Un incontro con Mussolini (1925)
Di Miguel Ángel Asturias
traduzione: tysmlab
Che impressione mi ha fatto Mussolini? Non saprei, neppure io riesco a darmi una risposta quando me lo chiedo. Mi sento contraddittorio, mi trascino da un opposto all’altro, intorno a questa figura centrale della politica europea, passando dall’ammirazione al disprezzo. È un riformista? Un reazionario? È semplicemente uno spavaldo?… O un criminale fortunato? Davvero non lo so. Conosco più di un libro su Mussolini, alcuni sono libri idioti, come quello che parla del suo carattere in relazione al suo modo di scrivere; conosco la storia del movimento fascista, ne ho palato con don José Ingenieros e, proprio adesso che lo devo giudicare, sono preda della contraddizione, mi confondo.
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L’automobile si fermò davanti all’entrata principale del Ministero del commercio estero. Per le strade di Roma scendeva la stanchezza del sole, erano quasi le sette di sera. Arrivammo nella sala d’attesa mentre Mussolini stava firmando un dispaccio. Aspettiamo, ognuno come può. A qualcuno l’impazienza gli faceva fare avanti e indietro per la sala, altri sedevano immobili. Dopo un quarto d’ora due attendenti alzarono la tenda di una porta bianca con cornice dorata e ci fecero passare nel gabinetto di Mussolini che, in piedi, accanto allo scrittoio, aspettava con le braccia incrociate. Il suo sguardo fisso ci venne incontro, i tappeti soffocavano i passi degli ufficiali che uscivano mentre un orologio, lontano, suonava sette volte. Mussolini sembra stanco, angosciato come un uomo condannato a morte. Pallido, dall’apparenza cadaverica, sulle ossa la pelle tirata comprime le vene che si riempiono e si svuotano in sequenza. La mandibola più dura di un incudine. Quando gli rivolgono la parola inclina il capo per guardare dal basso verso l’altro, e quando parla controlla la posizione dei piedi di chi lo ascolta. Figura tutta d’un pezzo, fredda. Non ride, apparenta un sorriso cinematografico.
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Senza tanti complimenti, dopo le presentazioni di rito, durante le quale lo vedo dare la mano ad ogni giornalista per farsi ricordare il paese e il giornale che rappresenta e memorizzandolo meccanicamente, con sguardo obliquo disse – Allora, che avete fatto in pratica?… (nell’originale in francese: Eh bien, qu’est-ce que vous avez fait de pratique? Ndr) finendo la domanda con un pugno sulla scrivania e tornando a guardarsi i piedi per vedere come erano sistemati, passando una gamba dietro l’altra.
Il signor de Waleffe mise in risalto il lavoro del congresso e lui – il Duce – alla fine esclamò: – J’approubé!!… (Approvo!)
Immediatamente pensai a Luigi XIV – L’Etat c’est moi.. (Lo Stato sono io)
Parlando della necessità di un interscambio di studenti e professori tra le università latine, Mussolini disse senza pensare, credo, che “sarebbe bello, solo che bisognerebbe tornare allo stile universitario antico per raccogliere frutti migliori”. Grave affermazione, per non dire ridicola. Le università di vecchio stampo sono anacronistiche ormai, e non hanno alcun significato nella preparazione attualmente richiesta dagli uomini, dato che finalmente la scienza si è resa indipendente dalla teologia e, al ragionamento imbrigliato in premesse, ha sostituito il ragionamento libero, creativo e fecondo, la ricerca diretta senza dogmi né “domini”.
Il Duce cambia di postura, muove gli occhi come davanti ad una macchina fotografica. E’ malato, dello stesso male che consumò Napoleone. Io credo che il Duce abbia cercato la sua malattia e ora chiede permesso per andarsene a morire a Sant’Elena.
L’intervista, piuttosto breve dato che risultò noiosa tanto a lui che a noi, si concluse. Tese la mano a ciascuno giornalista, cimentandosi nella sua gestualità, ora aggrottando le sopracciglia, ora chiudendo la bocca con fermezza, ora immobilizzando gli occhi etc etc. Il Duce se ne andò, restando solo. Quando gli dissi addio, girandomi a guardare la finestra del suo gabinetto, una finestra ministeriale, Roma aveva indossato la camicia nera della notte.
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Uscendo raccontai subito la mia prima impressione ai colleghi. Mussolini è un artista del cinema. I suoi gesti, i suoi movimenti, tutto sembra studiato in precedenza davanti ad uno specchio e con l’aiuto di altri versatili comici del cinema. Non trascura il minimo dettaglio. Durante l’intervista ho avuto momenti in cui mi sembrava di trovarmi davanti ad un attore, pallido per esigenze di scena, angustiato, febbrile, senza più ricordo della sua energia, se non quella emanata dai suoi occhi affilati in punta, come due frecce di ossidiana.
Quando Mussolini marciò su Roma, con la voce di Nerone deve aver detto, per essere sincero con se stesso: – Che razza di artista si è lasciato scappare il cinema!
“Al Congresso di Prensa Latina” (VIII), Roma 1 agosto 1925
tysm literary review
vol. 16, issue 21
january 2015
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