velleità alternative, Torino, 1994, p. 145. Ma cfr. anche F. Schenone, Fare l’inchiesta, cit.
[79] S. Wright, L’assalto al cielo, cit., p. 89.
[80] L. Balbo – V. Rieser, La ‘sinistra’ e lo sviluppo della sociologia, in «Problemi del socialismo», 1962, n. 3, p. 192. Su temi simili, cfr. anche V. Rieser, Sociologia industriale e sviluppo capitalistico, in «Problemi del socialismo», 1962, n. 9-10, pp. 901-912, e Id., Lavoratori, sindacati e progresso tecnologico, in «Quaderni di sociologia», XII (1963), n. 1, pp. 58-72.
[81] V. Rieser, Panzieri e i «Quaderni Rossi», in «Politica comunista», III (1975), n. 3, pp. 31-32.
[82] Ibi, p. 35.
[83] Valutazioni simili – anche se meno segnate dalla polemica politica contingente – vennero riproposte due decenni dopo, in un volume che ricordava Panzieri: cfr. la testimonianza di Rieser compresa in P. Ferrero (a cura di), Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, Punto Rosso – Carta, Milano – Roma, 2006 (I edizione 2005), pp. 222-239.
[84] «La disputa era astratta», ricordava nel 2001, «perché quando hai la possibilità di fare conricerca è chiaro che è questo il metodo migliore, però se sei all’esterno di una situazione e l’inchiesta è il primo strumento di presa di conoscenza di quella realtà ovviamente devi ricorrere a metodi tradizionali, non nel senso di fare questionari quantitativi (quando puoi farli vanno bene anche quelli), ma devi usare con il dovuto senso critico dei metodi tradizionali di ricerca» (V. Rieser, Intervista, cit., pp. 193-194).
[85] D. De Palma – V. Rieser – E. Salvadori, L’inchiesta alla Fiat nel 1960-61, in «Quaderni rossi», 1965, n. 5, pp. 219-220.
[86] Cfr. per esempio R. Alquati, Per fare conricerca, Calusca, Padova, 1993.
[87] D. De Palma – V. Rieser – E. Salvadori, L’inchiesta alla Fiat nel 1960-61, cit., p. 251.
[88] V. Rieser, Informazioni, valori e comportamenti operai, cit., p. 87.
[89] Ibi, p. 88.
[90] In questo senso, nell’intervista del 2001 riportava per esempio un parere del sindacalista Gianni Marchetto: «Quando gli si chiede che esperienza ha avuto dell’operaio-massa, lui risponde: “quando ero segretario della lega di Mirafiori ne ho conosciuti due: Massa Giacomo, che era della manutenzione e iscritto al sindacato, e Massa Giuseppe, che era uno combattivo delle carrozzerie non iscritto”. E poi da lì chiede: “come vi spiegate che a Mirafiori il turno A ha sempre scioperato meglio del turno B malgrado avessero ovviamente la stessa composizione di classe? Perché la soggettività del singolo operaio c’entra, perché in uno c’erano certi operai e nell’altro certi altri”. Questo è un contributo teoricamente importante per il rapporto tra composizione di classe e soggettività» (V Rieser, Intervista, cit., pp. 203-204).
[91] Sul percorso di Bologna, ho proposto uno schema di analisi in D. Palano, Nel cervello della crisi. La «storia militante» di Sergio Bologna fra passato e presente, in «tysm», vol. 6, n. 9, novembre 2013.
[92] V. Rieser, Analisi di classe, inchiesta e costruzione strategica, in «Progetto Lavoro», 2011, n. 4, p. 53. Il riferimento era in particolare a E.O. Wright, Classes, Verso, London, 1985.
[93] Lenin, Che fare (1903), Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 115.
[94] V. Rieser, Il concetto di «alienazione» in sociologia, in «Quaderni di Sociologia», XV (1965), n. 2, p. 166. Una soluzione simile era anche adottata, circa un quarto di secolo dopo, nelle note metodologiche per la ricerca sul lavoro commissionata dal Pci alla fine degli anni Ottanta, riportate sinteticamente in Dentro il lavoro, cit., e poi in V. Rieser, Fabbrica oggi, cit., dove si legge per esempio, a proposito della nozione di «alienazione»: «Si sceglie una definizione volutamente riduttiva e parziale: l’alienazione viene definita come mancanza di controllo, in un duplice riferimento: – al lavoro: mancanza di controllo sulle condizioni del proprio lavoro (immediate e/o più mediate o indirette); – al progetto: mancanza di controllo sulle condizioni realizzazione dei propri progetti che includono il lavoro» (ibi, p. 146).
[95] V. Rieser, Il concetto di «alienazione» in sociologia, p. 138.
[96] Cfr. G. Lukáks, Storia e coscienza di classe (1923), SugarCo, Milano, 1991, pp. 107-275.
[97] V. Rieser, Il concetto di «alienazione» in sociologia, cit., p. 142.
[98] Ibi, pp. 143-144.
[99] Su Lukáks e su Storia e coscienza di classe sono comunque da vedere anche le annotazioni svolte da Rieser in un seminario del 2006, organizzato da Riccardo Bellofiore, la cui trascrizione è ora riportata in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit. pp. 227-241.
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[100] V. Rieser, L’«apparenza» del capitalismo nell’analisi di Marx, in «Quaderni di Sociologia», XV (1966), n. 1, pp. 57-88.
[101] Ibi, p. 87.
[102] Emblematico era da questo punto di vista l’intervento di A. Negri (Erkenntnisstheorie. Elogio dell’assenza di memoria, in «Metropoli», n. 5, 1981, poi in Id., Fabbriche del soggetto, XXI Secolo, Livorno, 1987, pp. 159-167
[103] Cfr. C. Bermani – F. Coggiola (a cura di), Memoria operaia e nuova composizione di classe. Problemi e metodi della storiografia sul proletariato, Maggioli, Rimini, 1986.
[104] V. Rieser, A proposito di memoria storica e coscienza di classe, in «Quaderni piacentini», n.s., 1982, n. 4, pp. 17-35.
[105] Ibi, p. 29.
[106] Ibi, p. 30.
[107] Ibi, p. 31.
[108] Ibi, p. 32. Tali considerazioni non riguardavano solo la storiografia, perché la frammentazione metteva in crisi anche la strategia seguita dal sindacato dalla fine degli anni Sessanta, una strategia che «consisteva nella costruzione di un blocco sociale unitario estendendo e generalizzando l’esperienza di un settore (minoritario) trainante, nel caso specifico l’operaio comune della grande produzione di serie» (V. Rieser, Sindacato e composizione di classe, in «Laboratorio politico», 1981, n. 4, p. 68).
[109] Alcuni di questi sono raccolti in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., in particolare 242-288.
[cite]
tysm
philosophy and social criticism
vol. 24, issue no. 24
may 2015
ISSN: 2037-0857
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