Rifugio magico per Norman Manea
di Marco Dotti
Norman Manea, Rifugio magico, traduzione di Marco Cugno, Il Saggiatore, Milano 2011
Nel cerchio caldo dell’esilio il tempo non passa, il tempo comincia. Ogni giorno nuovo, ma ogni giorno uguale. Ogni giorno schiacciato su un presente eterno, irresponsabile, senza profondità di campo e, di conseguenza, senza storia. È così che, settimana dopo settimana o forse ora dopo ora (chi può dirlo?), in assenza di una cesura che irrompa nel labirinto, scompigliandolo, il quadro di ricordi, fatti, nomi, figure e storie che legano la memoria di Augustin Gora allo sfondo piatto del proprio tempo si combinano e sovrappongono come figurine di fila. Lettere, junk-mail, messaggi, oscure collaborazioni con la polizia di regime, riviste, libri, polizze di assicurazione sulla vita e visti per il Mondo Nuovo si accatastano sulla sua scrivania dell’ esule Gora – multisfaccettato alter ego di Norman Manea che, con Vizuina, letteralmente la “tana”, tradotto in italiano da Marco Cugno (Rifugio magico, Il Saggiatore, Milano 2011),segna il suo ritorno al romanzo.
Nicchie dell’esilio
Gora è colpito dall’accidia e da una malattia del tempo che lo schiaccia su un eterno presente, in una New York che gli espatriati romeni ridisegnano a poco a poco, grazie alla sapiente capacità di trama e scrittura di Manea, tracciando una loro propria geografia affettiva. Qualcosa allontana da sé e dal loro passato, questi esuli, eppure quella stessa “cosa” inesorabilmente li lega tra loro e lega le loro vite in una combinazione magica.
L’isola di Manhattan comprata nel 1626 per un pugno di monete e perline, da un francese dal nome cifrato, Minuit, ha creato l’illusione che nel Mondo Nuovo a tutti sia dato unicuique suum. Ognuno, qui, ha il suo pugno di perline e dollari, un vincolo magico lega gli uomini al tempo ridotto al suo grado zero, grazie al colpo di bacchetta dei moderni Minuit: tassisti, impresari della pubblicità, gangster, professori in campus bucolici e appartati. Il mago descritto da Giordano Bruno nel De vinculis – trattatello politico sulle cui pagine stava lavorando Palade, alias Ioan P. Culianu, un’altra delle figure chiave attorno alle quali ruota il romanzo di Manea – è il prototipo dell’incantatore moderno nei cui tratti è facile cogliere molte assonanze con il tema del romanzo. Difficile, semmai, approcciare il Rifugio di Manea, senza percepire sul fondo la continua tensione tra i diversi sottolivelli che lo abitano. Il mago del De vinculis scriveva, d’altronde, il “vero” Culianu nel suo Eros e magia nel Rinascimento – un passaggio che Manea sembra aver tenuto in particolare considerazione – è la matrice stessa «dei sistemi impersonali dei mass media, della censura indiretta, della manipolazione globale e dei brain-trust che esercitano il loro controllo occulto sulle masse occidentali». Senza comprendere questa matrice, non si comprende l’incantesimo del Nuovo Mondo al centro del romanzo. Citando dalla XXX disposizione bruniana, Palade/Culianu ricorda: «Posto anche che non esista inferno, la credenza immaginaria nell’inferno senza fondamento di verità produce veramente un vero inferno: l’immagine fantastica ha la sua verità, con la conseguenza che essa reagisce realmente e realmente e potentemente resta imbrigliato chi si lascia vincolare e il tormento infernale si fa eterno con l’eternità della convinzione di fede».
Archivi del presente
Libri, archivi e scrivanie sono vie di fuga da questo inferno o nuovi labirinti immaginali? «La libertà è l’uscita dal labirinto o l’estensione del labirinto stesso?» O ancora, nelle visioni di Palade, che sono una neppure troppo velata critica alla “circolarità” di Eliade: «Ricordate le parole del cieco di Buenos Aires? “Ho conosciuto ciò che i greci ignoravano, l’incertezza”, sostiene Borges. Devo ripetere la citazione? Non la ripeto, ma è bene non ignorarla. La libertà è l’evasione dalla tirannia di un unico sistema mentale, la libertà è questo, pensiero incompleto, aperto, antidogmatico, l’incertezza, la nebulosa delle probabilità». Anche la scrivania di Peter Gaşpar – l’esule che, irrompendo improvvisamente nella vita di Gora con la ex moglie Lu, scompiglia il tempo fermo che è al centro del romanzo – è piena di queste nebulose che assumono la forma di libri e lettere di richieste professionali e di richieste di aiuto.
Gaşpar non sa come uscirne. Eppure quelle lettere sono l’unica prova del tempo che passa. Per lui non è comunque l’accidia, ma l’apertura della gabbia alle probabilità impreviste il vero scoglio da affrontare. Non sa da dove cominciare, perché liberatosi dal peso di un tempo alienato, ma condiviso come quello comunista, i fili del ricordo sfuggono anche a lui e si dipanano seguendo linee imprevedibili. Scrive Manea: «Il motto della sua nuova vita: IL PRESENTE. Nient’altro: IL PRESENTE!. Nella vita precedente esistevano il passato colpevole e l’avvenire radioso, ma rinviato. Adesso, però, adesso…». Se vale per Gora, professore di francese emigrato da tempo, ancora di più vale per Gaşpar, l’ultimo arrivato che traghetta vecchi fantasmi dall’altra parte dell’Oceano.
Da anni, per Gora valeva infatti la regola aurea secondo la quale è meglio non muoversi, prima di rompere tutto. Gora infatti non si muove. Peter non vorrebbe muoversi, ma lo fa. E qualcosa accade comunque attorno allo spazio vitale di questi due uomini che, nella parole di Manea, sembrano elefanti schiacciati dal peso della troppa memoria l’uno e da quello della poca memoria l’altro. Il peso dell’esule, qualunque ne sia la direzione sull’asse del tempo, ora cresce in maniera inversa e proporzionale alle sue ossessioni mnestiche. In molti snodi del libro, questa ossessione del peso. E torna l’immagine dell’elefante senza memoria, evocata nella seconda parte del libro. Incapace di ripetere gli esercizi provati e riprovati in vista del suo numero al circo, l’elefante si nasconde in un angolo e piange. Il suo corpo, senza lo spazio del tempo, è ancora più goffo. È schiacciato, compresso in un “senza ieri” non meno avvilente del “senza domani” che Gora e Gaşpar credevano di essersi lasciati alle spalle, uscendo con mille compromessi dalla Romania di Nicolae Ceaușescu, il compagno che, in gioventù, ammazzava i gatti nelle prigioni di Stato quando da recluso impartiva lezioni di etica socialista agli altri membri della cellula clandestina, punendo ogni sentimentalismo e ogni affetto. Anche nei confronti di un gatto, l’unico che si azzardasse a scendere in quell’inferno senza chiedere nome o matricola. Ma così va la storia, che bluffa scambiando le carte tra virtù e bassezza costringendo a salti che talvoltano portano dalla tragedia alla farsa ma, con altrettanta disinvoltura, innescano il processo inverso.
Le troppe vite di Mircea Eliade, la morte di Ioan Petru Culianu, assassinato il 21 maggio nel 1991, mentre si trovava in un bagno della Swift Hall dell’Università di Chicago, nei giorni in cui lavorava a una chiosa del De vinculis stanno a dimostrarlo. Anche su di loro – che nel romanzo hanno una parte prominente, dietro i nomi di Cosmin Dima e Palade – è scesa la polvere. Anche se Cosmin Dima con quella polvere ha giocato con la destrezza di un vecchio trickster, servendosene per circondarsi di una sorta di aura e cancellare il passato. Per lui valeva in monito di Sant’Ireneo: «Conoscerai gli altri, e nessuno deve conoscerti». Dotato di incredibile erudizione, dopo aver vagato per epoche, libri e mondi, spinto da un’insaziabile fiducia nelle possibilità di rinascere ogni giorno a nuova vita, Dima aveva deciso di assumere su di sé la cacciata dal paese natale, la Romania, come un’esperienza iniziatica. Solo il rogo della sua biblioteca lo aveva fatto vacillare. O c’era dell’altro? Che cosa nasconde un’altra biblioteca, quella del Congresso? Atti d’accusa che, al di là di tutto, meritano di essere ricordati, si chiede Manea? In che cosa consistono quegli «strani episodi politici degli anni Trenta» nei quali Dima è rimasto coinvolto? A quali compromessi era sceso, per salvaguardare la patina di oblio che gli garantiva quanto meno lo statuto del dubbio rispetto alla sua partecipazione alla mistica della Guardia di Ferro e agli omicidi rituali dei contadini romeni? Perché è fonte di tante inquietudini per Gaşpar la stesura di una nota sugli scritti di Dima?
Rifugio magico nella lingua
Ma forse anche per l’imperturbabile Dima, quell’insistenza ossessiva, nei suoi libri e nei suoi discorsi, sull’éternel retour e su un tempo ciclico, erano maschere. Maschere per evitare che qualcosa scompigliasse una memoria che si credeva al sicuro, che irromendo riaprisse ferite o forse solo rimettesse in sesto, col tempo, certi scomodi fantasmi. Maschere piene di polvere, anche quelle raffinatissime di Dima, non meno delle lettere di Peter Gaşpar e della memoria di Gora . Perché anche la polvere sembra declinarsi solo al tempo presente, in un’America dove le forme del risveglio sono inanutentiche, non meno di quelle della notte. Serve un incantesimo per risvegliarsi, o forse no. Serve un’irruzione improvvisa. Serve scrivere, riscrivere, tornare mille volte sui luoghi del delitto, ricordarli. Anche per questo Manea è costretto a ripetere a più riprese l’incipit del romanzo, ovvero il gesto quasi magico del tassista che a New York, semplicemente girando una chiave, «innesta l’incantesimo del giorno».
Ogni conseguenza è possibile, dopo quel gesto, perché tutto si concatena – passioni, ricordi, attenzioni – a quell’unico e paradossale inizio. Un Big Bang dindividualizzato che improvvisamente si carica di senso, in un Paese senza senso, fondato sui numeri delle carte di credito e delle polizze, dove se vai in un ospedale non ti chiedono che cosa senti, di che cosa hai bisogno, che male hai, ma il codice dell’assicurazione sulla vita. Non è un libro semplice, quello di Manea. Ma niente è semplice, scriveva Rilke, anche se «la gente, con l’ausilio delle convenzioni, ha risolto tutto secondo la facilità e la più facile delle facilità; ma è chiaro che noi dobbiamo attenerci al difficile: tutto ciò che vive, vi si attiene, tutto in natura cresce e si batte a modo suo ed è per sua costituzione cosa a sé, e cerca di esserlo a qualunque prezzo» . Non a caso, in un’intervista rilasciata a Marco Cugno e pubblicata nel 1995 su “Linea d’Ombra”, Manea sembrava mostrare la stessa tensione, osservando che il rifugio dello scrittore, la “lingua”, è sempre un esercizio al limite della caduta o, come nel caso di Gora, dell’accidia.
«Lo scrittore – osservava allora Manea, con parole che hanno ora in Vizuina, il loro più chiaro compimento –trova rifugio nei libri, nella lingua, “anche quando la lingua è il tedesco e lo scrittore ebreo”, come diceva Celan… La vita è imprevedibilmente breve, non si possono iniziare troppi cambiamenti, se si vuol realizzare qualcosa – così pensavo negli anni vissuti, come scrittore, in Romania. Quando tutte le speranze erano ormai cadute, ho continuato a rinviare la partenza e, quando sono stato costretto ad andarmene, ho continuato a sperare di poter tornare ai miei libri, alla scrittura, alla mia lingua. Ho esitato molto, moltissimo, prima di accettare l’esilio». Indubbiamente, dopo anni di scrittura al limite, ma da anni mai dentro il romanzo, questo ritorno per Manea è, in tutto e per tutto, compiuto.
tysm literary review
vol. 18, issue No. 22
February 2015
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