philosophy and social criticism

L’inverso in un’ombra. Sebald e il trauma storico

Mario Pezzella

Sebald ha una visione malinconica della storia: apparentemente simile a quella dell’Angelo di Walter Benjamin, che vede nel progresso “una sola catastrofe”[1]. In lui, però, non c’è traccia della debole forza messianica che nel filosofo berlinese faceva da contraltare alla cupezza saturnina. Nel trauma storico che ha investito la Germania nella seconda guerra mondiale la “storia naturale” rivendica i suoi diritti su quella umana: “…La distruzione non è piuttosto l’inconfutabile prova del fatto che le catastrofi, le quali prendono per così dire corpo fra le nostre mani per poi scoppiare all’apparenza impreviste, anticipano invece a guisa di esperimento il punto in cui noi, da quella che per tanto tempo abbiamo creduto la nostra storia di soggetti autonomi, ricadiamo nella storia della natura?”[2](71).

“Storia naturale” è un termine usato da Adorno, per indicare l’irrigidimento arcaico del divenire storico all’interno dell’astrazione del capitale e il suo asservimento a un destino ciclico inalterabile: per Sebald questa mineralizzazione ha piuttosto un valore metafisico, è la conferma che un cattivo dio domina la creazione. Il trauma storico è la rivelazione evidente di tale destino, di per sé irredimibile. Ciò contribuisce alla fermezza precisa e descrittiva del suo sguardo e alla sua radicale mancanza di speranza. Non è improbabile che la sua visione della storia finisca per coincidere con quella del medico e filosofo secentesco T. Browne, di cui rievoca la figura negli Anelli di Saturno: “Su ogni nuova forma già si allunga l’ombra della distruzione. La storia di ogni singolo individuo, di ogni collettività e del mondo intero non descrive infatti un arco sempre più ampio e sempre più bello, bensì una traiettoria che, dopo aver toccato lo zenit, volge alle tenebre”[3].

I personaggi di Sebald sono vittime di un trauma, che li sottomette a una coazione a ripetere dominata dalla pulsione di morte. Una affinità elettiva lega il malinconico filosofo barocco Browne a Sebald e a tutte le ombre del passato, che questi rievoca nella sua opera. E’ una corrispondenza che non salva, non sbalza fuori i possibili dal continuum neutro e omogeneo del tempo, come voleva Benjamin, ma si limita a confermare il ciclo demonico e ineludibile degli eventi. Per Sebald opera nella storia un cupo impulso al godimento della distruzione, che sovrasta ogni principio del piacere e dell’autoconservazione e costringe alla ripetizione incessante dei fantasmi traumatici.

Che logica c’è nella costruzione delle navi grandiose affondate in pochi istanti nella inutile battaglia di Southwold? “L’immane dispendio di forza lavorativa”, tale da trascendere addirittura la nostra capacità rappresentativa, l’intelligenza e il danaro profusi per costruire effimeri strumenti di morte: tutto ciò anticipa già la frenetica attività distruttiva dei nazisti, alla fine della seconda guerra mondiale, in cui è difficilmente leggibile un qualsiasi motivo strumentale o economico ed emerge solo l’oscura vocazione a distruggersi.

Raccontando del poeta M. Hamburger, ma in fondo anche di se stesso, Sebald ci indica il marchio traumatico della sua ispirazione e il “punto oscuro” intorno a cui ruota la sua esperienza, proprio mentre la Germania del dopoguerra metteva in atto un gigantesco lavorio di dimenticanza: “Probabilmente questo punto oscuro è anche un’immagine postuma del paesaggio di rovine, nel quale ero andato errando nel 1947 quando tornai per la prima volta nella mia città natale, alla ricerca delle tracce di quel tempo che mi era stato sottratto…davanti a case delle quali non erano rimaste in piedi altro che le facciate”[4]. A questo tempo sottratto alla sua generazione si rivolge la memoria di Sebald.

Nessuna stella della redenzione è immaginabile tra gli anelli di Saturno del cielo di Sebald. D’altra parte occorre riconoscere come il compito che egli si è assunto sia decisamente gravoso: non solo ridare voce agli oppressi, a cui egli si sente simpateticamente legato, come gli ebrei della Shoah; ma anche  restituire figura a vittime, che sono state a loro volta persecutori o spettatori passivi dello sterminio. Nella Germania del dopoguerra la rimozione colpisce allo stesso tempo il trauma subito con i massacri e le distruzioni, operati dai bombardamenti alleati sulle città tedesche; e quello che i Tedeschi stessi hanno inferto ad altri, nello genocidio della Shoa. Per un tedesco come Sebald e della sua generazione, la memoria deve far fronte inevitabilmente indissolubilmente a entrambe le cose: l’umiliazione infinita della vittima è tanto più contorta, in questo caso, in quanto essa si contamina col senso di colpa altrettanto infinito del carnefice sconfitto e del vincitore mancato.

La storia della Germania è segnata per Sebald dall’emergere di “brecce distopiche”. Se l’utopia è la proiezione nel futuro di un desiderio realizzato e apre varchi e rotture nella ripetizione sempre uguale della storia: la distopia getta sull’avvenire il fascio funereo della distruzione radicale e le brecce sono allora annunci della catastrofe, suggeriti dalla pulsione di morte. La cultura tedesca del dopoguerra ha ordito un “cordone sanitario” intorno alle “zone di morte”(97) che lo squarcio distopico della sconfitta e della Shoah aveva creato.

La ferita del dopoguerra  è del resto la ripetizione deformata di una più antica, che fu tra le cause del nazismo e si ripete in un perverso ciclo destinale: “…Segnati da un’umiliazione che mai avevano superato, i Tedeschi andavano ora sviluppando un’immagine di sé come popolo chiamato a redimere il mondo”[5]. Così racconta Maximilian, il padre scomparso di Austerlitz, dopo essere stato egli stesso a Norimberga e aver visto il celebre film della Riefenstahl sul congresso del partito nazista trionfante, nel quale in effetti Hitler è ripreso mentre entra scenograficamente nella città simile a Cristo: come in “un ghetto affollato all’inverosimile…il tanto atteso salvatore”[6].

Se l’utopia immagina un radicale inizio o novissimum della storia, la distopia è l’affermazione del destino inalterabile. Questa immagine mesta non è sorta improvvisamente in Germania, di fronte alle macerie e agli orrori delle città distrutte: essa è una vocazione in qualche modo radicata nella tradizione culturale precedente, nella quale si diffonde sempre più, “sin dall’insorgere dell’espressionismo”, “un mito fatto di tramonto e distruzione”(98). Sebald ne vede una traccia significativa nel film di Lang La vendetta di Crimilde(1924), “dove tutta la potenza armata di un popolo si getta…nel baratro della perdizione per dissolversi poi in mezzo alle fiamme di un grandioso spettacolo di piromania”(98). Del resto già Hölderlin temeva il dilagare del desiderio di morte; nella poesia Voce di popolo rievoca il destino dei Lici, che preferirono morire nell’incendio della loro città, piuttosto che arrendersi a Bruto: “E più non furono in sé. Grida/si levarono, e giubilo. Poi nelle fiamme/donne e uomini si gettarono, dal tetto si buttò/un fanciullo, sulla spada del padre un altro[7]. Pulsione distopica e titanica che Hölderlin vedeva emergere nei suoi contemporanei.

Nel dopoguerra –e non solo in Germania- sono stati eretti muri e miti storiografici, per impedire una vera memoria dei traumi avvenuti. Il gollismo ha minimizzato in Francia la massiccia adesione ai misfatti di Vichy; la Resistenza –deformata in mito conciliativo- ha finito per assolvere gli Italiani dalla creazione del Fascismo e dai massacri compiuti nelle colonie; in Germania americanizzazione e miracolo economico sono serviti a evitare una reale assunzione di responsabilità del male compiuto e anche il ricordo di quello subito, “un’opera di annientamento, senza precedenti nella storia…che è rimasta in larga parte esclusa dalla consapevolezza di sé elaborata a posteriori dalle vittime”(18). I miti postbellici hanno tutti la caratteristica di operare retrospettivamente un rovesciamento e un risarcimento immaginario degli eventi, che cancellano ogni traccia consapevole dei traumi passivi ed attivi: “La distruzione totale non si presenta quindi come il terrificante esito di un processo di pervertimento collettivo, ma…come il primo stadio di una ricostruzione perfettamente riuscita”(20).

Il fatto che questi miti abbiano potuto diffondersi con tanta facilità in persone che pure erano state coinvolte direttamente nelle distruzioni belliche, deriva probabilmente dalla letterale –e più volte constatata- inenarrabilità delle vicende della seconda guerra mondiale. Ciò è vero per la Shoah, ma anche per Hiroshima e per la distruzione della Germania: come se fosse impossibile integrare in un codice simbolico riconoscibile queste esistenze estreme; così il rogo di Dresda “dovette necessariamente condurre a un sovraccarico e a una paralisi della capacità razionale ed emotiva in quanti riuscirono a salvarsi”; la funzione dei miti postbellici “è di occultare e neutralizzare esperienze che trascendono la nostra capacità di comprensione”(36).

Molte pagine di Sebald sembrano descrivere uomini ed esperienze sopravvissuti –ma inebetiti- a una catastrofe traumatica: così l’io narrante di Anelli di Saturno conosce stati –potremmo dire- di stupefazione temporale, che però non hanno nulla di estatico o di mistico, ma indicano piuttosto una paralisi e una sospensione della capacità di percepire ed esperire. I “fantasmi della ripetizione” si impadroniscono di lui, le sensazioni di déjà vu lo arrestano in un tempo che non scorre, in cui il ricordo e il futuro sono basilarmente impediti: “E’ come entrare nel vuoto o subire una specie di disinnesto che, in modo non dissimile da un grammofono che continui a ripetere la stessa serie di note, non dipende tanto da un guasto dell’apparecchio, quanto piuttosto da un irreparabile difetto di concezione”[8]. Ogni gesto, ogni attimo, non si apre in ricordi o in attese, ma resta chiuso circolarmente su di sé, replicandosi in un seguirsi di echi. Se si atrofizza la percezione soggettiva dell’inizio (un’impossibilità che deriva dall’effrazione del trauma), l’accadere decade nella pura ripetibilità e viene comunque determinato dal sempre uguale, anche se poi –in effetti- non si è mai verificato prima: l’inedito stesso si presenta come ripetizione, eterno ritorno di ciò che non è mai stato.

Quale sia il trauma che ha condotto a un tale stato di mancanza identitaria, resta dapprima enigmatico in molte narrazioni di Seebald: esse compiono un viaggio di lenta scoperta del kakon oscuro, al centro dell’anima dei suoi personaggi. Così in Austerlitz il protagonista è afflitto da una paralisi affettiva che inizialmente si presenta senza ricordo di cause, quasi come un destino fisiologico. “Perché –gli chiede la donna che vorrebbe amarlo- da quando siamo arrivati qui sei come uno stagno gelato?”[9]; ma prima di compiere il suo viaggio nella memoria, Austerlitz puo solo dirsi: “Una volta, chi sa quando nel passato, ho commesso un errore, pensai, e adesso mi trovo in una vita che non è la mia”[10]. E’ significativo come il trauma subito gli appaia come un peccato e in fondo come una colpa, la quale tende a razionalizzare il vuoto dell’abbandono e della perdita della madre e del padre. Qualcosa di simile ha provato anche P. Celan. Nel caso dei sopravvissuti alla Shoah, sembra che questo irrazionale sentimento di colpa derivi da una inconscia identificazione con l’aggressore: un meccanismo elementare di mimesi, una regressione a stadi arcaici del comportamento umano di fronte al pericolo, la quale si attiva quando l’ordine simbolico che sorreggeva la coscienza subisce un colpo troppo violento per poter essere sopportato.

Ferenczi ha studiato questo effetto del trauma nel caso dei bambini abusati, ma le sue osservazioni possono essere riferite anche ai traumi storici che hanno devastato l’adulto: essi costringono “a sottomettersi alla volontà dell’aggressore, a indovinare tutti gli impulsi di desiderio e, dimentichi di sé, a seguire questi desideri, identificandosi completamente con l’aggressore…La personalità ancora debolmente sviluppata risponde al dispiacere improvviso, anziché con i processi di difesa, con l’identificazione per paura e l’introiezione di colui che minaccia o aggredisce”[11]. Qui si tratta dell’identità incerta del bambino: ma durante la Shoah la debolezza primaria della personalità viene ricreata con una terribile tecnica di distruzione, che riattiva le tendenze arcaico-regressive della magia mimetica, in un contesto in cui esse sono totalmente impotenti e inadeguate ad affrontare il pericolo reale. In Austerlitz vivono ancora gli effetti devastanti di questo processo, e la percezione acuta di una frammentazione primordiale del corpo e dell’anima: “Il raziocinio non riusciva a spuntarla contro quella sensazione di ripudio e annientamento che da sempre avevo represso…Sentivo di dover gridare, e dalle labbra non mi usciva alcun suono, volevo scendere in strada ed ero incapace di muovermi…vidi me stesso letteralmente schiantare di dentro e parti del mio corpo finire sparse in una zona buia e remota”[12]. Se il suo personaggio si avvia a ritrovare consapevolezza della violenza subita, l’autore tedesco Sebald compie una specie di cammino a ritroso, in una identificazione con la vittima e nell’assunzione della sua parte di responsabilità collettiva: quasi rispondendo a una superiore necessità di confessione ed espiazione.

Sebald descrive sempre in modo preciso l’intersezione tra il costituirsi soggettivo del trauma e il suo occorrere per effetto di una situazione storica collettiva. Naturalmente si possono concepire due casi estremi: quello in cui il trauma derivi interamente da una predisposizione fisiologica o da una particolarità familiare, o –all’inverso- dall’irruzione di un evento esteriore insostenibile. Ma di solito il cortocircuito fra interno ed esterno è dato dal crollo dell’ordine simbolico, che permette il contenimento delle pulsioni distruttive e un almeno tollerabile legame sociale. Il dissesto simbolico riattiva le tendenze dissolutive e il senso della colpa che ognuno di noi conserva in modo latente nel fondo di se stesso, riconducendo anche individui che altrimenti non l’avrebbero conosciuta a una situazione psicotica o altamente regressiva.

Il trauma può appartenere a un passato remoto o addirittura all’eredità impersonale arcaica dell’umanità, come Freud ipotizza a proposito dell’omicidio del padre originario e delle sue ricorrenze nella storia: “In una qualche recente esperienza…compaiono impressioni che sono così analoghe al rimosso da poterlo risvegliare. Allora il recente si rinforza dell’energia latente del rimosso e il rimosso giunge a operare dietro al recente con il suo aiuto…è però di un’importanza decisiva il risveglio della traccia mnestica dimenticata a mezzo di una recente ripetizione reale dell’evento”[13]. Anche a non voler credere letteralmente all’evento-omicidio del Padre originario, esso esprime tuttavia miticamente la percezione della violenza presente da sempre nella storia e l’eredità che comunque –da vittime o da carnefici- ne portiamo dentro di noi. Chi di noi non porta tracce –sensibilmente trasmesse dalla sua costellazione familiare di generazione in generazione- di violenze commesse e subite in epoche passate? Un ordine simbolico efficace non annulla certamente questa eredità, ma consente di contenerla e di elaborarla nella coscienza; il suo crollo espone al dilagare illimitato degli impulsi disgreganti.

Nel comportamento magico-mimetico dell’identificazione con l’aggressore, la vittima –anche qualora non abbia compiuto atti effettivamente condannabili- si sente a posteriori emotivamente colpevole come l’aggressore e responsabile della morte o del dolore dei suoi compagni; resta valido anche in questo caso ciò che Ferenczi sosteneva a proposito dei traumi infantili: “…L’introiezione entra in gioco nel momento in cui il bambino o la bambina prendono su di sé la malvagità di colui che attacca, interiorizzando e rimodellando gli eventi penosi realmente accaduti come se ne fossero la causa”[14].

L’io narrante di Sebald è spesso un viaggiatore smarrito tra i suoi fantasmi, afflitto da uno stato traumatico di cui non conosciamo l’origine: certo è che il suo è un Io eternamente vacillante, al quale di momento in momento sembra mancare il terreno sotto i piedi. Solo con una grande fatica egli riesce ogni volta a evitare il salto nella demenza o nell’assenza o in quella che De Martino definiva “crisi della presenza” e a mettere comunque per iscritto le ombre che hanno popolato il suo attacco di panico e i suoi svariatissimi sintomi. In effetti non si dissolve solo l’Io del viaggiatore ma il contorno del  mondo circostante, sempre in sospeso tra il reale e le possibili allucinazioni. Così il viaggio si svolge meno in lontananze geografiche, che in strati sovrapposti di tempo.

Può accadere che il viaggiatore incontri Kafka nel 1913 o anche Casanova appena fuggito dai Piombi o Ludwig di Baviera che scende da un vaporetto a Venezia. Questi frammenti discontinui di tempo che si collegano insieme in unico “meridiano”, avrebbe detto Celan, non si concedono però a quell’istanza salvifica, che per esempio in Benjamin connette in modo inedito figure estratte dal passato. Piuttosto portano tutti ben visibili l’impronta di una cicatrice indelebile, prodotta dalla lama rapida di una qualche violenza inestinguibile. Se il tempo di Sebald non è quello lineare del progresso, tende malinconicamente a richiudersi nel cerchio di un eterno ritorno del trauma, da cui è impossibile uscire. Nella cappella degli Scrovegni l’io narrante è colpito dal “muto lamento”[15] degli angeli di Giotto, che prosegue inalterato “da quasi settecento anni”. Nella fuga dai Piombi di Casanova non lo affascina tanto il senso dell’avventura, ma l’incredibile arbitrarietà della giustizia veneziana, il “Principio Invisibile” che domina il fondo oscuro di Palazzo Ducale, e le sofferenze indicibili che deve subire il prigioniero nella sua cella più di tortura che di detenzione.

In Austerlitz, un sogno del protagonista evoca ancora Casanova, mentre vecchio e stanco nel castello di Dux si sforza di dare testimonianza della storia sua e del suo tempo scrivendo incessantemente. Fuori, nel paesaggio, una catastrofe è avvenuta che lo ha reso  desolato, come dopo un’esplosione atomica, ed è in realtà il riflesso psichico, posttraumatico, di Jacques Austerlitz e di Sebald stesso: “Dove prima c’era un terreno saldo, dove s’incrociavano strade, dove erano vissuti esseri umani, dove le volpi correvano per i campi e ogni sorta di uccelli svolazzava di cespuglio in cespuglio, adesso c’era solo uno spazio vuoto e, a terra, scorie, pietre e acqua morta che nemmeno un alito di vento riusciva a smuovere”[16]. E’ un paesaggio molto simile a quello descritto da Celan in Grata di parole, resto e residuo tossico dei campi di sterminio; ma anche a quello che compare nei film  di B. Tarr, dove invece descrive la desolazione incombente sulla nostra estrema modernità (vera e propria distopia, per usare il termine di Sebald).

Anche quando scrive di Stendhal, Sebald non si esalta certo per i gesti epici che lo scrittore francese ha inserito nei suoi romanzi e nei suoi scritti autobiografici: lo interessa piuttosto il suo lato oscuro e inquietante, che lo espone a erramenti, viaggi senza scopo e allucinazioni. Del resto, oltre alle piaghe della sifilide, è la violenza della guerra a sconvolgere per sempre l’animo di questo Stendhal sebaldiano, quando passa le Alpi con l’esercito napoleonico, “colmato di orrore” dalla strage di cavalli che accompagnava la marcia nei sentieri di montagna o anche dalla visione dei morti sulla “gloriosa” piana di Marengo, che gli opprimono la mente, pur non avendo egli partecipato alla battaglia ed essendosi recato in quel posto molti mesi dopo il suo svolgimento.

La Shoah e i bombardamenti distruttivi della Germania sono certamente i traumi storici che più intensamente stanno al centro dell’attenzione di Sebald. Non sono però gli unici. La sua esplorazione della violenza storica si espande nello spazio e nel tempo, per toccare le radici lontane della modernità occidentale che ramificano negli eventi recenti. Negli Anelli di Saturno la mezzanotte del secolo degli anni Quaranta del Novecento è preparata e preceduta dal colonialismo europeo, che –come nel grande libro di H. Arendt sui totalitarismi- mostra già la natura del genocidio e della guerra.

Gli stermini in America Latina e quello terribile messo in atto dai Belgi in Congo, sono ferite storiche i cui effetti si propagano ancora dopo decenni, non soltanto negli eredi delle vittime, ma anche in quelli dei persecutori. I Belgi e la loro capitale suscitano in Sebald un vero e proprio rigetto idiosincratico; le cicatrici della storia non restano solo iscritte nell’animo delle generazioni, ma perfino nella struttura fisica dei corpi e nelle pietre e nelle strutture dei palazzi. Bruxelles è vista attraverso lo sguardo di Conrad, a cui “la capitale del regno belga con i suoi edifici sempre più tronfi ricorda un monumento funebre eretto sopra una ecatombe di corpi neri e gli sembra che i passanti per strada nascondano tutti in un recesso dell’animo l’oscuro segreto congolese”, proprio come i Tedeschi del dopoguerra portano impressa nella fissità dello sguardo la catastrofe della Shoah e dei bombardamenti. Sebald rinforza con le sue impressioni personali quelle di Conrad, come se a distanza di quasi un secolo il veleno inoculato dalla violenza invece di indebolirsi avesse intensificato la sua azione devastatrice: “In effetti ancor oggi si riscontra in Belgio una particolare bruttezza che solo di rado è possibile osservare altrove e che, improntata all’epoca della rapina coloniale in Congo, si manifesta nell’atmosfera macabra di certi salotti e in una sorprendente deformità fisica della popolazione”, nell’alto numero di “individui gibbosi e squilibrati”[17].

In realtà la nostra storia attuale, ma anche il suo inconscio collettivo, è indelebilmente segnato dall’accumulazione primitiva che ha dato origine allo sviluppo dell’industria moderna. Questa origine rimossa di violenza e di sangue, riscoperta da Marx nel Capitale, è il trauma impensato che tende a insistere nella catena mimetica della violenza, e nel suo continuo, progressivo incremento. Si tratta sì di una ripetizione, che tuttavia conosce a ogni giro un aumento di intensità distruttiva e si sviluppa secondo le leggi di una coazione a ripetere, che i buoni propositi umanistici non riescono ad arrestare: “Il capitale accumulato  nel XVIII e XIX secolo mediante svariate forme di economia schiavistica…continua tutt’oggi a circolare, frutta interessi semplici e composti, cresce e si moltiplica producendo costantemente nuova ricchezza motu proprio[18]. Neppure l’arte è esente da questa origine oscura, se è vero, nota un personaggio di Sebald, che i maggiori musei olandesi e inglesi nascono grazie al finaziamento delle fondazioni legate alle dinastie dello zucchero e sicuramente complici delle spoliazioni e delle forme di sfruttamento inumano diffuse dagli Occidentali nel resto del mondo. A questo processo si accompagna in Europa il dilagare della proprietà privata e “la limitazione via via più radicale dei diritti comuni”[19], fino al punto che di questi si era perso perfino il concetto, prima che venisse riscoperto in tempi recenti e se ne facesse la storia.

A uno sguardo storico generale il trauma non è mai davvero repentino, come un fulmine verticale; perfino quelli naturali sono spesso il risultato di una lenta erosione, di una “distruzione strisciante la quale costituiva ormai la normalità della vita e praticamente non veniva più registrata, anzi di giorno in giorno non era nemmeno più registrabile”; è in conseguenza di questa che poi si producono “eventi catastrofici repentini”[20].

Osserviamo che in questo e in molti altri casi Sebald evoca scrittori del passato come “testimoni” dei traumi della storia, capaci di dare riconoscimento e memoria –come egli stesso tenta di fare- a coloro che oltre ad essere stati sconfitti sono stati per giunta interamente dimenticati. Questa è l’unica forma di letteratura che interessi veramente a Sebald, l’unica che non salga sul carro dei vincitori e si schieri per la testimonianza e la narrazione dell’esperienza contro l’oblio: o altrimenti sembra “che il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno”[21].

Testimonianze non meno importanti delle cicatrici della storia sono quelle –più anonime, più impersonali, ma altrettanto decisive- offerte dall’architettura, esperienze materiate, se così si può dire. Prima di intraprendere il viaggio verso il suo stesso passato, Austertlitz consuma le sue energie nel tentativo di decifrare e interpretare ciò che è rimasto impresso in modo indelebile in certi casamenti di epoche trascorse, soprattutto quelli marcati per sempre dalla loro funzione, quasi fossero specchi impietriti in cui siano rimaste tracce degli uomini che lì hanno consumato le loro passioni e le loro vite: stazioni, prigioni, fortificazioni, fabbriche dismesse; e parlanti sono in primo luogo gli edifici desueti che restano come carcami o fossili di forme di vita scomparse e quindi in certo senso documenti immobilizzati e sottratti a un ulteriore sviluppo dello strato storico, in cui la loro vicenda si è pietrificata nel decorso del tempo: “…Tracce di sofferenza che…attraversano la storia con infinite linee sottili…Studiando l’architettura delle stazioni…non riusciva mai a togliersi di mente lo strazio del congedo e il timore dei luoghi sconosciuti, benché simili emozioni non rientrino certo nella storia dell’architettura”[22].

Nella pianta topografica della fortezza di Breendonk in Belgio, che ricevette le ultime modifiche per servire da campo di internamento nazista, sembra di riconoscere con chiarezza l’affiorare di un qualche granchio divoratore e preistorico con le chele disposte a triturare ed uccidere. Ovviamente questo aspetto non dipende da un progetto consapevole, ma è come se prendesse lentamente forma dall’inconscio del collettivo, attraverso una miriade di microscopici mutamenti, fatti giorno per giorno e in cui tuttavia si riflette intero l’animo perverso, gli scopi, il delirio di chi le operava. Il senso finale che ne deriva è quello di una impressionante regressione alle forme più arcaiche e pietrificate di vita, ancora prive di qualsiasi barlume di coscienza umana: “Riuscivo a riscontrare in essa, nonostante la struttura ora palesemente razionale, tutt’al più lo schema di una creatura che apparteneva alla classe dei crostacei e non certo quello di una costruzione progettata dall’intelligenza umana”[23]. Come in una materializzazione concreta della dialettica dell’illuminismo, qui razionalità e inorganico coincidono in un’unica figura della pulsione di morte e -più di molte parole- costituiscono un vero e tetro monumento al nazismo. Un monumento inconsapevole.

Il trauma produce rimozione e oblio di un’esperienza decisiva, che sopravvive nell’inconscio, come una seconda persona, una storia sommersa: “…Avevo l’impressione che mi camminasse accanto un invisibile gemello, per così dire l’inverso di un’ombra”[24]. Avvicinandosi al nucleo essenziale e doloroso del passato, come Austerlitz durante il suo viaggio a Praga, la sensazione dominante è quella dello smarrimento e dell’ulteriore perdita di sé, non quella di un tempo ritrovato: “…Mi sembrò di rotolare giù per una specie di rampa in un labirinto, all’interno del quale avanzavamo con estrema lentezza, girando ora a destra ora a sinistra, finché non smarrii del tutto l’orientamento”[25]. Alla sua ricerca fa da contrappunto quella di Vera, la donna che si occupava di lui bambino, la quale dopo aver saputo dell’internamento della madre di Jacques non riesce “a capacitarsi che le cose siano andate realmente così”, “per settimane non era più tornata realmente in sé, aveva avvertito una specie di strappo fuori del suo corpo, si era messa alla ricerca dei fili spezzati”[26]. Una delle caratteristiche della dismisura del trauma, rispetto alle fragili e travolte barriere della coscienza, è quella di eccedere ogni capacità di rappresentazione, di determinare l’impossibilità della rappresentazione stessa. Austerlitz racconta il riconoscimento –da parte del protagonista- del proprio gemello invisibile, che infine viene a coincidere con lui stesso, in partenza alla fine del romanzo sulle tracce del padre scomparso. Riconoscimento, testimonianza e racconto, sono i modi in cui Austerlitz ritorna a un Sé possibile (mentre impossibili risultano –in questo caso- perdono, salute e trascendimento completo del dolore).

Come aveva detto Benjamin, probabilmente noi abbiamo appuntamenti destinali, non solo nello spazio ma pure nel tempo, che non possiamo mancare, a pena di perdere il significato essenziale della nostra vita: “E non potremmo immaginare, proseguì Austerlitz di avere appuntamenti anche nel passato, in ciò che è già avvenuto e in gran parte scomparso, e di dover cercare proprio nel passato luoghi e persone che, quasi al di là del tempo, hanno con noi un rapporto?”[27]. Gli “appuntamenti” di Sebald, tuttavia, hanno quella malinconia profonda che Benjamin riconosceva in Flaubert, senza la frattura e il varco messianico, o rivoluzionario, che egli si aspettava potesse sorgere dal ritrovamento del tempo perduto nella storia dei vincitori. Secondo Sebald, l’Occidente procede attraverso un processo di letterale carbonizzazione della natura e delle specie vegetali superiori, “la combustione incessante di tutte le sostanze combustibili è ciò che dà impulso alla nostra espansione sulla terra”[28], e la civiltà è paragonabile a “un ardere senza fiamma, d’ora in ora più intenso”, che sta però giungendo al suo limite e all’esaurimento delle risorse della natura.

Il colonnello Chabert, il personaggio di Balzac, appare ad Austerlitz come il fantasma della sua propria esperienza: e in effetti cos’altro descrive, in modo incomparabile, lo scrittore francese se non una di quelle nevrosi di guerra analizzate da Freud[29], col caratteristico ciclico ritorno di un’immagine di morte, che eccede nel suo significato ogni difesa del principio del piacere? “J’entendis ou crus entendre des gémissements poussés par le monde des cadavres au milieu duquel je gisait. Et quoique la mémoire de ces moments soit bien ténebreuse…il  y a des nuits où je crois encore entendre ces soupirs étouffés[30]. Frase che ci ricorda le immagini di distruzioni e di morte patite da Stendhal durante il passaggio delle Alpi. L’esaltazione eroica della guerra e la desolazione che ne consegue è la costellazione ricorrente dell’opera di Sebald.

 

Nota. In che misura la cultura italiana dopo il secondo conflitto mondiale ha dato testimonianza del trauma storico della disafatta e della guerra civile? Come ha notato C. Pavone[31], essa ha preferito in molti casi la rimozione e l’oblio, privilegiando la grande immagine di riscatto offerta dalla Resistenza e trascurando la differenza esistente tra il Nord e il resto del paese. Se i partigiani del Nord, nella realtà, avevano ben presente lo stato di umiliazione e di oppressione contro cui combattevano, nella conciliante ricostruzione cattocomunista degli anni Cinquanta la Resistenza perde il suo carattere di rivolta politica e diviene l’atto di fondazione di una Unità del popolo italiano, superiore a ogni scissione e divisione di classe. L’immagine mitica occupa il posto della dialettica reale. In quel contesto storico, una naturalis oboedientia, una servitù volontaria, permette la rimozione dei traumi storici del fascismo e della guerra perduta: la cultura italiana viene ricodificata in termini di conciliazione e unità nazionale[32] e il cinema svolge in questo una funzione importante .

La storia del cinema neorealista si divide tra una breve e intensa attività testimoniale e critica -e una produzione media diffusa, in cui gli epigoni divengono interpreti della buona coscienza nazionale e creano un “cinema della rimozione, una scuola di oboedientia”: “Di fatto ciò che dà senso omogeneo e unificante al cinema del neorealismo, debilitando le testimonianze trasgressive, è l’impegno collettivo a esorcizzare…gli ingrati fantasmi della guerra e del dopoguerra…”[33]. La volontà di trasgressione radicale culmina nelle due grandi trilogie di Rossellini e De Sica. In esse diviene visibile, contro ogni retorica populista e nazionale, lo stato di umiliazione e desolazione, che segue l’8 settembre e segna l’immediato dopoguerra. Si può leggere Ladri di biciclette come la storia di una generazione precipitata dalle altezze pseudo imperiali e dalle sue aquile di cartapesta in una derelizione e in una vergogna senza fine di fronte ai propri figli; o si può riconoscere, per fare un altro esempio, la caduta di ogni ordine simbolico e morale, nella durissima sequenza di Paisà (episodio di Napoli), quando lo scugnizzo porta il soldato americano nella grotta infera dove si nascondono i sopravvissuti dei bombardamenti, senza casa e ridotti a una vita elementare.

A questo valore di memoria e di testimonianza il cinema neorealista progressivamente rinuncia. Placata l’intensità della trasgressione, esso si adatta a costruire l’immagine mitica di un popolo povero e sconfitto, ma non disgregato e non umiliato, sostanzialmente immune dall’aliena perversione del fascismo e della guerra civile e inoltre naturaliter pio e religioso. Nasce allora, secondo De Caro, il molto italiano ateismo cattolico, in cui si ricoscono molti esponenti della cultura italiana e infine lo stesso Rossellini. Con poche eccezioni, il cinema obbediente al nuovo regime assume il “ruolo privilegiato di ordinatore del Sentire Comune”[34], per essere poi sostituito dalla televisione. A rigore, nella trilogia della guerra di Rossellini ci sono alcune omissioni che –se non ne compromettono il significato dirompente- sono però significative: come il silenzio sui bombardamenti angloamericani su Roma o sulla persecuzione contro gli Ebrei (di cui si tace perfino in Germania anno zero). Primi sintomi di un generale ripiegamento della cinematografia neorealista sul mito di un esultante amore per gli Alleati invasori e sulla estraneità degli Italiani alle peggiori efferatezze del periodo nazista.

“Un bisogno di rimozione spinto fino all’allucinazione collettiva”[35] trasforma la Resistenza da lotta reale in mito: in questa lettura retrospettiva e deformante del passato, a partire dal regime dominante nel presente, il fascismo diviene un episodio “subito e non partecipato dalla maggioranza della popolazione”[36], la persecuzione razziale qualcosa che non ha coinvolto gli Italiani, le stragi delle guerre coloniali sono cancellate dalla memoria. Si costruisce così un immaginario collettivo irresponsabile, inconsapevole dei traumi subiti e inferti, larvatamente disponibile a una loro ripetizione più o meno edulcorata. La Resistenza è risolta “in una versione nobilitante della tradizione nazionale, dissolvendone differenze e antagonismi secondo un rassicurante paradigma di unità politica e armonia sociale”[37]. Viene creata come atto fondativo della nuova Repubblica una falsa memoria, che doveva servire ad “avallare come discontinuità e rinnovamento la continuità e la conservazione”. La Resistenza non è più percepita nella sua natura di guerra civile contro i fascisti e tanto meno quale lotta di classe, ma viene ri-narrata come secondo Risorgimento, contro l’iniquo invasore tedesco. Diviene così il mito fondante di una storia progressiva e nazional-popolare, condiviso dal comunismo togliattiano. Il fascismo è ridotto a fenomeno aberrante e circoscritto, estraneo alla “vera” natura, sana e generosa, di un popolo fatto di “brava gente” democratica.

Umberto D. di De Sica è l’ultimo grande film “testimoniale” del neorealismo italiano: l’umiliazione e il trauma qui sono visti nel contesto della quotidianità postbellica, prima che la stagione consumistica ne rimuovesse quasi per intero le tracce visibili. Per una volta ancora De Sica testimonia come la “dimensione sovrana, ultimativa, della Norma”[38] porti alla disgregazione della protesta collettiva, ridotta ormai a un rituale, deprivata della sua forza conflittuale. Mentre innumerevoli sono gli esempi di conformismo ricordati da De Caro, sconfinanti nel grottesco, inconsapevole preludio al fiorire della commedia all’italiana. In effetti ogni evento traumatico e tragico viene derubricato in un generico umanesimo, condito di battute e sorrisi ammiccanti; come quelli di un riciclato Camerini in Molti sogni per le strade (1948), dove un disoccupato tenta di rubare un’automobile  e alla fine trova un bel posto di lavoro (grottesca revisione di Ladri di biciclette), mentre in Come persi la guerra il comico Macario risale la penisola sulla falsariga di Paisà. “A Roma mica è successo gnente, tutto in piedi”, si proclama all’inizio di La vita ricomincia (1945)  di M. Mattoli. In alcuni momenti il libro di De Caro fa venire in mente quanto dice Sebald nel suo Storia naturale della distruzione: il desiderio di oblio e di trasfigurazione mitica dell’accaduto è particolarmente profondo in quei popoli che devono sopportare allo stesso tempo il trauma della violenza esercitata sugli altri e quello della rovina subita, in un complesso di  colpa e  di umiliazione. La memoria preferisce abolirsi in una più tollerabile immagine di sogno, che lascia però intatte le cause profonde del male avvenuto. E’ vero per la Germania, è vero per la Francia di Vichy ed anche per l’Italia del dopoguerra, benché sia pochissimo riconosciuto.

Un trauma storico-sociale continua a insistere nell’inconscio del collettivo, come ha mostrato O. Kernberg[39]: se non viene sottratto al misconoscimento e all’oblio, esso si ripete –in forma attiva o reattiva- nelle generazioni successive. I modi del suo ripresentarsi non saranno letteralmente gli stessi, potranno essere più o meno radicali o violenti; o può accadere che le vittime e i loro eredi rovescino il proprio ruolo e diventino a propria volta carnefici. Si tratta comunque di una coazione a ripetere, di una pulsione aggressiva e mortale. Ciò che è espulso dal simbolico ritorna come reale  puramente distruttivo[40].

 

Note

[1] W.Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino xxxx, p. *

[2] W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, Adelphi, Milano 2004. Numero di pagina fra parentesi nel testo.

[3] W. G. Sebald, Gli anelli di Saturno, Adelphi, Milano 2010, p. 35. D’ora innanzi indicato con AdS.

[4] AdS p. 188.

[5] W. G. Sebald, Austerlitz, Adelphi, Milano 2006, p. 183.

[6] Ibidem.

[7] F. Holderlin, Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, Mondadori, Milano 2001, p. 263.

[8] AdS p. 199.

[9] W. G. Sebald, Austerlitz, cit. p. 232.

[10] Ivi, p. 228.

[11] S. Ferenczi, Diario clinico, Cortina, Milano 1988, pp. 421-422.

[12] W. G. Sebald, Austerlitz, cit. p. 246.

[13] S. Freud, Mosè e il monoteismo, Newton Compton, Roma 2010, pp. 203 e 208.

[14] J. Frankel, “Identificazione reciproca con l’aggressore nella relazione analitica”, in La catastrofe e i suoi simboli, UTET, Torino 2008, p. 201.

[15] W. G. Sebald, Vertigini, Adelphi, Milano 2003, p. 81.

[16] W. G. Sebald, Austerlitz, cit. p. 218.

[17] AdS p. 133-134.

[18] AdS p. 204.

[19] AdS p. 214.

[20] AdS p. 230.

[21] Ivi, p. 31.

[22] Ivi, p. 21.

[23] Ivi, p. 28.

[24] Ivi, p. 64.

[25] Ivi, p. 216.

[26] Ivi, p. 220.

[27] Ivi, p. 274.

[28] AdS p. 180.

[29] In “Al di là del principio del piacere”, in La teoria psicanalitica, cit.

[30] W. G. Sebald, Austerlitz, cit. p. 299.

[31] Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

[32] E’ la tesi sostenuta da G. De Caro nel suo libro Rifondare gli Italiani. Il cinema del neorealismo, Jaca Book, Milano 2014.

[33] Ivi, p. 60.

[34] Ivi, p. 10.

[35] Ivi, p. 33.

[36] Ivi, p. 34.

[37] Ivi, p. 37.

[38] Ivi, p.113.

[39] “Sanctioned Social Violence”, in Contemporary Controversies in Psychoanalytic Theory, Techniques and their Applications, New Haven and London, Yale University Press, 2004.

[40] Concetto lungamente e variamente discusso da J. Lacan, nei suoi seminari.

 

 

[cite]

 

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 32, issue no. 34, november 2016
issn: 2037-0857
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