Max Jacob in Italia
M. D.
Max Jacob, Carnets, a cura e traduzione di Adriano Marchetti, Marietti, Milano 2004.
Il dio dei mistici si rivela spesso dietro apparenze bizzarre, sotto forme oscure, al termine di notti accidentate e piene di insidie brutali. A Max Jacob l’immagine di Cristo apparve per ben due volte. La prima volta fu sul muro della propria stanza, al numero 7 di rue Ravignan. La seconda, in un anonimo cinema di periferia, durante una altrettanto anonima proiezione. «Numero 7 di rue Ravignan, resterai nella cappella del mio ricordo», scriverà una delle liriche de La défense de Tartufe dedicate alla «visitazione» di Cristo.
«Un raggio d’oro si piega e forma una corona. C’è molta gente attorno al mio letto, ma nessuno tranne me lo vedrà. Falò si accendono in lontananza; chi sono io se non uno schiavo in ginocchio, uno schiavo di cui non riconosco lo sguardo?». Nel 1921, all’età di quarantacinque anni, Jacob si ritirerà in un convento a Saint-Benoît sulla Loira. Giunto a Parigi nei primi anni del secolo scorso, Jacob era bretone di nascita e di indole, ebreo per discendenza familiare e convinzione propria. «Ebreo cattolico», continuò a definirsi anche dopo il battesimo. La sua non fu, infatti, una delle tante conversioni dell’epoca, quanto, piuttosto, la sovrapposizione di un «destino per scelta» alla tensione poetica che da sempre lo animava.
Ai viaggi a base di etere delle notti parigine, segnate da una bohème vissuta fianco a fianco con Picasso – suo primo compagno di stanza – Braque, Satie o Cocteau, si aggiunse la contemplazione di quel centro vuoto, di quel «cavo infernale» rappresentato dalla corona di spine di Cristo: «quando la lancia uscì dal cuore di Dio tra i quattro chiodi che delimitavano il Suo Corpo, le spine non furono più una corona, ma un nimbo». Un «buco nero», lo definirà molti anni dopo Jean Genet, posto al centro esatto del «miracolo della rosa». «Del mio Dio», scrisse Jacob , «non offro che questa definizione, e non è un gioco». Quale sia la definizione, non è facile capirlo. Ma il dio dei mistici -ammesso che ne esistano altri – è sempre «contraddizione, gioco infantile, visione, vacuità».
Appena una anno dopo il suo ritiro volontario nella cella del monastero di Saint-Benoît, Jacob diede alle stampa un volume titolato Arte poetica. Lontano, per certi versi, dalla poesia surrealista e dada a cui aveva, seppur in una forma sui generis, contribuito, l’attenzione di Jacob sembrava ormai rivolta verso un recupero non ingenuo, tanto meno nostalgico, della classicità perduta: «Rimbaud procedeva dalla molteplicità delle idee, lo spirito nuovo rifugge le idee». Lo stile contro le idee, dunque. Adriano Marchetti – tra i massimi studiosi dell’opera di Jacob, a cui si deve anche la versione italiana dell’Art poétique – segnala, a questo proposito, come l’arte, vista da simile prospettiva, non sia più identificabile con una esperienza speculativa e si avvicini piuttosto a «un processo autonomo di metamorfosi» e a una «esperienza immediata di verità segnica». In altri termini, nell’ottica di Jacob, «non resta che corrispondere e accordarsi all’appello della lingua». A Marchetti dobbiamo anche la traduzione e la trascrizione critica dal manoscritto dei Carnets relativi agli appunti presi durante il soggiorno di Jacob in Italia, nel 1925, tra Montecassino, Genova, Roma, Siena e Napoli, città, quest’ultima, dove risiedeva il suo giovane amico Jean Grenier, addetto della locale delegazione culturale francese. Immagini e pensieri si affastellano, negli appunti del poeta che teme sempre più di trovarsi nel ruolo infausto di un turista costretto ad ammirare «bellezze logore a forza di essere ammirate». Eppure, qui come altrove gli uomini appaiono «diversi solo per ciò che li separa da Dio», ossia «l’odio, i modi di uccidere, rubare, fare il lusso». Mentre simili gli sembrano «per ciò che li conduce a lui», ossia «l’amore la pietà, la carità». E poi, oltre all’amore e all’odio, ecco la gioventù e il fascismo: termini di un ossimoro difficile da credere reale. «La gioventù che affolla treni interi e, anche questa mattina, una enorme chiesa per un funerale fascista – fascisti ovunque – manifesti fascisti su ogni muro italiano, feste fasciste, uffici speciali fascisti in tutte le amministrazioni. Fu impossibile, per lui, non rimanere deluso.
«Turista mancato», Jacob darà di sé e delle proprie irraggiungibili mete anche un’altra, folgorante, descrizione: «Io non sono Villon, non sono Omero, né Verlaine, né Chatterton, Corneille, Rimbaud, Io sono un viaggiatore in un paese supremo». Spirito inquieto per definizione, Jacob lascerà la vita monastica nel 1928, per ristabilirsi a Parigi inaugurando il momento più felice della sua attività artistica, ma anche – parole sue – «il più criminale». Dieci anni di droga, poesia, amore e dispendio, prima di ritornare sui propri passi ed essere acconto ancora una volta nel monastero, dove otterrà una nuova, fragile tregua alla sua lotta interiore.
Nell’inverno del 1944, Jacob venne arrestato dalla Gestapo, rinchiuso nel carcere di Orléans e infine internato nel campo di concentramento di Darly. Iscritto nella «lista di attesa» con destinazione Auschwitz, non vi arrivò mai. Morì la notte del cinque marzo, per una congestione. «Dobbiamo essergli grati», aveva scritto di lui Emilio Cecchi – in un articolo edito nel monografico che «Le Disque vert» gli dedicò nel 1923 – «per aver conservata intatta, in quindici anni di religione, la sua fisionomia da caffè concerto». Grati per parole che, secondo Edmond Jabès, uno dei discepoli di questo religioso che «non cercò mai di convertire nessuno, «hanno la leggerezza degli angeli» ma, non di meno, sono capaci sopportare tutto il peso di una «posta in gioco» quanto mai tragica e sofferta. In perfetto disaccordo, verrebbe da dire, con l’inglorioso, e greve, spirito del tempo.
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