philosophy and social criticism

Mircea Eliade tra scienza delle religioni e ideologia “guardista”

"Mircea Eliade"

Mircea Eliade

di Alfonso M. Di Nola

L’aspra e pesante polemica intorno al fascismo, al filonazismo, all’antisemitismo dello storico delle religioni e romanziere Mircea Eliade e al suo diretto e responsabile coinvolgimento nelle posizioni reazionarie della Guardia di Ferro rumena, è indubbiamente conclusa.

La denunzia dei precedenti ideologici del personaggio – precedenti che appartengono non già a giovanili smarrimenti, ma a consapevoli scelte compiute in piena maturità, intorno ai trenta anni – fu dallo scrivente fatta nel 1977 in un breve saggio pubblicato sulla “Rassegna mensile di Israel” (Mircea Eliade e l’antisemitismo, gennaio-febbraio 1977, pp. 12-15). In quel saggio, avvalendomi di mie personali informazioni e dei risultati di una tesi di laurea con me discussa da Gennaro Evangelista su Ideologia e falsa coscienza di M. Eliade presso l’Università di Siena, mi riferivo ad una precisa fonte rumena pubblicata in Israele (“Toladot. Buletinul Institutului Dr. J. Niemirower”, contenente un Dosarul Mircea Eliade, “dossier su M.E.”).

Il dossier romeno-israeliano dava le prove dell’adesione convinta dello storico all’ideologia nazifascista e ricordava come Mihail Sebastian, giovane ebreo che era stato amico di Eliade, riferendosi agli anni della reazione guardista in Romania, scriveva nella rivista “Cuvîntul”: “La posizione pro-nazista di M. Eliade divenne estremamente categorica, e il suo atteggiamento antisemita… non è mai soltanto la manifestazione esteriore di un carrierista, ma rivela in profondità un aspetto interiore del carattere”. Seguendo gli insegnamenti di Ionescu, divenne uno dei dottrinari della Guardia di Ferro e scrisse articoli a difesa delle posizioni dei legionari contro i movimenti di resistenza del popolo rumeno, in un linguaggio mistico-utopico, caratteristico di tutta la retorica nazifascista europea, attendendosi dalla pseudoideologia reazionaria la vittoria finale e il capovolgimento del mondo (“Egli ama la Guardia, spera in essa e attende la vittoria”, fonte citata). Quando Gogu Radulesco, uno dei giovani antifascisti rumeni, fu arrestato e torturato nella sede della Guardia di Ferro, espresse la sua soddisfazione: “Quando si è parlato dello studente democratico Gogu Radulescu… M. Eliade è del parere che si è fatto bene. Ciò spetta ai traditori”. Nel periodo della guerra civile spagnola, è a fianco dei franchisti, e il 17 dicembre del 1937 (ha allora precisamente trent’anni) pubblica nella rivista antisemita “Buna vestire” un articolo in cui riconferma la sua fede nel legionarismo e nel nazismo: “Può la stirpe porre fine alla vita sfinita dalla miseria e dalla sifilide, invasa da ebrei e indebolita dagli stranieri?”. Per lui, la rivoluzione legionaria dovrebbe giungere “alla meta suprema della redenzione della  razza”, secondo i principi che mutuava dai deliri teorici di Cornel Codreanu, fondatore e capo carismatico della

Guardia di Ferro. Quando il 30 ottobre del 1938 Codreanu cade vittima di una faida di gregari delle sue orde, “M. Eliade e sua sorella sono desolati e si considerano in lutto”. Allo scoppio della guerra con la Polonia “è divenuto più filogermanico che mai, più antisemita di prima”, e considera la resistenza di Varsavia “una resistenza giudaica”. Nell’estate del 1942 (ha ormai trentacinque anni!), quando è decisa la deportazione in massa degli ebrei rumeni, Eliade condivide le posizioni di Eichmann: “Nella primavera del 1942 fu firmato fra Mihail Antonescu e Gustav Richter, delegato di Eichmann, l’accordo per la deportazione di tutti gli ebrei nei lager di sterminio in Polonia. M. Eliade, come diplomatico, conosceva certamente la sorte che si preparava per gli Ebrei”. É evidente, per quest’ultimo caso, che il suo silenzio accondiscendente, come è avvenuto per altri personaggi della storia di quegli anni di vergogna, è la scelta di una diretta corresponsabilità.

Queste notizie, da me pubblicate nel 1977, mentre cresceva e durava l’ondata di ammirati consensi di fronte all’opera storico-religiosa di Eliade, venivano esplicitamente riprese nel 1979 da Furio Jesi (Cultura di destra, Torino, Garzanti, 1979, pp. 38 ss.), che sopra di esse fondava l’analisi della decisa componente nazifascista dello storico rumeno, accentuando principalmente il rilievo delle analogie esistenti fra la mistica della morte, peculiare delle pseudo-ideologie della Guardia di Ferro, e la lettura di una leggenda rumena su un sacrificio di fondazione che lo Eliade aveva dato (Maître Manole et le Monastère d’Arges, apparsa per la prima volta in rumeno nel 1943, indi nel volume De Zalmoxis à Gengiskhan, Parigi, Payot, 1970, pp. 162-185. Intanto, nel 1976 Boringhieri aveva pubblicato a Torino il Giornale di M. Eliade (apparso con il titolo Fragments d’un journal, nel 1973, Parigi, Gallimard). Si trattava di una sorta di autobiografia, singolarmente squallida e piagnucolosa, ben distante anche stilisticamente dal gusto barocco che costantemente accompagna gli scritti eliadiani, ma si trattava soprattutto di un’abile mistificazione pseudodocumentaria nella quale l’Eliade di tendenze nazifasciste e antisemita cancellava artatamente tutti i suoi precedenti, seguendo un costume di opportunismo politico che lo ha accompagnato per tutta l’esistenza. In quel diario – e lo aveva scritto nel ricordato intervento del 1977 -, si rivelava un personaggio querulo, ambiguo, ammalato di un decadentismo misticheggiante di influenza junghiana e di ritardati sperimentalismi esistenzialistici di matrice proustiana. Riusciva soprattutto a censurare, nella notarile registrazione degli incontri e delle vicende spesso insignificanti, gli avvenimenti che in realtà lo avevano costretto in un breve periodo nel campo di concentramento e, infine, ad abbandonare la Romania.

Nel 1986 Crescenzo Fiore pubblicava il breve saggio Storia sacra e storia profana in Mircea Eliade (Roma, Bulzoni, 1986), diretto soprattutto a riassumere, sulla base dei testi eliadiani, la concezione della storia. L’autore, però, assumeva una posizione decisamente critica nei riguardi di tale tematica eliadiana e ne denunziava i paralleli fin troppo evidenti con le concezioni mistico-magiche e irrazionalistiche di Julius Evola e di René Guénon, né mancava di rifarsi, nello sforzo di individuare le radici storiche della formazione eliadiana, alle osservazioni che aveva avanzato Furio Jesi, arricchendole di alcuni importanti elementi documentari. Marco Tarchi, infatti, introducendo Visto da destra di A. De Benoist (Akropolis, Napoli, 1981) segnalava il nome di Eliade, accanto a quello dell’italiano Gedda, fra i componenti del comitato scientifico della rivista di destra Nouvelle Ecole diretta dallo stesso Benoist, mentre Ion Marii e Claudio Mutti, nella premessa all’edizione italiana di Circolari e manifesti di C.Z. Codreanu, il fondatore del legionarismo nazi-fascista romeno, poneva Eliade fra i sostenitori della cosiddetta spiritualità guardista, che sostennero direttamente il Codreanu (C.Z. Codreanu, Circolari e Manifesti, Parma, ed. All’insegna del Veltro, 1980, pag. 9). Sempre con questa attenzione ai documenti, Fiore (op. cit., p. 22), ricordava le fonti dalle quali, a quell’epoca, risultavano gli amichevoli rapporti fra Evola e Eliade: Adriano Romualdi segnalava, infatti, l’incontro che lo Evola aveva avuto, a Bucarest, con Eliade e Codreanu, proprio quando Eliade “faceva capo agli ambienti della Guardia di Ferro” (A. Romualdi, Julius Evola: l’uomo e l’opera, Roma, ed. Volpe, 1979, p. 56); e proprio quell’incontro era testimoniato dal medesimo Evola: “A Bucarest conobbi anche Mircea Eliade, che dopo la guerra doveva acquistare una notorietà per molte opere di storia delle religioni, e col quale sono rimasto tuttora in contatto. A quel tempo egli faceva parte dell’ambiente di Codreanu e ave va già seguito l’attività del “Gruppo di Ur” ” (J. Evola, Il cammino del cinabro, Milano, Scheiwiller, 1972, pp. 139 ss.). Evidentemente nel citato Journal l’Eliade aveva abilmente taciuto la sua relazione con Evola, che di fatto era nata dalla evidente empatia spirituale e culturale, della quale parleremo. Ma nel 1987, Marin Mincu e Roberto Scagno pubblicavano, almeno in parte, un epistolario di Eliade con amici italiani, nel quale appaiono quattro lettere di Evola ad Eliade, documentanti una corrispondenza fra i due certamente più fitta ed impegnativa. Lo Evola, oltre a scambiare con lo Eliade sollecitazioni e pressanti raccomandazioni perché si intervenisse su editori per la traduzione di opere dell’uno o dell’altro, lamentava in Eliade il disinteresse per Guénon, del quale non vedeva citate le opere, mentre era citato “quell’amabile uomo di Pettazzoni” (lettera del 15 dicembre 1951) o avanzava la segnalazione di paralleli fra l’opera da lui intrapresa contro la filosofia e le elaborazioni     storico-religiose di Eliade (lettera del 31 dicembre 1951; in M. Mincu e R. Scagno, Mircea Eliade e l’Italia, Milano, Jaca Book, 1987, pp. 252 ss.).

Nel 1984 Ioan Petru Culianu, discepolo diretto di Eliade, interveniva nel dibattito con un scritto abbastanza rude e sconsiderato per poter essere collocato in quelli ascrivibili alla “polemica bassa” (Mircea Eliade und die blinde Schildkröte, in Die Mitte der Welt. Aufsätze zu Mircea Eliade, a cura di H.P. Dürr, Francoforte s.M., Suhrkampf, 1984, pp. 216 ss.). Culianu, mettendo in dubbio l’autenticità della fonte rumeno-israeliana da me utilizzata, intendeva sostanzialmente negare, a difesa del suo maestro, il razzismo e la di lui ascrizione ai movimenti antisemitici e nazifascisti rumeni. É sintomatico che il medesimo Culianu scriveva per il già citato volume Mircea Eliade e l’Italia (pp. 89 ss.) un breve articolo di interpretazione antirazzista (sic) del pensiero eliadiano, intitolandolo Mircea Eliade e la lunga lotta contro il razzismo. Per quanto riguarda questo intervento del Culianu, si trattava di insistere su quel recupero di una verginità politica e ideologica che del resto l’abile opportunismo di Eliade aveva già più volte tentato di ricostruirsi attraverso la rimozione delle sue radici. Non possiamo qui mancare la segnalazione di una significativa conversione dello stesso Culianu che, ultimamente, nella rivista “Abstracta” (n. 35, marzo 1989, pp. 38 ss.) tempera il suo panegirico di Eliade con l’esplicito riconoscimento delle posizioni critiche assunte nei riguardi delle sue origini: “Deluso… Nae Ionescu passa all’offensiva diretta (contro il re) e, nel 1935, il suo giornale prende la difesa dell’organizzazione terrorista Guardia di Ferro, che professava una forma di fascismo autoctono, misticoide e, sebbene a quanto sembri non razzista, fortemente antisemitico… Nel 1937… Nae Ionescu si schiera completamente (a favore della Guardia di Ferro), e Mircea Eliade lo segue… scrive sei o sette articoli a favore della Guardia, di cui due o tre, riletti ora a distanza di più di quarant’anni, sono sconcertanti”, il quale riconoscimento esplicito non risuona in Culianu come la corretta accettazione della realtà, ma gli consente di insistere contraddittoriamente sul dato che lo Eliade non fu un antisemita né un filonazista.

Nel 1986 (secondo la data di sovracoperta, ma in effetti nel 1987) interveniva nella questione Vittorio Lanternari con un suo articolo diretto principalmente a riassumere la resistenza della scuola storicistica italiana, dal Pettazzoni al Lanternari medesimo, nei riguardi dell’irrazionalismo eliadiano. Ma in quel preciso contesto, ricostruiva le fila della polemica politica sullo scrittore rumeno, riesaminando gli interventi dello scrivente, di Furio Jesi, di Fiore, di Culianu e ad essi aggiungendo una dichiarazione raccolta dalla viva voce di Ambrogio Donini, che lo aveva ragguagliato circa dirette informazioni sul fascismo e l’antisemitismo di Eliade. Ma Lanternari sembrava concludere circa l’antisemitismo di Eliade con una sorta di epoché del giudizio, ritenendo che la fonte utilizzata da me e poi dagli altri (il dossier pubblicato in Israele) non era pienamente attendibile, perché nessuno di noi aveva avuto modo di consultare direttamente il documento pubblicato in Israele (di fatto pervenutomi, ad Arezzo, soltanto in una segnalazione riassuntiva e manoscritta e non reperito nell’originale nonostante qualche tentativo, non portato a termine, nelle emeroteche israeliane). All’intervento di Lanternari, apparso su “La Critica Sociologica” (n. 79, autunno 1986, pp. 67 ss.), seguiva, illuminante definitivamente, almeno in parte, uno scritto di Radu Ianid (Mircea Eliade e il fascismo in “La Critica Sociologica”, n. 84, 1987-88, pp. 16 ss.). Ioanid scrive: “La posizione di Mircea Eliade nei confronti del fascismo in generale, e in particolare di quello rumeno, è stata quella dell’impegno totale. Negli scritti degli anni 1937 e 1938 si ritrovano i temi di base dell’ideologia guardista: il culto del terrore, della morte, del capo supremo; il misticismo tipicamente legionario; il tema guardista dell’uomo nuovo; l’elitismo legionario; il culto della violenza; la xenonofobia; l’antisemitismo; l’elogio del corporativismo e dei regimi fascisti di Roma e di Berlino. Mircea Eliade non ha maneggiato la pistola e il manganello; non ha partecipato agli omicidi individuali e collettivi organizzati dalla Guardia di Ferro. Egli era “soltanto” un intellettuale che si era messo con fervore a disposizione del fascismo, rafforzandolo con il suo prestigio personale; egli era “soltanto” un ideologo della Guardia di Ferro e un alto funzionario fedele al regime del generale Antonescu.

La responsabilità (anche solo morale) dell’intellettuale militante di un movimento fascista è minore di quella del sicario, del semplice esecutore? Il fatto che qualcuno abbia conseguito risultati di reale valore scientifico può far sì che siano deliberatamente ignorate le sue scelte politiche, anche se queste comportano conseguenze drammatiche non solo per l’individuo in causa, ma anche per la sua comunità?”. Radu Joanid non solo ha avuto l’occasione di consultare direttamente il famoso “Bulletin” dell’Istituto Dr. J. Niemirower pubblicato in Israele nel 1972, confermando tutti i segnali razzisti e fascisti di Eliade, quali lo scrivente li aveva denunziati, ma ha potuto dare la documentata elencazione degli squallidi interventi di mistica razzista e reazionari di Eliade, con le prove che gli vengono da una estesa bibliografia rumena e con il rilievo dei fenomeni di “falsa amnesia” eliadiana da noi indicati.

La testa al toro, come si suol dire, appare definitivamente tagliata dalla recentissima pubblicazione di un libello della destra reazionaria (1988?), intitolato Mircea Eliade e la Guardia di Ferro di C. Mutti (Parma, Edizioni all’insegna del Veltro), che, ora rivendicando positivamente l’appartenenza di Eliade al movimento della Guardia di Ferro (e dopo le rivelazioni documentate di Joanid non ve ne era bisogno), ora ricostruendo le vicende di Eliade nel campo di concentramento di Miercurea Ciucului, ancora una volta difende Eliade dal provato ed evidente antisemitismo, introducendo, in una fiorita retorica di indubbie origini, le solite motivazioni razzistiche (riferendosi al primo documento pubblicato da me su “La Rassegna Mensile di Israel” nel 1977): “così Alfonso Maria di Nola traduceva in italiano le parole attribuite ad Eliade, divulgandole tramite un foglio d’ordini israelitico; quest’opera di erudizione dei

gojim veniva proseguita da un “intellettuale di razza rara”, Furio Jesi… I due intellettuali di “razza rara” che in Italia fecero conoscere la “scoperta” di Toladot si collocavano nella scia di Ambrogio Donini, il quale già nel 1949 aveva fulminato contro Eliade un rozzo anatema”, e via di seguito.

Né varrebbe citare questo testo se non si inserisse in modo rilevante nella polemica per molti motivi: a. esso rappresenta la legittima operazione di recupero della figura di Eliade all’ambito di destra reazionaria cui ormai è indubbio  che responsabilmente lo  scrittore appartenne;  b.  esso  documenta con cura i rapporti di Eliade con Codreanu (del quale costante fu nello scrittore l’esaltazione e probabile la stesura di  una  biografia  agiografica  inedita),  e  i  rapporti  anche  ideologici  con  Evola;  c.  esso  denunzia apertamente i camuffamenti opportunistici di Eliade, che, tuttavia, si sarebbe rivelato nella sua vera vocazione all’interno dei romanzi e in cifra criptica (“esiste… una parte della produzione eliadiana in cui il dato autobiografico non è dichiarato, ma è spesso abilmente dissimulato nel contesto di un trama romanzesca”,  op.  cit.,  p.  7); d.  segnala,  al fine della ricostruzione della carriera e del carrierismo guardista di Eliade, il giornale postumo, ben diverso dai Fragments d’un journal tradotto in italiano nel 1976 (la storia reale dei rapporti con il nazifascismo rumeno è confessata da Eliade in Mémoire I, 1807- 1937. Les promesses de l’équinoce, Parigi, 1980, e in Fragments d’un journal lI, 1970-1978,   Paris, 1981); e. documenta l’elezione di Eliade a deputato del gruppo di Codreanu e della Guardia di ferro; f. segnala l’artificiosità dell’iniziale tentativo di Culianu (poi smentito nella sua ultima citata retractatio) di rendere a Eliade una sua presunta verginità politica e ideologica (“Il tentativo fatto da Culianu per “riabilitare”  Eliade  agli  occhi  del  pubblico   democratico   e  benpensante…  non  sembra  riuscito perfettamente…”, op. cit., p. 43).

Questa ricognizione dell’Eliade reale è possibile soltanto attualmente e le testimonianze della sua educazione nazifascista e antisemita erano ignote, nella prima fase esplosiva della diffusione delle sue opere in Italia, a molti studiosi che, pur avendo sentore di precedenti più o meno oscuri, vollero per una sorta di pietà storica, che certamente oggi appare in tutta la sua infondatezza, distinguere l’Eliade uomo dall’Eliade storico delle religioni, quasi che ci si potesse appellare ad un criterio differenziante opzioni ideologiche intensamente vissute e decisamente formative dalle proiezioni teoriche che appaiono negli scritti. Tali posizioni di una tolleranza, attualmente deprivata da ogni giustificazione storica, furono partecipate da molti e potrebbero essere riassunte esemplarmente in un giudizio che, nel

1960, Raffaele Pettazzoni pronunziava velatamente e con intento giustificatorio: “la filosofia di Eliade risente del tristo tempo in cui egli era vissuto come tutti noi, e forse delle sue vicende personali” (Gli ultimi appunti di R. Pettazzoni, in Studi e materiali di storia delle religioni, vol. XXXI, 1960, p. 35; e cfr. su questo giudizio le mie osservazioni avanzate già nel 1977 nel citato articolo della “Rassegna mensile di Israel”, p.15).

Ora il rischio antidemocratico e fascista rappresentato da Eliade sarebbe finito con lui, se esso non andasse inserito nel più ampio contesto della sua ampia teorizzazione storico-religiosa che, sulla base dei dati biografici, deve ormai essere considerata come la proiezione delle ideologie reazionarie dell’autore. Lo iato aperto fra lo Eliade storico delle religioni e l’Eliade reazionario non è più accettabile e bisogna pure avere il civile coraggio di demolire la mitologia incantatrice di un uomo che ha influito, con teorie reazionarie abilmente contrabbandate, su una generazione di studiosi anche a sinistra (si ricordi che Pettazzoni è stato suo amico e che G. Scholem, ignorandone i pesanti trascorsi antisemitici, gli rese esplicito omaggio con un suo contributo nella raccolta Myths and Symbols. Studies in Honour of Mircea Eliade a c. di J.M. Kitagawa e C.H. Long, University of Chicago Press, 1969).

Ora uno dei punti fondamentali nel quale già si era concentrato l’allarme sulle teorie eliadiane consisteva nella denunzia più volte fatta del suo irrazionalismo, struttura-base delle sue ipotesi interpretative del dato religioso.

Mentre per un lato le utopie eliadiane paralizzavano le capacità critiche di molti studiosi, venivano passivamente accettate, si spostavano anche verso la cultura non specialistica, sollecitavano l’interesse dei cattolici a motivo della difesa, in esse ambigua, di una sacralità declinante, vi furono in Italia precisi interventi che sollevavano interrogativi critici sulla consistenza del pensiero dello scrittore rumeno o ne segnalavano apertamente l’irrazionalismo da ascrivere all’intero e più ricco filone dell’irrazionalismo europeo, che, partendo da lontane origini, era stato rappresentato nel nostro Paese da Evola e dai gruppi del cosiddetto “razzismo” spiritualistico (contraddizione in termini poiché non ha consistenza una coloritura “spiritualistica” del razzismo, che, quale che siano le forme nelle quali viene veicolato, resta sempre un attentato alla dignità umana, più grave quando quelle forme si presentino insinuanti, sotterranee e sottili).

In sostanza, quando ci si riferiva ad Eliade come ad uno dei rappresentanti dell’irrazionalismo – e lo si faceva nell’orizzonte dell’insegnamento storicistico o di quello marxistico -, la denominazione “irrazionalismo” copriva la più grave realtà di una scelta nazifascista, reazionaria e antisemitica, della quale nessuno, prima del 1977 (data dell’articolo su “Rassegna mensile di Israel”) conosceva la dimensione,  posteriormente  accresciutasi attraverso  una  documentazione  imponente,  che,  nella  mia impressione, avrà ancora conferme e sviluppi. Le prospettive evasionistiche, alienanti, destorificanti del discorso eliadiano, cadenzate da una ripetitività ossessionante in tutte le sue opere, appartenevano, di fatto, non ad una nuova fenomenologia religiosa contrabbandata come “storia”, pienamente legittima quando era stata espressa dalle correnti dell’irrazionalismo di Otto e di Van der Leeuw, ma travestivano il quadro profondo e invadente della mistica che aveva accompagnato in Italia il fascismo, in Germania il nazismo, in Romania quel guardismo che si distanziava dall’uno e dall’altro per le sue suggestioni pseudoreligiose e per le sue solidarietà con una sorta di delirio cristianeggiante che faceva di Codreanu una sorta di messia e che usava riferimenti ad una “nuova umanità”, dominata e protetta dall’Arcangelo Michele.

La struttura ideologica delle opere di Eliade, e qui ci riferiamo ai progetti interpretativi disegnati nelle opere cosiddette “teoriche” e non storiche, ha una sua propria architettura che solo apparentemente può apparire complicata e che, invece, per i suoi innumeri ricalchi in variazioni e cadenze, va ricondotta ad un piano basilare molto banale e semplicistico. La copertura esteriore dell’impianto ideologico è pretenziosamente “iniziatica”, presuppone, cioè, l’accessibilità conoscitiva soltanto al numero di eletti che riescano a sciogliere, al di sotto del velame baroccheggiante delle tonalità linguistiche, i significati interiori e “salvifici” di un messaggio esplicitato in cifra apparentemente storica, e ne ricavino in proprio una sorta di liberazione dagli errori nei quali l’atteggiamento “profano” li sommerge. Emerge, così, una petulante intenzione missionaria, caratteristica di ogni “spiritualismo” da quello tipico della cosiddetta mistica fascista ai deliri conversionistici del nazismo, alla pretesa di illuminazione che circola all’interno del guardismo rumeno. Il veicolo del missionarismo, la Parola attraverso la quale esso passa e diviene capace di trasformare il profano, sollevandolo al livello di una nuova rivelazione, è la stessa storia delle religioni, non più scienza legata al dato storico, ma pseudofilosofia carica di messaggi, riducibili all’unico tema della salvazione rivelata dal profeta.

Si tratta, in fondo, di una pseudomistica che parte da un’incapacità di accettazione della storicità e dell’economicità, considerate nel loro aspetto di devastante designificazione dell’uomo, la cui natura, eterna, tendente ad attingere una presupposta realtà unica, appare mortificata, imprigionata e degradata nel suo falso vivere storico. Il tema pseudomistico ricorre in tutte le opere secondo l’ossessionante e semplicistica cadenza già indicata: “Ciò che distingue lo storico delle religioni da uno storico tout court sta nella circostanza che egli si incontra con fatti che, per quanto storici, rivelano un comportamento che supera di molto i comportamenti storici dell’essere umano… L’uomo integrale [che significa? n.d.s.]conosce situazioni eccedenti la sua condizione storica… Più una coscienza è sveglia, più supera la propria storicità” (Images et symboles, Parigi, Gallimard, 1952, pp. 40 ss.); “Prendendo in considerazione lo studio dell’uomo non solo come essere storico, ma anche come simbolo vivente, la storia delle religioni potrebbe divenire, mi si scusi il termine, una metapsicoanalisi. Poiché essa porterebbe a un risveglio e ad una presa di coscienza dei simboli e degli archetipi arcaici, viventi o fossilizzati nelle tradizioni religiose dell’intera umanità… Si potrebbe parlare anche e correttamente di una nuova maieutica; proprio come Socrate faceva partorire allo spirito i pensieri che esso conteneva senza saperlo, la storia delle religioni potrebbe partorire un uomo nuovo, più autentico e più completo; poiché attraverso lo studio delle tradizioni religiose, l’uomo moderno non ritroverebbe soltanto un comportamento arcaico, ma prenderebbe coscienza della ricchezza spirituale implicita in tale comportamento” (op. cit., pag. 44); “Riprendendo coscienza del suo proprio simbolismo antropocosmico – che è soltanto una variante del simbolismo arcaico – l’uomo moderno realizzerà una nuova dimensione esistenziale, totalmente ignorata dall’esistenzialismo e dallo storicismo attuali: è un modo di essere autentico e più grande, che lo difende dal nichilismo e dal relativismo storicistico senza, tuttavia, sottrarlo alla storia. Poiché la stessa storia potrebbe un giorno ritrovare il suo vero significato: quello di epifania di una condizione umana gloriosa e assoluta” (ibidem, p. 45); “Prima della scoperta, la verità che è stata scoperta era là e soltanto non la si vedeva o non la si comprendeva o anche non la si sapeva utilizzare. Così un’ermeneutica creatrice [leggi: il metodo eliadiano applicato alla storia delle religioni; n.d.s.] svela significati che non erano stati precedentemente afferrati, ovvero li mette in rilievo con tale vigore che, dopo aver assimilato questa nuova interpretazione, la coscienza non è più la stessa” (La nostalgie des origines, Parigi, Gallimard, 1971, sull’edizione ingl. di Chicago, 1969, p. 131).

In conseguenza la storia delle religioni, da che è indagine sui dati appartenenti, in forma in essa peculiare, ad ogni altra storia possibile, si ricostituisce come area di travaglio interiore e di vissuto esperienziale trasformante in chi abbia percepito con Eliade la conflittualità intrinseca fra datità storica e “significato” di “rivelazione” sottostante al dato bruto: “In conclusione lo storico delle religioni che non accetta l’empirismo o il relativismo di talune scuole sociologiche e storiche alla moda, si sente frustrato. Sa di essere condannato a lavorare esclusivamente su documenti storici, ma nello stesso tempo avverte che tali documenti gli dicono qualche cosa che supera il semplice fatto che in essi si riflettono delle situazioni storiche. Sente confusamente che gli si rivelano delle verità importanti sull’uomo e sulla relazione dell’uomo con il sacro, ma non sa come afferrare queste verità” (ibidem, p. 118). Sono temi che qui sarebbe poco utile rincorrere nella loro ricorrenza sfrenata in tutte le pagine eliadiane: il discorso sarebbe poco illuminante ed anche deprimente.

Diviene, invece, utile segnalare i termini entro i quali si dispiega tale dialettica destorificante e misticheggiante, nella quale Eliade, attingendo anche alle sue esperienze indiane, capovolge il reale storico in irreale e viceversa. Evidentemente al di là dell’aperto parallelismo con la filosofia induistica, corrono gli stessi motivi di ripudio della storia presente che sono all’interno dei deliri nazifascisti: “… l’uomo delle culture tradizionali si riconosce come reale soltanto nella misura in cui cessa di essere sé medesimo… In altri termini, egli si riconosce come reale, cioè come “veramente sé medesimo” proprio nella misura in cui cessa precisamente di esserlo” (Le mythe de l’éternel retour, Parigi, Gallimard, 1949, p. 62).

Questa trasformazione e reversione illuminante sono possibili in quanto agiscono sull’uomo, proprio nella rivelazione storico-religiosa, i cosiddetti archetipi, un termine di irrisolte ambiguità e polivalenze che lo Eliade, certamente assumendolo da Jung, con il quale ha avuto lunghi rapporti, adatta alla sua filosofia. Gli archetipi, in questo senso, sono i modelli ideali che si esprimono nell’esistenza dell’uomo arcaico, come riflessi delle manifestazioni di potenza (cratofanie) presenti nell’ordine cosmico, e che consentono la liberazione dell’uomo attuale, storicizzato e degradato, dalla sua condizione, riconducendolo all’intuizione vissuta della sua vera natura astorica. Quindi punto di riferimento resta un cosiddetto “uomo arcaico”, che è la proiezione immaginaria di una perfezione partecipante l’ordine cosmico, contrastante con ogni dato storico, che necessariamente ci riporta ai bestioni vichiani e ai reperti preistorici. I paralleli con altre teorie irrazionalistiche sono immediati: per esempio con l’uomo inesistente immaginato dal fascismo irrazionalistico di J. Evola, contrapposto all’uomo tecnologico e moderno, che opera nell’ambito della ragione e che ha cancellato la perfezione primordiale della virilità solare o aria (con tutte le conseguenze operative del razzismo cosiddetto spiritualistico); o l’uomo edenico, l’Adam perfetto, del quale la tradizione cattolica accentua la caduta, come base della storia presente quale malessere e peccato; o, infine, in ambito storico-religioso, l’uomo che la teologia scolastica del padre Schmidt sognava come destinatario della primitiva, diretta rivelazione (sarebbero da studiare sotto questo profilo le sotterranee analogie fra Eliade e Schmidt).

Ci si trova in presenza di ipotesi variamente formulate che considerano la situazione storica dell’uomo che opera sul reale e costruisce il mondo come frutto di un processo regressivo e involutivo di decadenza, da inserire in tutte le tipiche ideologie della reazione da De Maistre in poi. Eliade rinnova, nei suoi elaborati, proprio queste idee: “…il reale per eccellenza è il sacro; poiché solo il sacro esiste in maniera assoluta, agisce in modo efficace, crea e fa durare le cose”, (op. cit., pag. 29); “… il Cristianesimo si rivela senza dubbio come la religione dell’uomo decaduto: e ciò nella misura in cui l’uomo moderno è irrimediabilmente integrato nella storia e nel progresso e dove la storia e il progresso sono una caduta comportante, l’una e l’altra, l’abbandono definitivo del paradiso degli archetipi e della ripetizione” (op. cit., pag. 240).

È totalmente insignificante continuare nel reperimento delle contestualità eliadiane che ampliano e confermano questa tipica visione del mondo, che per se stessa comporta la paralisi delle possibilità metodologiche della storia delle religioni e si affermano nella sua pregnanza di tipo missionario e visionario, prossimo alle proposte pseudocristiane dei teorici della Guardia di Ferro, quando hanno fatto riferimento a Codreanu come all’uomo nuovo che avrebbe inaugurato la nuova umanità. In questo senso anche Eliade si costituisce per alcuni suoi lettori, disposti a digerirne i proclami iniziatici, come un “profeta” nel senso deteriore del termine; e che tale sia stato per la Guardia di Ferro, ormai non è più revocabile in dubbio.

Queste dure osservazioni critiche, dettate da un impegno etico-politico di demistificazione, non impediscono di considerare positivamente l’ampia opera di Eliade come storico e ricostruttore di grandi quadri storici della vita religiosa. Ci si riferisce qui principalmente alle opere sullo yoga, sulle tecniche dell’estasi e sullo sciamanesimo, forse le uniche, per impegno filologico, l’ampiezza delle conoscenze e la chiarezza delle interpretazioni, recuperabili agli studi storico-religiosi. Resta invece al di fuori della storia delle religioni il suo celebre Trattato, pubblicato in Francia nel 1968, il quale Trattato, inesorabilmente distante da ogni criterio metodologico proprio della storia delle religioni, resta un esempio di letteratura fenomenologica aggravata dagli intenti misticomissionari ricordati.

La critica ad Eliade, in termini più o meno espliciti, intesa a sfatare la nebulosità iniziatica e a individuare i processi ideologici decisamente destorificanti, inizia nella scuola storico-religiosa italiana con le annotazioni che il Pettazzoni, poco prima della morte, segnava ai margini di Le mythe de l’éternel retour del 1949. Tali notazioni venivano successivamente rese pubbliche da A. Brelich nel 1960 (Studi e Materiali di Storia delle Religioni, XXXI, pp. 31-55). Pettazzoni, senza conoscere con sicura informazione la storia fascista di Eliade, aveva acutamente diagnosticato i profondi rischi che sono nel suo esasperato irrazionalismo, e aveva segnalato la necessità metodologica di capovolgere il rapporto fra sacro e profano, come è istituito in Eliade, proprio ai fini della corretta interpretazione dei dati religiosi. Dagli appunti di Pettazzoni emergeva l’attenta identificazione dei rapporti esistenti fra realtà laica o profana, unica realtà nella quale l’uomo si costituisce, e l’illusione del sacro. La storia, contrariamente a quanto Eliade ha predicato, non è per Pettazzoni la storia eterna o la non-storia o la storia assoluta, in cui si realizzi un uomo religioso, come “vero uomo”. Al contrario, la religione costituisce, in rapporto alla profanità o laicità, un momento di alienazione e di fuga, a mezzo del quale l’uomo riesce a superare alcune crisi del tempo e torna più validamente alla profanità medesima. Proprio in questo interessante pezzo pettazzoniano, la decisa e limpida condanna di Eliade inizia ad essere formulata in termini di “irrazionalismo”, che, come abbiamo detto, possono essere attualmente risolti, sull’evidenza dei documenti, in termini di “irrazionalismo reazionario di matrice nazifascista e guardista”.

Queste posizioni critiche appaiono indubbiamente continuate nelle opere degli altri appartenenti alla scuola storica italiana, quali il Lanternari, il Brelich e ultimamente il Fiore, il quale però ha con chiarezza esplicitata una sua ipotesi sulla genesi nazifascista dell’irrazionalismo eliadiano. Va pure ricordato che lo scrivente in tutto il suo lavoro di elaborazione rifluito nei sei volumi dell’Enciclopedia delle Religioni, apparsa a Firenze (editore Vallecchi), dal 1970 in poi, ha costantemente denunziato la posizione irrazionalistica e antistoricistica di Eliade, cui, peraltro, ancora ignorando il controverso carrierismo politico dello scrittore, aveva dedicato nel 1964 una sua ricerca pubblicata a Torino presso Boringhieri (Parole segrete di Gesù). É sintomatico che lo Eliade, ormai restituito abilmente ed agiograficamente ad una sua pretesa verginità ideologica, fu infastidito dai giudizi che lo scrivente esplicitamente avanzava sulla sua opera teorica. E a tale proposito, recensendo in forma elogiativa l’Enciclopedia nella sua rivista History of Religions (XII, 3, febbraio 1973, pp. 288 ss), segnalava come particolarmente interessante, nella ampia serie di tematiche storico-religiose, le voci relative all’Ebraismo e all’Antisemitismo, con un intervento che si profila come excusatio non petita, e in una nota rilevava i molti passi dell’Enciclopedia nei quali « sono criticato per le mie premesse “junghiane” e “irrazionalistiche” e per il mio irrimediabile coinvolgimento nelle “generalizzazioni”».

[cite]

da Marxismo oggi, Anno III, nn. 5/6, settembre – novembre 1989, pp. 66-71

TYSM LITERARY REVIEW

VOL. 18, ISSUE NO. 21

FEBRUARY 2015

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