L’ultima guerra di Wannus
di Marco Dotti
Sa’d Allāh Wannūs, L’ultimo ricordo. Memorie siriane, traduzione dall’arabo di Monica Ruocco, Jouvence, Roma 2004.
Una stanza fuori dal tempo, una dimensione convulsa, dove gli attimi di un presente immobile si mischiano al gergo caotico dei pensieri, e passano immagini di guerra infinita (Iraq, atto primo; o la violenza che fa notizia, ma non fa storia, in una terra che in pochi chiamano ancora col suo nome, Palestina), come testardi raggi di luce filtrano tra due persiane maldestramente socchiuse. In questa stanza dell’ospedale di Damasco, il siriano Sa‘d Allāh Wannūs – maggiore tra i drammaturghi di lingua araba, penna troppo politica, e troppo laica, per non essere invisa alle gerarchie mediorientali – custodiva frustrazioni e ferite non rimarginate, ma anche rabbia e speranze mai disilluse, e uno sguardo sempre vivo e attento per le cose del mondo.
Se ne sarebbe andato il 15 maggio 1997, dopo una lunga sofferenza, e «una malattia (cancro) vissuta come destino». In questo modo, né rassegnato, né sconfitto, dichiarava di considerarla, dopo che gli era stata diagnosticata nel 1991, «in un giorno fatale», a poche ore dall’attacco di Bush padre contro Baghdad e l’Oriente (sulle ragioni dell’ultima guerra civile americana, quella del Figlio, su ciò che resta di Baghdad, Palestina e Oriente, nella nostra memoria bombardata da immagini di guerra, forse converrebbe rileggersi la metodica dell’inferno di Notre musique, gioiello disperso, ma di non piccolo taglio, di Jean-Luc Godard). L’ultimo dei propri ricordi Wannūs lo affiderà all’obiettivo del regista siriano Omar Amiralay e a un volume, disponibile in lingua italiana per i tipi delle meritorie edizioni Jouvence L’ultimo ricordo. Memorie siriane.
A Omar Amiralay dobbiamo uno sguardo lucido e crudele su ciò che resta di Wannūs che, straziato, gli concesse la sua ultima intervista. Un faccia a faccia con la malattia e la morte che lo scrittore, dopo aver osservato troppe volte fuori di sé, ora sente arrivare nel suo corpo che a poco a poco si smembra e si spegne, come il troppo ricorrente «sogno di vederla rinascere, la Palestina». In Ci sono ancora molte cose da raccontare (film-documentario premiato dall’Istituto del mondo arabo di Parigi nel 1998, ma fortemente osteggiato dal governo siriano che a lungo ne ha impedito la circolazione), Amiralay racconta il dolore pulsante dello scrittore, attraverso il lento gocciolare di una flebo. Una goccia – cloruro di sodio, acqua e intrugli verdastri in percentuali ignote a noi e forse anche ai medici – che cade a stento nelle vene fragili di Wannūs e segna il tempo e il passo dei ricordi.
Ma sotto la penna di Wannūs, questi ricordi si scombinano ancora di più, come subissero altri tagli e un altro montaggio. Come se un’altra luce si impressionasse sulla pellicola. Come se altri ricordi si accavallassero ai ricordi, e altre immagini si incrostassero alle immagini, e tutto si confondesse nel sogno bianco dell’ossigeno e della morfina. Una parte considerevole, nota la curatrice del volume, Monica Ruocco, è qui assegnata agli stati di incoscienza. Come se fossero il doppio della visione, il risvolto, per nulla oscuro, della razionalità dell’immagine. «Non credo», scrive Wannūs, «che allora fossi pienamente consapevole della gravità del mio stato, anzi ero piuttosto indifferente a quanto mi sarebbe accaduto. Avevo perduto qualsiasi nozione del tempo trascorso e mi era impossibile dormire, anche solo per qualche minuto. A causa delle mani immobilizzate dalle flebo, degli apparecchi collegati al mio torace, del tubo dell’ossigeno infilato nel naso, ero costretto a rimanere supino nel letto. Quasi mi divertivo ad ascoltare il suono dell’acqua che gorgogliava nella bombola e intanto pensavo: è il ritmo dolce dell’ossigeno! Il ritmo dell’ossigeno che fa pensare a donne nude bellissime che cantano, mentre il chiaro di luna e la rugiada dei prati ne illuminano i corpi».
Quando un medico decide di aumentare la quantità di soluzione fisiologica da iniettargli, applicando una flebo anche nell’altra mano, non il suo distacco, ma il suo contatto con la realtà diventa ormai un fatto irreversibile. La realtà passa da due vene aperte sul mondo: «l’infermiera prese la mia mano inerte con forza e la strinse affinché le vene si gonfiassero. Mi infilò l’ago una prima volta, ma non riuscì a prendere bene la vena, poi lo infilò una seconda volta e, senza fare caso ai miei lamenti e al dolore che mi aveva provocato, lo fissò al tubo e la soluzione fisiologica cominciò a scorrere nel mio corpo attraverso due vene contemporaneamente».
A Wannūs dobbiamo una incessante attività di ricerca e scrittura legata al teatro politico e di parola, ma anche una severa riflessione sullo statuto ambiguo delle loro immagini. Come ne Lo stupro (incluso nel libro di Jouvece), pièce che riflette l’irrompere drammatico sulla scena araba di una nuova entità politica, Israele, e il suo incrinarsi alla vigilia della prima Intifada. E dove – inevitabilemente, per uno spirito non dogmatico – lo sceneggiatore si trova costretto a mettere in gioco se stesso, i propri dubbi e si rimprovera la propria ambiguità, pur di non bluffare.
«Ho dovuto superare molti ostacoli», dichiara, «ho esitato molto prima di scrivere questo lavoro. Sapevo del rischio che correvo rischiando di cadere nell’ambiguità. Bisogna essere imparziali e riconoscere che dalla nostra parte le prigioni non sono né migliori, né peggiori, Tu credi che questi regimi, con le loro prigioni, ci rappresentino? La situazione è complicata e, per uscirne, bisogna intraprendere una lotta dura e complessa. Le trappole della storia possono essere evitate solo a caro prezzo». Un prezzo mai troppo alto, che non sempre abbiamo il coraggio di pagare.
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