philosophy and social criticism

L’ultima dissidenza

di Marco Dotti

La prima ossessione

Ormai giunto alla soglia della follia, Friedrich Nietzsche prende in mano la penna e scrive una lettera, tra le ultime indirizzate a Georg Brandes. È il 23 maggio 1888, poi sarà il buio. Ma c’è uno spunto, in una chiosa a questa lettera, che pare degno della più rigorosa attenzione: «Ho passato queste settimane ad invertire i valori», scrive Nietzsche, «in fondo, l’alchimista è la specie più meritevole tra gli uomini: trasforma la scoria, il resto in materia preziosa. Mi sono chiesto che cosa fosse odiato, disprezzato, rinnegato al massimo grado dall’umanità e ne ho tratto il mio oro».

A questa poetica della materia riscattata (l'”oro”) si riferirà, molti anni più tardi, Jean Genet (Parigi, 1910-1986), quando, nella farsa tragica di Pompes funèbres (1947), lascerà in bocca ad uno dei personaggi del suo romanzo più controverso parole che ancora impregnano l’aria di zolfo: «la poesia è l’arte di utilizzare i resti, di riutilizzarli e di farveli ingoiare».

È in questa linea espressiva, tra le macerie di ciò che qualcuno, con ostinazione degna di miglior causa, continua a chiamare “letteratura”, che si sviluppano i nodi (umani, critici, politici) che segneranno l’intero percorso dell’antagonismo poetico di Jean Genet. Ed è sempre qui, da una periferia dell’impero, inaccessibile alla «massa degli intellettuali da Goncourt», che, giocando abilmente sui registri dell’abiezione e della seduzione, troverà – sono parole di Abdélkebir Khatibi, il suo più raffinato interprete – «la sua patria nomade»: la scrittura.

Dissacrare la lingua

Genet scrisse i primi lavori su carta ruvida da pacchi. Questa veniva consegnata ai detenuti per le loro esigenze igieniche e pratiche, e l’amministrazione carceraria vigilava perché non se ne servissero altrimenti. Nei giorni trascorsi dietro le sbarre della prigione di Fresnes (in particolare tra i mesi di maggio e ottobre del 1942), Genet si appassionò a Maurice Pilorge, «assassin de vingt ans», talmente sfrontato e ribelle da saper opporre al boia, il giorno della propria esecuzione, un meraviglioso delirio di Galgenhumor. In memoria di questo rinnegato, compose alcune poesie servendosi proprio di quella carta da pacchi.

Maurice Pilorge il giorno della sua condanna a morte

Maurice Pilorge il giorno della sua condanna a morte

Venne scoperto, punito, e il manoscritto dato alle fiamme. È presumibile che abbiano origine da qui sia l’interesse di Jean Genet per la calligrafia, sia la sua ossessione per la pagina bianca. Quest’ossessione produrrà in Genet una sorta di afasia creativa (la «blessure sècrete» a cui accenna Marcel Jouhandeau in De l’Abjection, la «disperazione ontologica» di cui parla Antonin Artaud). «Dove la sta conducendo la scrittura?», gli chiedeva, negli anni ’60, un incauto intervistatore. La risposta: «all’oblio». «Se ho continuato e continuo a scrivere», chioserà anni dopo, «è perché odio la Francia; ho scritto sempre e soltanto contro ciò che si chiama “il mio Paese”». Per servire questo scopo, Genet non smetterà mai di «utilizzare la lingua, le parole, la sintassi del nemico», smontandole e rimontandole mille e mille volte per trarne, infine, un effetto a volte drammatico, a volte parossistico, comunque dissacratorio. Così, quando durante un soggiorno in Africa, gli capita di ascoltare il miliziano Mubarak parlagli in un francese perfetto, tanto perfetto da sembrare uscito direttamente dalle pagine di Littré, non gli par vero «che un negro del Sudan possa essere diventato una specie di Georges Dumézil, custode di un accento come Dumézil guardiano di una qualsiasi lingua moribonda»! Genet percorrerà a ritroso questo cammino: diventerà custode di lingue mai nate, straniero nel proprio idioma, dissacratore di accenti, di regole, di traslitterazioni.

Se potessi, rivelava a Juan Goytisolo, «spoglierei i francesi di ogni cosa che li rende orgogliosi di essere francesi: Giovanna d’Arco, Cartesio, Luigi XIV, etc. Mi piacerebbe poter dimostrare che Giovanna era inglese, Cartesio tedesco…».

Le strade del Sud

Sono, queste, solo alcune delle considerazioni che vengono alla mente leggendo quanto scrive un giovane critico, Jérôme Neutres, che nel suo Genet sur les routes du Sud,[1] servendosi di “materiale sensibile” (lettere, documenti, testimonianze difficilmente accessibili, garantitigli anche dalla disponibilità di Juan Goytisolo, che firma la postfazione al volume), Jérôme Neutres riesce a tracciare una mappa dell’espatrizione che ha portato Jean Genet sulle strade di un Sud dapprima immaginato e poi vissuto e praticato, con crudeltà e vigore, nelle diserzioni giovanili e nelle «fughe impossibili» che segnano la vita dei personaggi di gran parte della sua produzione romanzesca.

Anche se non sarà difficile riconoscervi, di volta in volta, i tratti della Palestina o del Giappone, della Spagna o dell’Italia, della Siria, dell’Algeria o del Marocco, non si potrà non notare che, quello che ne risulta, è, al più, una mappa eccentrica, volutamente scombinata, senza veri e propri segni cardinali o centri ordinatori. Perché il Sud di cui Genet si innamora, e con cui pretende di sedurci, è spesso sfuggente, messo fuori luogo, gettato fuori quadro, ridotto fuori scena e per questo amato incondizionatamente, contro ogni logica e senz’alcuna condizione.

«A partire dai suoi primi testi», annota Neutres, «la scrittura di Genet corre sulle strade del Sud». Dal desiderio di evasione che segna le ore dei detenuti di Notre-Dame-des-Fleurs e Miracle de la rose, al teatro della decolonizzazione de Les Nègres e Les Paravents, passando per le peregrinazioni spagnole del Journal du voleur, «tutta l’opera di Genet ha lo sguardo rivolto verso il sole». È un Sud talvolta solo accennato, polo magnetico di cui si percepiscono forze e irradiazioni, iscritto in una certa tradizione del viaggio (Nerval, Rimbaud, Thomas E. Lawrence, forse Gide) ma che Genet non si accontenta mai di rappresentare, rappresentando se stesso attraverso i luoghi che ama e a cui tende. La scrittura, per lui, è sempre, comunque, in questa fuga senza altrove, verso altre realtà tutte da costruire, più che da scoprire, un contro-viaggio, un’espatrizione, appunto.

Situazioni, immagini

Questo sistema di «montaggio parallelo», policentrico, è ben presente, rileva Neutres,

Jean Genet (1986 circa)

Jean Genet (1986 circa)

soprattutto negli scenari cinematografici (molti dei quali rimasti sulla carta) di Genet. È qui, forse più che altrove, che egli, mettendosi all’opera, mette al contempo in moto «un dispositivo che permette di mostrare, simultaneamente, i differenti aspetti che “fanno” la realtà». È una scrittura mossa da forze, produttiva, che cerca di sondare le possibilità di rendere visibile ciò che non sembra esserlo. Così, ne Le Langage de la muraille (di cui Neutres rileva, giustamente, le assonanze e le influenze foucaultiane), sono le forze costitutive del penitenziario di Mettray a rivendicare la propria «chiamata in causa cinematografica», mentre nel precedente scenario La Nuit venue erano le forze che presiedono alla «machinerie» dell’immigrazione a reclamarla. Un linguaggio fatto di cose e situazioni che chiamano, impongono, rivendicano la scena, dunque.

Benché la maggior parte di questi «sceno-testi» non raggiunga mai una macchina da presa e non vada mai oltre la carta (ad eccezione di Un Chant d’amour, per cui si dovrebbe fare un discorso a parte), il procedimento di sceneggiatura servirà a Genet per «imparare a servirsi delle immagini» come se si trattasse di rianimare una lingua morta, la «lingua del nemico», appunto, apportandovi gli elementi di uno «scandalo incontenibile», forse irrappresentabile in ciò che ha di più osceno, ma necessario.

Nel suo ultimo lavoro, quell’Un Captif amoureux (1986) caduto come un macigno, con la morte dell’autore, nello stagno della liturgia letteraria (qualcuno lo definì, sulle pagine di un noto quotidiano parigino, «l’ultima bomba di un terrorista»), saranno ancora le immagini a reclamare spazio, fin dalla citazione, calcata su un pensiero di Chateaubriand, che Genet appone, da ultimo, poche ore prima di morire, alle bozze: «Mettre à l’abri toutes les images du langages et se servir d’elles, car elles sont dans le dèsert où il faut aller les chercher». Cancellare, pulire, ridurre, dilaniare, scomponendo e assemblando immagini, come nel più ardito dei campionamenti, gli sembra il modo più sicuro per accedere a quel deserto a cui fa cenno l’esergo. Ecco che allora le immagini che ci consegna, nel suo ultimo romanzo, sfumano i propri contorni geografici tra le brume di una scrittura che, dal barocco iniziale, ha saputo divenire, ormai, definitivamente, «minore», esiliata anch’essa sulle strade del Sud, e il cui scopo sembra quello di condurre il lettore e il narratore, come in un gioco di specchi, verso il luogo della loro completa trasfigurazione.

L’amore della fine

Come un altro romanzo, El Río. Novelas de caballería (Fondo de cultura econòmica, México 1986) di Luis Cardoza y Aragón – «la mano delle Americhe», l’intellettuale guatemalteco che, nel 1936, accompagnò Antonin Artaud ai limiti della Sierra Tarahumara, e, in anni a noi più vicini, salvò più di una vita dalle repressione di Pinochet -, con cui presenta numerose affinità, non solo formali (entrambi hanno richiesto ai loro autori una gestazione di circa venti anni; entrambi sono frutto di una crisi interiore, e di un esilio politico; entrambi sono stati ultimati nel 1986), Un Captif amoureux è un’opera che si gioca su almeno due opposizioni fondamentali: sul piano formale, l’opposizione aperto/chiuso, sul piano contenutistico, l’opposizione libertà/oppressione.[2]

Strutturalmente, è un romanzo impossibile, un libro che non si chiude, perché non ha una fine, ed ha un incipit paradossale che ammonisce il lettore, avvisandolo che, nel susseguirsi della pagine, molti ostacoli gli si presenteranno per dissuaderlo: «La pagina che prima era bianca, ora è attraversata, dall’alto in basso, da minuscoli segni neri, lettere, parole, virgole, esclamazioni. La realtà è davvero questo insieme di segni neri?»

Jean Genet e Michel Foucault

Jean Genet e Michel Foucault

Costruito fuori sia dai canoni del romanzo a tema, sia da quelli del romanzo “per flussi di coscienza”, esso è, piuttosto, un insieme di situazioni combinate attraverso una «stratificazione non comune di forme poetiche» (Félix Guattari) tra loro diversissime e, spesso, stridenti. Secondo Juan Goytisolo, questo libro è un’enciclopedia le cui voci si aprono «sui temi fondamentali della storia umana». Specularmente simile ad un altro romanzo quasi-postumo, Petrolio di Pier Paolo Pasolini. Come Un Captif amoureux anche il testo pasoliniano, infatti, è un «libro bianco», solo che Petrolio non ha un inizio (le sospensioni aprono la scena, ma la prima pagina, a parte questo, è bianca), mentre, come detto, Un Captif amoureux non ha una fine.

Scrivere, confessava in un’intervista concessa ad Antoine Bourseiller, è un gesto estremo, ed è forse l’unico appiglio che rimane quando si sa di aver consumato tutto e tutti: «Ho provato ogni cosa», racconta, «ho sperimentato tutte le forme per non diventare un assassino. Ho provato ad essere cane, gatto, cavallo, tigre, un pezzo di legno, un sasso»… Come ultima spiaggia del tradimento sociale, essa è, letteralmente, “il margine”, ossia: «ciò che resta, quando siamo stati cacciati dal regno della parola data». È lo strumento per avvicinarsi ad «un certo genere di verità, quelle indimostrabili o addirittura “false”, quelle che non possiamo spingere all’estremo senza sfiorare l’assurdo e senza finire per negarle negando insieme noi stessi».

Scrittura e vita si confondono, nel controviaggio di Genet, sotto una finzione autobiografica che svela quello che Paule Thévenin definiva «le redoublement de l’écriture»: una specie di ricomposizione infinita (come in un montaggio) di una vita già iscritta nelle cose, nei fatti. Un’operazione magica, quasi alchemica, da cui far sorgere altra realtà, altre cose, altri fatti, un’altra vita.

Confessandosi in un libro impossibile, Un Captif amoureux, Genet sceglie, da ladro che era, di diventare – sono ancora parole di Abdelkébir Khatibi – un étranger professionnel , un esiliato dalla parola, un espatriato, uno straniero assoluto condannato, come le donne palestinesi nei loro ricami, a scrivere e riscrivere sempre la stessa storia, sulla stessa pagina, sullo stesso foglio, fino a sottrarre la scrittura stessa alla sua rappresentazione formale, nell’ultima pagina – bianca – che non chiude un cerchio, senza aprirne un altro. Una pagina che unisce la vita ed il libro, che sfida il lettore come ponendolo – solo – dinanzi allo specchio più duro della propria realtà. Dopo il sangue rappreso, dopo i cadaveri di Chatila, sarà la pagina bianca che non chiude il suo romanzo finale a sancire l’ultima diserzione di Jean Genet, a ricondurlo dal suo viaggio contro l’identità, verso un’altra meta, verso l’uomo.

Non c’è che una specie di viaggio, infatti, che abbia valore. Così scriveva Paul Nizan, in un passo di Aden Arabia che Neutres, in questo suo straordinario lavoro, non dimentica di richiamare in esergo ad uno dei capitoli più belli. È «il viaggio di Ulisse», un viaggio verso gli uomini il cui unico valore è compreso nel suo ultimo giorno. Nel suo, forse illusorio, ritorno.

Note

[1] Jérôme Neutres, Genet sur les routes du Sud, fayard, Paris 2002.

[2] Cfr. Lucrecia Méndez, Memorie controcorrente. El Río. Novelas de caballería di Luis Cardoza y Aragón. Bulzoni, Roma 2001.

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ISSN:2037-0857